Uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature che si avvale anche del contributo del CNR

Possono i microbi presenti in ambiente influenzare processi geologici su grande scala? Apparentemente si. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature, mostra che i microorganismi presenti nel sottosuolo sono direttamente o indirettamente responsabili del sequestro di grandi quantità di CO2 proveniente dal riciclo della crosta terrestre in zone di subduzione. 
Lo studio ha visto impegnate 27 istituzioni di sei paesi: tra i coautori e responsabili scientifici del progetto Donato Giovannelli, ricercatore presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II ed associato presso l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine di Ancona (Cnr-Irbim); nel team anche Elena Manini e Francesco Smedile del Cnr-Irbim di Ancona e Messina. Il progetto è finanziato dal consorzio internazionale Deep Carbon Observatory, primo autore Peter Barry del Wood Hole Oceanographic Institution (Usa), tra gli altri autori Maarten de Moor dell’Osservatorio Vulcanologico della Costa Rica (Ovsicori), Karen Lloyd dell’Università del Tennessee a Knoxville e Francesco Regoli dell’Università Politecnica delle Marche.
“Le zone di subduzione si formano quando due placche tettoniche si scontrano, scivolando una sotto l’altra e mettendo così in comunicazione superficie terrestre e mantello. Durante questo processo, che crea le fosse abissali oceaniche e le catene di archi vulcani a terra, la crosta oceanica e i sedimenti che la ricoprono sprofondano, fondendo e rilasciando CO2 e altri composti volatili che, in parte, risalgono in superficie e formano ad esempio i gas delle catene vulcaniche che caratterizzano le zone di subduzione”, afferma Giovannelli. 
“Conoscere le quantità rilasciate in superficie e quelle sequestrate nel mantello è fondamentale per capire il ciclo del carbonio globale e la sua influenza sul clima nel lungo periodo: il contributo di tali dinamiche al ciclo globale del carbonio è pertanto oggetto di intenso studio. Il nuovo lavoro apparso mostra che il contributo al rilascio di CO2 profonda nelle zone di avanarco – una delle zone intorno gli archi vulcanici – è maggiore di quanto si pensasse e che i microorganismi estremofili che vivono nel sottosuolo contribuiscono, assieme alla precipitazione di calcite, a rimuovere fino al 94% del flusso di CO2 in questa zona. Una frazione importante di carbonio è bloccata da processi microbici nella crosta terrestre invece di essere spinta in profondità o riciclata in atmosfera, con importanti conseguenze per la stabilità del clima: fino al 20% del carbonio subdotto viene intrappolato nel sottosuolo sotto forma di calcite, invece di sprofondare nel mantello o essere rilasciato in atmosfera tramite i gas vulcanici”.
Lo studio ha profonde implicazioni per la comprensione del clima terrestre nel passato e dei meccanismi di sequestro della CO2 in atto e coinvolge discipline diverse come la geologia, la vulcanologia, la geochimica e la microbiologia. “Abbiamo mostrato come i microbi presenti nel sottosuolo possano influenzare processi geologici enormi, ben maggiori di quanto sospettassimo: la biologia ha un’incidenza nell’evoluzione geologica del nostro pianeta che dobbiamo studiare a fondo: i meccanismi con cui i microorganismi contribuiscono a sequestrare la CO2 profonda devono ancora essere chiariti, per esempio il loro possibile ruolo nel mediare la precipitazione di calcite nel sottosuolo”, prosegue Manini.
Il team internazionale di ricerca guarda già a nuovi orizzonti. “Anche le zone di retroarco potrebbero riservare sorprese simili per quanto riguarda i meccanismi di sequestro della CO2 profonda: in tal caso, l’impatto dei microrganismi sul ciclo del carbonio profondo potrebbe essere ancora più ingente, con ovvie conseguenze sulla nostra comprensione del clima”, conclude Smedile “Lo studio del clima presente e passato consente la comprensione di importanti eventi che hanno sconvolto il nostro pianeta in ere geologiche lontane, come il Grande Evento di Ossidazione che ha portato all’aumento dell’ossigeno nella nostra atmosfera per la prima volta 2,5-2,3 miliardi di anni fa. Per questo è importante l’approccio interdisciplinare che abbiamo adottato nel progetto, il cui team è composto da giovani ricercatori di discipline molto diverse. Questo tipo di approccio cambierà significativamente la nostra comprensione delle interazioni tra il sistema terra e la vita”.

com.unica, 30 aprile 2019

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