Gli ebrei polacchi alla ricerca delle proprie origini, un reportage del Corriere della Sera

Gli ebrei sono tornati a essere polacchi. O i polacchi a cercare le loro origini ebraiche. Ne erano sopravvissuti circa trecentomila (su tre milioni e mezzo) ai campi di sterminio nazisti, ma ne rimasero in patria trentamila nel 1957, quando il regime del nazionalista Władisław Gomulka aprì le frontiere inducendo i «sionisti», epurati da uffici e istituzioni, ad andarsene in Israele. Nel 1968, invisi all’Urss, i «nemici del popolo» furono espulsi in massa e la comunità ebraica in Polonia diventò pressoché invisibile. Negli Anni 90 la terza generazione, i nipoti delle vittime della Shoah, ha rotto il silenzio e l’oblio, e ora alleva la seguente nella consapevolezza della propria identità. Dalla scuola, alla cucina, alla cultura e alle danze si torna alle radici, con il timore che anche l’antisemitismo abbia conservato le sue. È quasi festa al dipartimento di Genealogia dell’Istituto storico ebraico di Varsavia: dopo cinque anni di ricerche, la tomba di Zenek Rozenberg è stata appena ritrovata. Ad Haifa, nord di Israele.

Anna Przybyszewska Drozd, alla guida del centro da vent’anni, si era subito appassionata alla vicenda: una storia d’amore iniziata prima della Seconda guerra mondiale a Radom, un centinaio di chilometri a sud di Varsavia. Protagonisti Zenek, un ricco ragazzo ebreo, e Gienia, una giovane cattolica. Entrambe le famiglie si erano opposte a quell’unione, ma la coppia non si era arresa e, sotto l’occupazione tedesca e le leggi razziali, i genitori di Gienia la ricattarono: se non avesse sposato l’uomo che avevano scelto per lei, avrebbero denunciato Zenek. L’amore proibito di Gienia e Zenek «Il marito di Gienia si rivelò una persona straordinaria – racconta Anna, commossa -. Era innamorato e disposto ad aspettare che lei lo ricambiasse. Nacque una figlia, ma Gienia non tagliò il filo che la univa a Zenek e corse in suo aiuto quando seppe che lui e la sua famiglia erano in pericolo. Al ritorno, era incinta. Il marito accolse la seconda bambina, Londzia, come fosse sua». Alla fine della guerra, Zenek emigrò, senza perdere il contatto con Gienia. Quasi certamente si rividero a metà degli anni 50, perché Londzia conserva il vago ricordo di un uomo misterioso incontrato quando aveva appena 9 anni in un negozio di Varsavia: «Se tu non fossi nata durante la guerra, avresti un altro cognome», Gienia le svelò tempo dopo.

Gli anni sono passati. Le tracce di Zenek sembravano svanite tra le migliaia Rozenberg sparsi nel mondo. Gienia e il marito sono morti, e il nipote è approdato qui, in questa stanza con quattro computer e due scaffali ingombri di vecchi annuari, nel palazzo anni 20 che fu sede della Biblioteca ebraica di Varsavia, accanto alla Grande Sinagoga polverizzata dalle SS, a chiedere aiuto per ritrovare il nonno. Ora aspetta da Israele le foto di Zenek in età matura e potrà mostrarle a Londzia che, di lui, possiede solamente un’immagine infantile color seppia. Anna e i suoi tre ricercatori non si sono mai arresi, nonostante la mole di richieste: «Ogni anno si presentano qui 2.500 fra americani, europei, israeliani che sanno o sospettano di avere radici ebraiche in Polonia e vogliono saperne di più» informa Matan Shefi . «È la mia generazione, nata negli anni 70, quella che ha cominciato a fare domande» spiega Karolina Szykier-Koszucka, responsabile dell’Educazione ebraica alla Lauder-Morasha School di Varsavia. Inaugurata nel ‘94, la prima a riaprire in Polonia dal dopoguerra, ha circa 200 iscritti, dall’asilo alle medie.

Karolina, figlia di un ebreo e di una cattolica, entrambi polacchi e di laiche vedute, ha sempre saputo, in realtà, che il nonno paterno era ebreo. Aveva lasciato la famiglia e la Polonia dietro la Cortina di ferro, nel 1957, per raggiungere Israele, dove è morto nel ’90, senza rivedere il figlio, nato nel ’52, e senza conoscere la nipote, che è tornata alla sua stessa fede e la trasmette alla propria figlia: «La nostra è una piccola scuola privata aperta a tutti, ebrei e non. Oltre alle materie del programma ministeriale, abbiamo lingua e storia ebraiche. La mensa è kosher, si celebrano tutte le feste ebraiche e il venerdì inizia lo shabbat. Così riannodiamo i fili con le nostre origini».

Non tutti gli ebrei polacchi, o i polacchi di origine ebraica, ne hanno l’intenzione. Molti sono rimasti «Ebrei invisibili», come li definiscono Gabriele Eschenazi e Gabriele Nissim nel libro dedicato a «I sopravvissuti dell’Europa orientale dal comunismo a oggi» (Mondadori editore); e il conteggio dei residenti è approssimativo, con stime che oscillano tra 40 mila a poche migliaia. Soltanto 8 mila sono iscritti alle organizzazioni ufficiali: «Ma io ne conosco almeno venti che non rientrano nei censimenti» calcola la rabbina «conservatrice» Malgorzata Kordowicz, 45 anni, l’unica allieva ebrea del corso serale di danze folcloristiche israeliane del gruppo «Snunit», rondine in ebraico, che Monika Leszczyńska coordina da dieci anni. «La maggioranza della comunità ebraica polacca non è religiosa» ha una spiegazione il rabbino 41enne Stas Wojciechowicz, la cui sinagoga, al quarto piano di un moderno palazzo d’uffici, è considerata liberal-progressista rispetto all’ortodossa, ottocentesca Nożyk, l’unica d’anteguerra scampata alle devastazioni. «I ragazzi, una trentina, vengono alla funzione del venerdì sera, prima di andare in discoteca – prosegue Wojciechowicz -; al sabato mattina invece abbiamo le famiglie». Conversioni? «Ne stiamo seguendo 10 o 15, contando le fidanzate polacche di israeliani a Varsavia per lavoro.

I più giovani, nati nella Polonia già libera, parlano senza timori della loro identità ebraica. A volte dico loro di non essere così aperti, perché vivono in un paese dove gli ebrei sono ancora considerati stranieri». La kippah, avverte il rabbino, può attirare sguardi ostili per strada: «Nel 95% dei casi non succede nulla di grave, ma da quando è cambiato il governo, nel 2015, e il PiS (il partito di destra Diritto e Giustizia, n.d.r.) è arrivato al potere, ci sentiamo più insicuri. Attacchi e ingiurie hanno buone probabilità di restare impunite». Non ha dubbi che il «male» sia sempre in agguato Bogdan Bialek, presidente della «Jan Karsky Society», fondata a Kielce, 188 chilometri da Varsavia, nella palazzina di via Planty in cui fu perpetrato l’ultimo pogrom, un anno dopo la fine della guerra. Lì vivevano riuniti 200 superstiti dei campi di sterminio, nell’estate del ’46, quando un bimbo del quartiere scomparve per un paio di giorni e raccontò, al suo ritorno, di essere stato tenuto prigioniero nella cantina degli ebrei, per essere sottoposto a riti satanici. «Era una leggenda corrente almeno da secoli, come dimostra questo dipinto che raffigura un processo settecentesco a un rabbino accusato di omicidi rituali di bambini cattolici» mostra un piccolo trittico Joanna Fikus, direttrice artistica del Museo Polin di Varsavia, dedicato alla storia degli ebrei polacchi. Ma a Kielce fu organizzata una spedizione punitiva, e via Planty 7/9 si trasformò in un mattatoio, con 42 morti e 80 feriti, prima che si scoprisse che, lì, nemmeno esisteva una cantina e che il bambino si era inventato tutto. 

«Non si sa da chi sia stato ispirato, ci sono tante ipotesi al riguardo» lascia aperto il caso Mateusz Szpytma, presidente dell’Istituto per la Memoria Nazionale, l’ente statale incaricato, tra l’altro, di vigilare sul rispetto della controversa legge con cui, un anno fa, è diventato reato sostenere qualunque responsabilità storica polacca nello sterminio degli ebrei. «La Polonia, a differenza di Francia, Ungheria, Cecoslovacchia e Italia, non ebbe mai un governo collaborazionista – ricorda Szpytma -. I lager, come Auschwitz-Birkenau e Treblinka, non erano campi polacchi: erano organizzati dai tedeschi sul territorio occupato polacco. E durante il comunismo non sono stati solo gli ebrei a perdere i loro beni, tutti i polacchi sono stati espropriati».

Per chiunque adombrasse complicità nelle deportazioni erano previsti originariamente tre anni di carcere, ma dopo le polemiche internazionali e le tensioni provocate dalla nuova legge con il governo israeliano, la pena è stata ridotta a una sanzione amministrativa. «Meglio così, certo. Ma la legge mantiene la sua funzione intimidatoria nei confronti di storici, insegnanti, intellettuali e ha danneggia il reale lavoro di memoria storica fatto in Polonia negli ultimi 30 anni» eccepisce lo scrittore Konstanty Gebert, editorialista di Gazeta Wyborcza, uno dei principali organizzatori dell’istruzione clandestina durante il comunismo e membro del sindacato Solidarnosc. Per sintetizzare il travagliato Novecento degli ebrei polacchi, Gebert sceglie le parole dello scrittore Leopold Unger: «I miei genitori sono nati e si sono sposati in Austria, hanno vissuto e procreato in Polonia, sono stati uccisi in Germania e sepolti in una tomba anonima in Unione Sovietica. Tutto questo senza mai muoversi dalla stessa casa, nella stessa strada della stessa città, Leopoli».

Elisabetta Rosaspina, Corriere della Sera 14 marzo 2019

*Nella foto il Museo di storia dell’ebraismo a Varsavia

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