Davide Camarrone, con il romanzo Tempesta (Corrimano Edizioni), è uno dei finalisti di Kaos 2018, Festival dell’editoria, della legalità e dell’identità siciliana. Volentieri ha risposto alle nostre domande.

Hai vinto il Festival con “Lampaduza”, ci sei tornato l’anno scorso come ospite, quest’anno di nuovo finalista. Oramai sei di casa…

Si scrive nel Kaos, per porre rimedio al Kaos, per aver memoria del Kaos (anche a proposito di Pirandello), per cercare nel Kaos un rifugio al Kaos. Kaos va benissimo.

Nel libro sono rintracciabili dei riferimenti letterari a te cari? potresti riassumerli e dire in che cosa sono ripresi nel tuo libro?

Hai voglia. Tempesta non è una riscrittura ma un attraversamento della Tempesta di Shakespeare: un passaggio e una residenza entusiasmanti nella scrittura di un grande uomo di teatro. Ho lasciato quel campo al quale ero giunto per una riscrittura (La Tempesta è stata riscritta molte volte) con l’intenzione di scrivere un testo nuovo che avesse un po’ di quella magia. E poi, di richiami e citazioni, ce ne sono tantissime. Alcuni riconoscibili, altri segreti. Qualcuno? Stefano D’Arrigo, Hermann Melville, Hakan Gunday, Dino Buzzati. Si vive nella Tempesta del nostro tempo, si sopravvive ad un naufragio, o forse no, si temono una balena, la violenza indicibile dell’uomo, il deserto di senso.

Che cosa significa scrivere di fatti così drammatici sapendo che ahimè continuano purtroppo ad accadere?

Non so cosa significhi. Neanche per me. So perché lo faccio. Almeno provo a intuirlo. Perché oggi non c’è altro di cui scrivere. E perché mi sono francamente stufato della bugia secondo la quale non si può scrivere di ciò che accade intorno a noi prima che siano trascorsi vent’anni, prima che tu abbia avuto il tempo di digerire i fatti, di rimasticarli. Di dimenticarli, in realtà. Se vuoi, questo è il punto, puoi raccontare di una guerra o del racconto di una guerra, ma è del tuo tempo che devi raccontare. E inventando una lingua nuova. E di che cos’altro dovremmo raccontare, oggi?

La scrittura narrativa secondo te potrebbe scuotere maggiormente il lettore rispetto alle notizie dei quotidiani? Sembra che stiamo diventando quasi indifferenti al dolore altrui e addirittura ne neghiamo l’esistenza…

Non penso che si debba scuotere nessuno nel senso di muovere a pietà, a compassione. Penso che la Letteratura sia quel Kaos che manca, nell’ordine autoritario che presuppone ignoranza. Che un libro possa porre delle domande. Rinfocolare la voglia di rispondere. Questo è un Paese che ha ripreso a sorvegliare e punire. La Letteratura è disobbedienza.

Per quali personaggi in particolare del tuo libro avresti preferito un destino diverso?

Per nessuno. Ho scelto io destino e personaggi. Potrei rimproverarmi per aver sbagliato nel tratteggio, nel disegno, nell’affresco. Non c’è morale. C’è un dramma.

Quanto labor limae c’è alla fine di un libro che tratta un argomento così attuale e delicato? Hai timore di esprimerti in maniera inadeguata trattando di sentimenti e drammi?

Scrivo rapidamente e correggo lentissimamente. Più volte. Cento volte. Lascio riposare e riprendo il testo. Cerco i suggerimenti che arrivano dall’interno. Sciolgo alcuni nodi e li ricompongo tra parti diverse del testo. Ho terrore di esprimermi in modo inadeguato. La lingua è tutto. Tende ad una voce che dev’esser riconoscibile. Ad una nota fondamentale.

Che cosa ti auguri che possa provare il lettore dopo la lettura di “Tempesta”?

Piacere. E altri tentativi di ritrovarlo, di riprovarlo. Di rileggere una riga o una pagina per trattenere quella sensazione.

Giovanni Zambito, com.unica 12 gennaio 2019

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