L’economia globalizzata in un mondo dominato dall’incertezza
I governi delle maggiori potenze economiche mondiali non sembrano all’altezza della sfida legata all’ascesa delle economie emergenti e alla trasformazione digitale dei modelli di business. L’analisi del premio Nobel per l’Economia Michael Spence.
L’economia globalizzata si sta indebolendo in misura non trascurabile a causa di un profondo e diffuso senso di incertezza. E la maggiore fonte di questa incertezza è la “guerra commerciale” cinese-americana attualmente in corso.
Lawrence J. Lau della Stanford University ha dimostrato che il problema non è il fatto che la spirale di dazi abbia avuto un impatto piuttosto ampio, se non ad eccezione di particolari settori economici cinesi e americani, ma che il conflitto ha messo in dubbio il futuro della connettività economica globale, che ha portato a un ridimensionamento degli investimenti e dei consumi in Cina e negli Stati Uniti, e nei rispettivi partner commerciali.
Inoltre, lo Stato cinese ha potenziato il proprio ruolo nell’economia. Le aziende statali sono tornate ad essere allettanti tra i giovani in cerca di lavoro e agli occhi del settore bancario in gran parte di proprietà dello Stato, anche se molte aziende pubbliche andrebbero davvero ristrutturate invece che mantenute a galla. Allo stesso tempo, molte aziende private fanno fatica a trovare credito e i finanziamenti sono troppo costosi, e le bancarotte sembrano essere in aumento. I periodici interventi politici per invertire queste perduranti asimmetrie pubblico-privato si sono rivelati insufficienti.
Per quanto riguarda gli Usa, l’economia sta uscendo da uno stimolo fiscale pro-ciclico destinato a lasciare un lieve strascico. E fino a poco tempo fa la Federal Reserve americana imponeva una stretta monetaria, con gli effetti dell’aumento dei tassi di interesse probabilmente ritardati dagli sgravi fiscali attuati dall’amministrazione Trump nel dicembre del 2017.
Nel frattempo, secondo un recente report del Council on Foreign Relations, i posti di lavoro nel manifatturiero, nell’edilizia e nell’industria mineraria sono diventati alquanto scarsi, mentre sono in crescita le posizione scoperte in una serie di settori legati ai servizi con una maggiore produttività. Più in generale, l’aumento della produttività ha registrato un trend al ribasso, erodendo la crescita a lungo termine. Secondo un report del McKinsey Global Institute questo trend è in parte dovuto ai ritardi nell’implementazione delle nuove tecnologie digitali. Un altro fattore è il crescente squilibrio tra competenze e mercato del lavoro, che hanno anche contribuito all’immobilità della manodopera tra i tradizionali lavori del manifatturiero e i servizi.
A questa incertezza si aggiungono gli accadimenti politici. Negli Usa nessuno sa se le elezioni presidenziali del 2020 risulteranno in un secondo mandato per Donald Trump o in una nuova amministrazione democratica di centro o di estrema sinistra. Il range dei possibili scenari politici – dalle azioni antitrust contro le maggiori piattaforme digitali ai piani sanitari universali e ai grandi cambiamenti nel sistema fiscale – è più ampio di quanto non sia mai stato negli ultimi decenni.
In Europa la situazione non è molto diversa. Con il nazionalismo e il populismo (di sinistra e di destra) in ascesa, i partiti anti-establishment hanno guadagnato terreno o preso il potere in molti paesi. Alla luce di questi eventi, sembra sempre più improbabile che l’Unione Europea riesca ad intraprendere le riforme strutturali di cui necessita da tempo. Gli unici due leader che potrebbero portare avanti tali misure, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron, si sono indeboliti politicamente. La Merkel ha annunciato che questo sarà il suo ultimo mandato e Macron fa i conti con le diffuse (e in molti casi violente) proteste da novembre.
Con maggio, tutti gli occhi saranno puntati sulle elezioni del Parlamento europeo, che potrebbero tradursi in un radicale rimescolamento del personale del Consiglio europeo e della Commissione europea. E a complicare le cose ulteriormente c’è il Regno Unito, caduto nella tana del tana del coniglio della Brexit, che si aggiunge al clima di incertezza.
Sul fronte economico, i guai della Germania – dovuti al suo imponente settore industriale e alla significativa esposizione agli avvenimenti in Cina – hanno avuto ricadute in tutta Europa. L’Italia resta da vent’anni in un periodo di crescita modesta, con la disoccupazione giovanile che sfiora un elevato e intollerabile 32%. Il fatto peggiore è che il governo italiano ha assunto un atteggiamento di sfida nei confronti dell’Ue per quanto riguarda le norme fiscali, ma non ha un piano convincente per raggiungere una crescita a lungo termine. Con il debito sovrano italiano che punta verso il 140% del Pil, c’è ragione di temere che un picco di rendimenti per i titoli di stato – come successo nel 2010-2012 – possa provocare una crisi fiscale.
Se ciò dovesse accadere, non è chiaro quale possa essere la risposta della Banca centrale europea. In ogni caso, l’assenza di una crescita solida andrà ad accompagnare la fragilità del settore bancario italiano, dato che i prestiti in sofferenza tendono ad aumentare di fronte ai venti contrari della crescita. Che, a sua volta, si trasformerà in una stretta creditizia e in danni ai settori ancora in salute dell’economia italiana.
Più in generale, l’Europa arranca dietro ad altre potenze nel campo dell’innovazione e dell’adozione di nuove tecnologie digitali. Anche le tecnologie digitali stanno però contribuendo all’incertezza globale. Non è chiaro fino a che punto le piattaforme digitali possano influenzare i processi politici; ma numerose prove indicano che queste piattaforme hanno amplificato le faglie sociali e reso le elezioni democratiche facilmente sfruttabili. Al di sotto di queste faglie ci sono i potenti trend economici, non da ultima la polarizzazione del mercato del lavoro e dei redditi osservabile nelle economie sviluppate.
L’economia globale sta attraversando una grande transizione, dovuta all’ascesa delle economie emergenti, soprattutto in Asia, e alla trasformazione digitale dei modelli di business e delle catene di fornitura globali. I servizi costituiscono una fetta crescente del commercio globale, e la ricerca ora punta a nuove fonti di vantaggio comparativo. Il luogo dei mercati finali e la configurazione delle catene di fornitura sono in subbuglio o sono stati totalmente mandati all’aria. E se da un lato è ovvio che le strutture e le regole della governance globale necessitino di una revisione, dall’altro le esistenti istituzioni internazionali non hanno il potere di portare avanti questi cambiamenti da soli, e i governi delle maggiori potenze economiche del mondo non sembrano all’altezza dell’incarico.
Presi insieme, questi diversi trend economici e politici potrebbero o meno portare a un’altra crisi globale o a un’improvvisa frenata. In ogni caso, sosterranno un prolungato periodo di radicale incertezza. In queste condizioni, la cautela sembra essere lo strumento migliore per aziende, investitori, consumatori e persino per i governi. Ma la cautela comporta i propri costi: le aziende e i paesi che non riescono a investire abbastanza, ad esempio nelle nuove tecnologie digitali, potrebbero venire accantonati. E fino a quando resteranno incerte le norme e le istituzioni che governano l’economia globale, continueremo a fare i conti con scarse performance economiche.
Michael Spence – Project-Syndicate marzo 2019
* Michael Spence è un economista statunitense, insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica. Oggi insegna alla New York University.