Volete capire Anna Frank? Dovete provare la sua stessa paura
Un pamphlet di Cynthia Ozick contro le letture edulcorate del Diario della ragazzina ebrea uccisa dai nazisti. L’intervista all’autrice (da Tuttolibri/La Stampa)
Nel 2018 ha compiuto 90 anni. Quanti ne avrebbe avuti Anna Frank. Un dettaglio che spiega tante cose. Cynthia Ozick è della stessa generazione degli adolescenti che finirono i loro giorni nei campi di sterminio nazisti. Ma lei era dall’altra parte dell’Atlantico, mentre loro morivano. Forse la sua ossessione per l’Olocausto viene da lì, da un senso di colpa mai sopito? È la prima cosa di cui parliamo, quando la chiamo al telefono nella sua casa di New Rochelle, un sobborgo di New York. Risponde la voce di una donna anziana, ma dal timbro giovanile e brillante. «Lei ha colto perfettamente nel segno. Ha capito il mio sentimento più profondo. Io ero a scuola, entusiasta di tutte le scoperte dell’età di passaggio da bambina a adolescente: la poesia, Virgilio, le letture. Era un periodo bellissimo, il più felice della mia vita. Poi, finita la guerra abbiamo saputo. Mio Dio, ho pensato. Mentre io stavo vivendo quattro anni fiabeschi, le ciminiere bruciavano. Noi americani eravamo molto patriottici, anche nelle scuole sostenevamo i nostri soldati, ma fino al 1945 non abbiamo saputo cosa era successo. Io sono qui ora, perché non ero là allora». Un’ossessione che passa attraverso tutta l’opera di questa scrittrice ebrea americana, citata da David Foster Wallace fra i tre migliori scrittori americani insieme a Cormac McCarthy e Don De Lillo, finalista al Man Booker International Prize e al Pulitzer, vincitrice del National Book Critics Circle Award e di varie edizioni del Pen e di altri premi, soprattutto per le sue short stories.
È l’autrice di una ventina di libri tra racconti, romanzi, saggi, di cui solo una metà tradotti in italiano, tra cui ricordiamo Lo scialle e Eredi di un mondo lucente, per Feltrinelli; e Le carte delle signorina Puttermesser, per la Nave di Teseo, che ora pubblica anche Di chi è Anna Frank?, un breve saggio apparso nel 1997 sul New Yorker.
Anna Frank, dunque. Perché avrebbe avuto adesso circa la sua stessa età. E perché il diario è divenuto sì un simbolo della Shoah, ma troppo spesso oggetto di interpretazioni fuorvianti. Come spiega con veemenza la Ozick nel pamphlet, lo si è sempre letto con una lente troppo edulcorata, strattonandolo da più parti, – complice soprattutto lo spettacolo teatrale che ne fu tratto – a seconda di chi se ne è via via appropriato, ma sempre in modo consolatorio. Più che la testimonianza della brutalità nazista, della paura, del nulla dei Lager, si è descritto come il diario di un’adolescente che ha una grande forza d’animo e che nonostante tutto ha una fiducia nell’intima bontà dell’uomo.
Niente di più falso, dice Cynthia Ozick. «Anna è profondamente pessimista e scrive pagine di paura nelle quali nessuno può identificarsi, se non ha provato la stessa esperienza. Ogni appropriazione è un tradimento». Mezzo secolo dopo che Miep Gies ha ritrovato le pagine sparpagliate del diario, di chi è davvero Anna Frank, si chiede la Ozick? La risposta è solo una: «La verità è che Anna non era una persona felice, non c’è niente di divertente, di positivo, nel diario. La storia è stata diluita nella versione da Broadway, ripulendo ogni riferimento alle radici ebraiche e al giudaismo. Anche questa è la dimostrazione di come si voglia chiudere gli occhi su cosa è stato veramente l’Olocausto».
Pure il padre Otto Frank ha fatto delle censure e ha avuto le sue responsabilità in questa forma di manipolazione, però.
«Non me la sento di biasimarlo. Le censure che lui ha fatto nascono da un senso di protezione. Era un padre borghese, ha cercato di ripulire il diario dai riferimenti alla sessualità, alle accuse contro la madre, ai litigi famigliari. Dopo aver letto per la prima volta il diario, ha ammesso di non conoscere affatto sua figlia».
Quindi perché questo revisionismo?
«Si torna sempre lì, all’antisemitismo. La gente dice: gli ebrei usano l’Olocausto, usano il vittimismo per giustificare la loro aggressività. E adesso non si può più separare l’antisionismo dall’antisemitismo. Chi dice di essere antisionista è antisemita».
Questa non è un’esagerazione? Si può criticare la politica di un governo di Israele senza essere antisemiti, no?
«Secondo me il governo di Israele in un dato momento non fa alcuna differenza. Chi usa questi argomenti fa propaganda e lavaggi del cervello che sfociano nell’antisemitismo. Ormai anche nelle università americane c’è una forte lobby che insegna l’antisemitismo tramite l’antisionismo. Gli studenti ebrei – e ho due nipoti quindi parlo per esperienza diretta – sono spaventati. Anche l’antisionismo di Corbyn in Inghilterra è assimilabile all’antisemitismo. Conosco persone che se verrà eletto lasceranno il Paese».
In Europa l’antisemitismo sta tornando, in una nuova forma di razzismo strisciante. Che ne pensa?
«Sono sempre stata ossessionata dal ritorno dell’antisemitismo. Ma non è una cosa che nasce dalla politica o nei partiti. E’ un sentimento popolare. Da che esistono gli ebrei, esiste qualcuno che li vuole uccidere. L’antisemitismo è più vecchio dell’Olocausto. Quindi secondo me è endemico. Il problema è che molti giovani non sanno cosa sia l’Olocausto perché a scuola non se ne parla e perché la memoria è corta».
Lei è considerata una delle voci dell’ebraismo americano. L’hanno anche definita la Emily Dickinson del Bronx. Come concilia tutta queste anime?
«Io mi sento profondamente ebrea. E anche profondamente una scrittrice. Sono due realtà parallele. Ma mi sento anche profondamente americana. L’America salvò i miei nonni e tanti altri immigrati. Quindi credo nell’America e credo che sia un paese eccezionale, nonostante Trump. Scusi se mi sento così patriottica. Il patriottismo da voi sta distruggendo l’Europa? Posso chiederle cosa pensa?» .
Casomai è il nazionalismo che distrugge l’Unione europea. Penso che si possa essere patriotticamente italiani senza essere anti europei. E penso che c’è molta meno differenza tra un italiano e un francese o un tedesco di quanta ce ne sia con un americano, perché apparteniamo a due continenti diversi.
«Curioso. Proprio in questi giorni stavo rileggendo un racconto di Henry James che si intitola Europe. Lì c’è l’immagine di un continente romanticamente idealizzato, grazie ai pittori, all’arte, eccetera. Ma è stato anche il luogo delle due grandi guerre mondiali, dell’Olocausto. Ora forse la civiltà occidentale è a rischio?».
Lo chiede a me?
«Parlo in generale. Forse è una esagerazione, ma c’è una nuova civilizzazione che arriva, legata alle grandi migrazioni che sia l’Europa che gli Stati Uniti stanno sperimentando. I musulmani, almeno qui a New York, vogliono diventare americani, cercano appartenenza, si integrano velocemente. L’islamofobia però è una forma di ostilità diversa, più moderna e secondo me passeggera. È diversa dall’antisemitismo».
Visto il grande attaccamento alle sue radici ebraiche ha mai pensato di trasferirsi in Israele?
«Sì, dopo la guerra, negli anni dell’entusiasmo per l’indipendenza. Ma io appartengo alla lingua inglese e la mia vita è la scrittura e non avrei potuto scrivere in ebraico. Posso leggere i testi religiosi, i libri di preghiera, ma lì c’è il trucco, perché hanno il testo a fronte in inglese».
Come è nato il suo amore per i libri?
«Penso nello stesso modo che capita a tutti i lettori. Si comincia da bambini. Non c’è un motivo particolare. Sai semplicemente che tu devi leggere per stare bene. A me è successo negli anni in cui Anna Frank scriveva il suo diario. E io oggi sono finalmente nel mio paradiso di lettrice perché leggo da quando mi sveglio la mattina alla sera quando vado a dormire. Privilegi dell’età. A 90 anni è un lusso che posso permettermi».
Non scrive più? «Certo che scrivo. Ho appena finito una nuova novella. Che sarà pubblicata l’anno prossimo»
Caterina Soffici, Tuttolibri/La Stampa 19 gennaio 2019