L’AQUILA – Se c’è un evento che è carico di significato filosofico, questo è il terremoto. Del resto i terremoti hanno dato sempre molto da pensare ai filosofi, anzi sembra che da esso siano perseguitati. Pensando al terribile terremoto di Lisbona del 1 novembre del 1755, nel quale perirono non meno di un quarto degli abitanti della capitale portoghese, e che pare che sia stato avvertito persino in Scandinavia, Voltaire (1694-1778) intreccia un fitto dialogo a distanza con Rousseau (1712-1778) sul rapporto degli uomini con la natura, e riserva la sua mordace ironia a Leibniz (1646-1716), che aveva definito quello in cui gli uomini vivono il migliore dei mondi possibili.

Sappiamo poi come il nostro Leopardi (1798-1837), ospite a Napoli dell’amico Antonio Ranieri, testimone di una devastante eruzione del Vesuvio, in memorabili versi, abbia sbattuto in faccia questa terribile realtà della natura a tutti quei suoi contemporanei che mostravano di credere ciecamente nelle “magnifiche sorti e progressive”.

In tempi più vicini a noi, Benedetto Croce (1866-1952) nel terremoto di Casamicciola del luglio del 1883, quando aveva solo 17 anni, perse tutti e due i genitori e una sorella, e si salvò per miracolo, dopo essere rimasto per molto tempo sepolto sotto le macerie. Scriverà nelle sue memorie che da allora sarà preso dal terrore di dormire sotto le coperte. La sua stessa filosofia porterà i segni di una umbratile precarietà.

Nel terremoto di Messina e Reggio Calabria del dicembre del 1908, dove persero la vita almeno centomila persone, Gaetano Salvemini (1873-1957), tra i massimi storici del Novecento, vide morire la moglie e tutte e quattro le figlie femmine, mentre l’unico figlio maschio, disperso, non fu mai ritrovato. Confesserà più tardi che per molti anni, ogni giorno, dovette combattere contro la tentazione del suicidio.

A proposito del nostro terremoto, quello del 6 aprile 2009 a L’Aquila, di fronte a chi dice che ci dobbiamo lasciare alle spalle questa terribile esperienza, mi viene di pensare: ma cosa sono in fondo dieci anni? L’anima non conta gli anni, conta solo i battiti e i pensieri. Il terremoto, tra tutte le disgrazie collettive, è la più carica di significato esistenziale.

La terra che ti manca sotto i piedi, la casa che rischia di crollare, il mondo che sembra uscito dai suoi gangheri, è l’esperienza più vicina alla fine del mondo. Se anche la terra ti manca e le mura della casa si sgretolano, tutto diventa precario, e tutto diventa assurdo. Il mostro è l’assurdo che si materializza, e che sceglie le sue vittime con precisione chirurgica, mentre Dio si nasconde.

“Sono almeno quattro secoli che ci ripetono che l’universo si regge sulla forza – scriveva negli anni trenta del secolo scorso Simone Weil – è poi ci lamentiamo che qualcuno la usi?” La natura è opaca, e la forza è il suo fondamento; così come la storia è ambigua, e la violenza la sua nota dominante. È l’universo interiore che dobbiamo puntellare, quello che veniva meno in quella terribile notte di dieci anni fa.

Era forse così per tutti, ma quella notte abbiamo dovuto sacrificare al mostro, quello che di tanto in tanto ci vorrebbe far sprofondare nel pozzo nero della disperazione prodotta da un dolore senza senso, trecentonove fratelli. Li ringrazieremo mai abbastanza per questo? È questa la domanda principale alla quale siamo chiamati a rispondere. E la risposta è importante. La posta in gioco è alta.

Giuseppe Lalli*, com.unica 1 maggio 2019

*Giuseppe Lalli è nato a L’Aquila il 5 settembre 1954. Funzionario di banca in pensione, è laureato in Scienze Politiche con indirizzo storico, in Filosofia e recentemente per la terza volta ha conseguito con lode una laurea magistrale in Filosofia e Comunicazione, con una tesi sugli “aspetti teologici del pensiero di un filosofo medievale”.

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