Le mie vacanze di Natale di tanti anni fa in un villaggio ai piedi del Gran Sasso d’Italia
ASSERGI (L’Aquila) – Quando frequentavo le scuole elementari, al paese, all’approssimarsi delle festività natalizie, la maestra ci faceva preparare per tempo il presepe in classe, insieme all’albero di Natale. All’addobbo dell’albero e alla collocazione delle statuine sul presepe provvedevano le bambine sotto la supervisione della maestra, mentre noi bambini, nelle giornate precedenti, andavamo a raccogliere nel bosco il muschio e il vischio, e a tagliare un piccolo abete (in quel tempo di minore sensibilità ecologica, si faceva). Era una piccola festa. Insieme alla prima neve, che in genere scendeva copiosa fin dai primi di dicembre ad imbacuccare le cime delle nostre montagne, segnava l’inizio dell’inverno e di un periodo dell’anno che, complice la spensieratezza infantile, mi appariva pieno d’incanto. Prima delle vacanze, le maestre, in sinergia con il parroco del paese (erano altri tempi!), ci facevano imparare a memoria le poesiole che molti di noi avrebbero poi recitato in chiesa la sera dell’Epifania, il 6 gennaio, accanto alla statuina del Bambin Gesù e alla presenza dei fedeli accorsi per il tradizionale bacio del Bambinello.
Ricordo che un anno, in terza o quarta classe, vinsi una piccola gara per aver fatto il miglior tema di Natale, e la maestra, l’indimenticabile Signora Irma Castri Vespa, come premio mi fece scegliere tra un piccolo mappamondo e una confezione di datteri. Stetti molto in dubbio, ma alla fine preferii il frutto esotico, che non avevo mai assaggiato e che immaginavo chissà quanto dovesse essere prelibato. Restai deluso, perché il gusto fu inferiore alle attese e il palato lo dimenticò subito; e così realizzai che il mappamondo mi sarebbe stato molto più utile. Forse presentivo già d’allora ciò che più tardi avrei appreso dal poeta francese Charles Baudelaire, cioè che i più bei viaggi sono quelli che si fanno sulla carta geografica a cavallo della fantasia.
Durante le vacanze capitava spesso che le strade del paese fossero ricoperte di neve. Allora, nei tratti in pendenza – vicino alla piazza della Chiesa, alla “Porta del Colle”, alla “Piazzetta Forno” o lungo “la Costa” – con i coetanei ci ingegnavamo a fare le “scivolarelle”. La frase di rito per dare inizio all’operazione era sempre la stessa: “Quatrà, volem accordà na sciuflarèlla?” Battevamo con i piedi per lunghi tratti la neve ancora fresca e poi, con gli scarponcini, cercavamo di lisciarla fino a renderla scivolosa e compatta. Quando volevamo essere più professionali, alla sera riempivamo d’acqua alcuni recipienti di latta recuperati in una vicina discarica di immondizia a cielo aperto (“u carvonàr”) e la gettavamo sul percorso designato, al fine di trovare il giorno dopo la neve gelata e già predisposta a diventare una duratura “scivolarella”; rendendo però difficile il percorso alle persone anziane, che a volte ce ne dicevano di tutti i colori. Per scivolare meglio ricorrevamo a volte ai bandoni di latta. Molto divertente era il trenino: tutti attaccati, in piedi o seduti, fino alla fine della discesa, con molta allegria e qualche rovinosa caduta.
Rammento anche che una volta, nel cortile vicino alla cantina di casa, con un mio amichetto ci costruimmo artigianalmente degli sci con i legni delle botti e con attacchi a dir poco improvvisati. Una delle mete preferite per sciare, o per meglio dire, in questo caso, per… scivolare, era una località poco lontana dal centro abitato, di fronte all’edificio scolastico: si chiamava “la Césela”, una discesa piuttosto lunga dove si esercitavano anche giovani molto più grandi di noi, muniti di sci veri, anche se molto meno tecnologici di quelli attuali. Capitava spesso che nell’atmosfera rarefatta di quei giorni invernali risuonassero nell’aria le grida dei maiali che stavano per essere uccisi. Noi bambini accorrevamo curiosi e spesso davamo una mano, come potevamo, a reggere le zampe del porco. Faceva un certo effetto lo spettacolo del sangue che imbrattava il candore della neve…
Perdurava, ancora allora, una simpatica tradizione: quella della “ciùcela vecchia” e della “ciùcela gnòva”. Il pomeriggio dell’ultimo giorno dell’anno si andava, noi bambini, in giro per le case in cerca di qualche dolce o frutto (“ciùcela vecchia”) e si ripeteva la stessa cosa la mattina del giorno dopo, primo giorno dell’anno nuovo (“ciucela gnòva”). A pensarci bene, era la versione antica dell’attuale “dolcetto-scherzetto” che usano i bambini nella festa di Halloween. Chiudeva le vacanze il giorno della recita, la sera del 6 gennaio.
Come già detto, recitavamo in chiesa, vicino all’altare e a fianco del Bambinello, le poesie imparate a memoria a scuola nei giorni precedenti. L’attesa era grande per queste piccole esibizioni. Due scene mi sono rimaste impresse nella mente. Quella di una bambina un po’ più piccola di me, forse della prima elementare, che doveva recitare una celebre poesiola che iniziava con queste parole: “Suonate, squillate, campane beate del Santo Natale…”. Con aria simpatica, la bimba si presentò sulla pedana, di fronte al microfono, con le braccia lungo i fianchi e la testa protesa in avanti, gridando: “Suonate !,.. sgguillàte! Campane…”. La gente rideva divertita, il prete la interruppe suggerendole la pronuncia esatta (si dice “s-q-u-i-l-l-a-t-e); ma lei, per nulla imbarazzata, ripartì sicura: “Suonate!,… sgguillàte! campane…”. Non ci fu verso di correggere l’imperfezione fonetica, che denunciava, nella bambina ancora poco abituata alla lingua letteraria, il carattere già abbastanza napoletaneggiante del nostro dialetto.
L’altra riguarda invece l’esibizione di una ragazza già grandicella della quinta classe, che non era del paese. Spigliata e con ottima dizione, con voce stentorea, recitava con l’espressione e l’attitudine dell’attrice in erba. Anche a scuola ricordo che veniva complimentata da tutte le maestre. Era dovuto alla sua bravura, ma anche al fatto che era la figlia del comandante della stazione dei carabinieri del paese. Perfino Don Demetrio, parroco esemplare e molto rimpianto, pareva non indifferente a queste piccole attenzioni…sociali. Al rientro a scuola, il tema da svolgere in classe era sempre lo stesso: “Descrivi come hai trascorso le vacanze di Natale”. Io, molto raccontavo e molto inventavo…
Di maestre ce n’erano di molto brave, come la mia, la signora Vespa, dianzi nominata, madre di un noto “volto” televisivo, che meriterebbe ben altra e circostanziata memoria. C’era poi, verso la fine della sua carriera d’insegnante, la maestra Sara Lalli, che per via di stretti ed intrecciati legami parentali io chiamavo “zia Sara”. Donna ligia al dovere e fortemente motivata, si concedeva giusto il tempo di sorbire un caffè preparato dalla bidella, Anna Fedele (“Nnafitèla”) a metà mattinata, e subito la si vedeva rientrare in classe, lasciando le sue colleghe a scambiare qualche altra chiacchiera. Ce n’era anche un’altra, di maestra, che invece alle chiacchiere indulgeva volentieri. Una volta che stavo cantando insieme a tutti gli alunni delle altre classi, mi disse seccamente: “Perché canti se sei stonato?”. Mi sarebbe tanto piaciuto, rincontrandola, dirle: “E tu perché hai fatto la maestra se non ne avevi la vocazione?”. Piccole glorie e piccole miserie di un piccolo angolo di provincia, che la memoria riannoda, il sentimento accarezza e l’intelligenza riporta alla sua reale dimensione. Segue, come giusto corollario, una simpatica poesia dialettale di Angelo Acitelli, dedicata a quello sport povero ed improvvisato, di cui ho parlato, praticato dai bambini all’interno delle mura del villaggio: Assergi, ai piedi del Gran Sasso d’Italia.
SCIUFELARELLA
Nfosse, rabbelàte, (Bagnato, sporco,)
ma tante divertìte. (ma tanto divertito.)
Accordéie le sciufelarèlle, (Giochiamo a scivolarella)
co’ le scarpe resolàte, (con le scarpe risuolate,)
da “nna-porta” pe’ nnabbàlle, (da una porta per la discesa)
co’ la nèva e le jelàte, (con la neve e la gelata)
da sore o co’ na spénta, (da solo o con una spinta,)
sciufelènne sott’u-mure, (scivolando sotto il muro)
tra i strilli de’ la gènta (tra le sgridate della gente)
e na mazza sott’u-cure. (e una tavola sotto al sedere.)
ne-n penzéie all’òssa rotte (non pensavi alle ossa rotte)
se caschéie alle conétte. (se cadevi alle cunette.)
Giuseppe Lalli, com.unica 8 gennaio 2019