La sfida dei “buoni posti di lavoro”
Le economie del mondo oggi sono divise tra un segmento avanzato che impiega una minoranza della forza lavoro e uno a bassa produttività che assorbe la massa della forza lavoro, spesso a bassi salari. Come affrontare questo dualismo? L’analisi dell’economista dell’Università di Harvard Dani Rodrik
In tutto il mondo, oggi, la sfida cruciale per garantire una prosperità economica inclusiva è quella di creare un sufficiente numero di “buoni posti di lavoro”. Senza un’occupazione sicura e ben pagata per la stragrande maggioranza della forza lavoro di un paese, o la crescita economica rimane elusiva oppure i suoi benefici finiscono per essere concentrati nelle mani di un’esigua minoranza. La scarsità di buoni posti di lavoro lede anche la fiducia nei confronti delle élite politiche, così alimentando il contraccolpo autoritario e nazionalista che oggi colpisce molti paesi.
La definizione di “buon lavoro” ovviamente dipende dal livello di sviluppo economico di un paese. Solitamente si tratta di una posizione stabile del settore formale che garantisce tutele lavorative come condizioni di lavoro sicure, diritti di contrattazione collettiva e normative contro il licenziamento arbitrario. Consente lo stile di vita della classe media, secondo gli standard di quel paese, con un reddito adeguato a coprire le spese di vitto, alloggio, trasporto, istruzioni e altre spese familiari e ad accantonare risparmi.
Le singole aziende di tutto il mondo possono fare molto per migliorare le condizioni d’impiego. Le grandi società che trattano meglio i propri dipendenti e offrono un salario più alto, più autonomia e maggiore responsabilità, spesso raccolgono i benefici sotto forma di calo del fatturato, morale più alto dei lavoratori e maggiore produttività. Come sostiene da tempo Zeynep Ton del MIT, le strategie per il “buon lavoro” possono essere tanto redditizie per le aziende quanto per i lavoratori.
Ma il problema più profondo è di tipo strutturale e va oltre quello che possono fare da sole le aziende. I paesi sviluppati e in via di sviluppo soffrono oggi di un crescente disallineamento tra produzione e forza lavoro. La produzione richiede sempre più competenze mentre la maggior parte della forza lavoro resta poco qualificata. Questo genera un divario tra tipologie di impiego create e tipologie di lavoratori a disposizione del paese.
Tecnologia e globalizzazione hanno cospirato per ampliare questo gap, spingendo sempre più il manifatturiero e i servizi verso l’automatizzazione e la digitalizzazione. Da un lato le nuove tecnologie potrebbero aver avvantaggiato i lavoratori poco qualificati in linea di principio, ma in pratica il progresso tecnologico sta sostituendo in larga parte la forza lavoro. Inoltre, il commercio globale e i flussi di investimento, e in particolare le catene di valore globale, hanno reso omogenee le tecniche produttive di tutto il mondo, con la conseguenza che i paesi più poveri fanno molta fatica a competere nei mercati mondiali senza adottare tecniche ad alta intensità di competenze e capitali simili a quelle delle economie avanzate.
Il risultato è l’intensificazione del dualismo economico. Ogni economia del mondo oggi si divide tra segmento avanzato, tipicamente integrato a livello globale, che impiega una minoranza di forza lavoro, e segmento a bassa produttività che assorbe la maggior parte della forza lavoro, spesso con salari più bassi e in condizioni di miseria. Le percentuali dei due segmenti possono differire: i paesi avanzati ovviamente hanno una netta preponderanza di aziende altamente produttive. Ma, a livello qualitativo, il quadro è piuttosto simile sia nei paesi ricchi che in quelli poveri – e produce gli stessi effetti di disuguaglianza, esclusione e polarizzazione politica.
Esistono solo tre modi per ridurre il disallineamento tra struttura dei settori produttivi e quella della forza lavoro. La prima strategia, che ottiene maggiore attenzione politica, riguarda gli investimenti in competenze e formazione. Se la maggior parte dei lavoratori acquisisse le competenze e le capacità richieste dalle tecnologie avanzate, il dualismo si dissiperebbe a fronte di un’espansione dei settori ad alta produttività.
Queste politiche sul capitale umano sono ovviamente importanti, ma anche quando funzionano, i loro effetti sono percepibili in futuro. Non fanno molto per fronteggiare la realtà dei mercati del lavoro del momento. Non si può proprio trasformare la forza lavoro dall’oggi al domani. Inoltre, c’è sempre il rischio reale che la tecnologia progredisca più rapidamente di quanto non faccia la capacità della società di formare nuova forza lavoro.
Una seconda strategia è quella di convincere le aziende affermate a impiegare più lavoratori non qualificati. Nei paesi in cui i gap di competenza non sono enormi, i governi possono (e devono) spingere le aziende affermate a incrementare il numero di occupati – sia direttamente che tramite fornitori locali. Anche i governi dei paesi avanzati hanno un ruolo attivo sulla natura dell’innovazione tecnologica. Troppo spesso, sovvenzionano tecnologie ad alta intensità di capitale che sostituiscono la manodopera, invece di spingere l’innovazione in direzioni socialmente più vantaggiose, per aumentare il numero di lavoratori meno qualificati e non per sostituirli.
Queste politiche non faranno una grande differenza nei paesi in via di sviluppo. Qui, l’ostacolo principale consiste nel fatto che le tecnologie esistenti non consentono uno spazio sufficiente per sostituire i fattori produttivi: usare manodopera meno qualificata invece di professionisti qualificati o capitale fisico. Gli elevati standard di qualità necessari per la fornitura delle catene di valore globali non possono essere soddisfatti semplicemente sostituendo la manodopera con le macchine. È per questo che la produzione integrata a livello globale anche nei paesi con una maggiore forza lavoro, come India ed Etiopia, si affida a metodi ad alta densità di capitali.
Questo mette in difficoltà tutta una serie di economie in via di sviluppo – dai paesi a medio reddito come Messico e Sud Africa ai paesi a basso reddito come l’Etiopia. Il classico rimedio di migliorare le istituzioni dedite all’istruzione non raccoglie benefici a breve termine, mentre i settori più avanzati dell’economia non sono in grado di assorbire l’offerta di lavoratori poco qualificati in eccesso.
Per risolvere questo problema servirà una terza strategia, che forse è quella meno allettante: incentivare un range intermedio di attività economiche ad alta densità di manodopera scarsamente qualificata. Il turismo e l’agricoltura non tradizionale sono esempi eccellenti di questi settori in grado di assorbire manodopera. L’occupazione pubblica (nel settore edilizio e nella prestazione di servizi), da tempo disprezzata dagli esperti nel campo dello sviluppo, è un’altra area meritevole di attenzione. Ma le iniziative del governo potrebbero fare molto di più.
Queste attività intermedie, soprattutto i servizi non commerciabili resi dalle aziende di piccole e medie dimensioni, non saranno tra le più produttive, il che spiega perché non siano mai al centro delle politiche industriali o rivolte all’innovazione, ma potrebbero comunque garantire posti di lavoro migliori rispetto alle alternative del settore informale.
La politica pubblica nei paesi avanzati e in quelli in via di sviluppo si preoccupa troppo spesso di incentivare le tecnologie più avanzate e promuovere le aziende più produttive. Ma la mancata creazione di buoni posti di lavoro per la classe media implica elevati costi sociali e politici. Per ridurre questi costi bisogna puntare su qualcos’altro, nello specifico su tipologie di lavoro che siano allineate con le competenze prevalenti di un’economia.
(Dani Rodrik, project-syndicate febbraio 2019)
*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Politica Economica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.