Pechino prepara la trappola del debito. Così rende più vulnerabili gli altri Paesi
Le insidie della “Nuova Via della Seta” alla luce delle esperienze del passato che suggeriscono all’Italia molta prudenza. L’analisi di Gianni Vernetti (La Stampa)
L’Italia sarà il primo paese del G-7 ad aderire formalmente al progetto cinese della Nuova Via della Seta («Belt and Road Initiative» ndr) e l’accordo sarà suggellato durante la visita di stato del premier Xi-Jinping a Roma. La narrativa cinese ha descritto la Via della Seta come un regalo della «saggezza cinese allo sviluppo mondiale», una sorta di nuovo “Piano Marshall” per l’Africa, una piena integrazione delle economie di Europa e Asia, grazie ad una rete rafforzata di nuove infrastrutture di trasporto via mare e via terra. Fin dal 2013 la Repubblica Popolare Cinese ha investito oltre 700 miliardi di dollari di denaro pubblico cinese in oltre 60 paesi, soprattutto in grandi progetti infrastrutturali (porti e ferrovie), spesso in forma di prestiti erogati ai governi dei paesi che hanno aderito al progetto.
La strategia geopolitica
Il disegno geopolitico cinese è stato chiaro fin dall’inizio: ampliare il proprio «spazio economico» verso l’Africa e l’Europa, creare rapporti preferenziali con i paesi aderenti, incrementare il «soft power» di Pechino nel mondo. Dopo l’iniziale entusiasmo, le cose sono andate però diversamente e molti Paesi che vi hanno aderito hanno iniziato a ridiscutere drasticamente i progetti avviati. Il modello cinese ha affascinato molti paesi per il suo approccio “pragmatico” e soprattutto per l’assenza di tutti i vincoli normalmente posti dalle istituzioni occidentali: sostenibilità finanziaria, rispetto dei diritti umani, regole rigide in materia di corruzione, verificabilità dei progetti. Quest’approccio «senza vincoli» ha portato diversi Paesi a indebitarsi in modo eccessivo e insostenibile nei confronti di Pechino. La “trappola del debito” ha reso molti Paesi troppo vulnerabili nei confronti della Cina e le reazioni non si sono fatte attendere.
Sri Lanka e il porto perduto
Il primo campanello di allarme è giunto a Sri Lanka. Il presidente Mahinda Rajapaksa fece aderire il suo Paese con entusiasmo alla Nuova Via della Seta e si fece finanziare con un prestito dalla Cina il nuovo Porto di Hambantota. Nel 2015 il nuovo presidente eletto Maithripala Sirisena scoprì presto l’insostenibilità del debito contratto con Pechino e fu costretto ad avviare una “debt for equity swap”, cedendo per 1,4 miliardi di dollari e per 99 anni il porto alla China Merchant Port Holdings. L’infrastruttura portuale che Sri Lanka aveva costruito grazie al prestito cinese , è quindi finita direttamente in mani cinesi, suscitando una forte indignazione i tutto il Paese. Il caso del porto di Hambantota ha suscitato allarme in molte cancellerie in occidente anche alla luce dei rischi di potenziale “dual use” civile e militare delle infrastrutture portuarie.
Malaysia
Lo scorso anno in Malaysia il leader dell’opposizione Mahatir Mohamad ha sconfitto il primo ministro uscente Najib Razak con una campagna elettorale tutta focalizzata sull’eccesso di indebitamento del Paese nei confronti di Pechino. Appena eletto, il Presidente Mahatir Mohamad ha cancellato i tre più importanti progetti finanziati nel quadro della Nuova Via della Seta: la nuova ferrovia East Coast Rail, del costo di 20 miliardi di dollari, che avrebbe connesso i porti malesi della costa orientale con lo Stretto di Malacca e due gasdotti per 2,3 miliardi di dollari.
Myanmar
Il governo di Myanmar, per un timore di un eccessivo indebitamento, ha ridotto drasticamente le dimensioni del progetto del porto di Kyauk Pyu nello Stato di Rakhine (la provincia birmana nota per le persecuzioni contro la minoranza musulmana dei Rohinga, ndr), riducendo l’indebitamento con la Cina da 7 a 1,3 miliardi di dollari.
Bangladesh
All’inizio di quest’anno il Bangladesh ha annullato l’accordo con la Cina relativo al finanziamento per la costruzione dell’autostrada che avrebbe collegato la capitale Dacca con la popolosa regione del Nord-Est.
Maldive
L’indebitamento con la Cina è stato l’oggetto dello scontro elettorale alle Maldive in occasione delle ultime elezioni presidenziali: l’80% del debito estero del piccolo paese insulare è stato contratto con la Cina e il presidente neo-eletto Ibrahim Mohammed Solih ha recentemente denunciato l’insostenibilità del debito, che potrebbe essere ripagato con la cessione di Isole sul modello dello “swap” del Porto di Sri Lanka.
Gibuti
A Gibuti è concreta la possibilità che gli investimenti infrastrutturali cinesi si possano rapidamente trasformare in operazioni con una forte valenza politica e militare. Il think tank americano “Center for Global Development”, in un suo recente rapporto, ha analizzato i Paesi più indebitati al mondo con la Cina nel quadro degli investimenti della Nuova Via della Seta: l’unico paese africano nell’elenco era proprio Gibuti che ha recentemente concesso alla Cina l’autorizzazione a poter installare la sua prima base militare estera. Le implicazioni per la sicurezza internazionale sono evidenti e in una recente audizione presso il Congresso Usa, l’Ammiraglio Harry Harris , capo del Commando del Pacifico, ha dichiarato che l’influenza politica e militare cinese si è rapidamente diffusa negli oceani pacifico e indiano in gran parte grazie ai progetti commerciali della cosiddetta “Via della Seta Marittima”.
Kenya
Il governo del Kenya ha inaugurato un anno fa la ferrovia Mombasa-Nairobi realizzata e finanziata dalla compagnia di stato China Road and Bridge Corporation. Un’opera certamente utile per il paese africano ma che ha generato la metà degli utili previsti negli studi di fattibilità, è costata molto di più degli standard internazionali e nel mondo poetico kenyota è cresciuto lo scetticismo sulla capacità reale del paese di ripagare i debiti contratti.
La “trappola del debito” nella quale diversi Paesi sono caduti, suggerisce dunque all’Italia una maggiore prudenza: l’integrazione economica euro-asiatica è una grande opportunità che va però realizzata con un forte protagonismo europeo in grado di superare i singoli accordi bilaterali (Ungheria, Grecia e ora Italia), per ottenere maggiori benefici negoziali.
Gianni Vernetti, La Stampa 23 marzo 2019