Nessun editore gli pubblica l’autobiografia, il commento di Antonio Monda su La Stampa

La decisione di cinque case editrici americane di non pubblicare l’autobiografia di Woody Allen ha riportato il caso del regista americano al centro dell’attenzione mediatica, e non esiste salotto intellettuale newyorkese che non ne discuta animatamente: gli amici del regista sostengono che si tratta di un’ennesima forma di censura nei confronti di un uomo scagionato anche giudiziariamente da ogni colpa, quelli di Mia Farrow sostengono invece che ciò è assolutamente meritato. Woody Allen non solo ha tradito la compagna per la figliastra Soon Yi, ma sarebbe anche un pedofilo. Questa è stata infatti l’accusa al centro del processo per molestie sessuali nei confronti di Dylan, figlia adottiva di sette anni della Farrow.

La vicenda assume connotati grotteschi se si pensa che risale al 1992, e che da allora Allen ha diretto 27 film che hanno avuto numerose candidature agli Oscar, alcune delle quali coronate da vittorie. Nonostante il clamore dello scandalo planetario nessuno degli interpreti che hanno lavorato con lui, ha avuto per tutto questo periodo alcun problema, per il prestigio che garantiva partecipare a un suo film e per una sentenza che addirittura arrivava ad accusare Mia Farrow di aver plagiato i figli, affinché lo accusassero. Ciò che ha generato un nuovo uragano nasce a margine del caso Harvey Weinstein ed è sposato in pieno dal movimento #metoo: nei primissimi giorni dello scandalo, intuendo quanto stava per succedere, Allen mise in guardia da una possibile caccia alle streghe, ma le sue parole ebbero un effetto boomerang.

L’elemento scatenante sono stati gli articoli scritti da Ronan Farrow, il ragazzo che si riteneva nato dall’amore dei due protagonisti e al quale Allen aveva dato il nome di Satchmel, in onore di Louis Armstrong. Dopo lo scandalo, l’attrice ha deciso di cambiargli il nome in Ronan, e ha quindi dichiarato che probabilmente è figlio dell’ex-marito Frank Sinatra, ammettendo di aver avuto rapporti anche con lui all’epoca del legame con Allen. Tutti gli elementi di questa storia triste e complicata inaspriscono la lotta delle due fazioni: gli amici di Allen sostengono che il regista è vittima dell’odio di una donna folle e accecata dalla gelosia, quelli della Farrow ritengono invece che sia importante punire un pervertito, per dare un segnale netto a chi si è macchiato di gesti gravissimi.

È sconcertante leggere dichiarazioni di interpreti che hanno lavorato con Allen dopo il 1992 e oggi dicono di vergognarsene, ma quello che sta succedendo negli ultimi mesi evidenzia un ulteriore salto di qualità: non siamo più nell’ambito del giudizio sulla persona, ma sulla sua opera. In un primo momento sono state tirate in ballo come prove scene di film nei quali si vede Allen, o un suo alter ego, avere un rapporto con una ragazza molto più giovane: è il caso di «Manhattan», dove amoreggia con la minorenne Tracy Hemingway, o il recente «Wonder Wheel».

Poi sono partite le rescissioni dei contratti: nell’America puritana ogni cosa ha anche un determinante elemento economico, e oggi non esiste produttore che non sappia che il nome di Allen allontana gli spettatori dal botteghino. Amazon ha stracciato l’accordo stipulato per tre film, bloccando la distribuzione di «A rainy day in New York», e non si tratta soltanto di moralismo, ma di paura: oggi nessuno vuole associare il proprio marchio o il proprio nome a Woody Allen, nonostante non sia successo nulla di nuovo, tranne gli articoli del ragazzo che forse è suo figlio e forse è stato plagiato dalla madre. Dopo aver fatto una causa milionaria ad Amazon, il regista, ormai ottantaduenne, ha deciso di scrivere un libro che fino a due anni fa qualunque editore avrebbe pagato a peso d’oro, ma anche nel mondo dei libri la paura va di pari passo con il moralismo. A New York, chi considera questa vicenda come un esempio della caccia alle streghe che aveva profetizzato Allen, parla a voce bassa, perché oggi è facile essere accusati di correità morale: il pensiero dominante predilige il conformismo sul dubbio. È certamente encomiabile la decisione dei distributori europei di lanciare il film nel Vecchio continente, e non si può che auspicare che avvenga lo stesso con il libro.

Se non fosse così, dovremmo bandire il nuovo film di Roman Polanski, fuggito in Francia dopo aver ammesso atti di sodomia nei confronti di una tredicenne, staccare dai musei i quadri di Balthus e persino di Caravaggio, che uccise un uomo. Dovremmo censurare i meravigliosi romanzi di Céline per via dei suoi indegni libelli antisemiti, e vedere con occhio diverso opere di geni che hanno avuto storie sentimentali con minorenni come Charlie Chaplin.

Per non parlare dei tantissimi artisti che si sono comportati in maniera disgustosa con le donne, a cominciare da Picasso, Lucian Freud e Dickens. Chi scrive non sa cosa sia successo veramente tra Allen e la piccola Dylan, ma considera il regista un grande del cinema ed esulta per il fatto che esista ancora chi sa distinguere tra l’arte e l’artista. E sorride quando legge che il film di Roman Polanski è ispirato al caso Dreyfuss e ha il titolo scelto da Zola: «J’accuse».

Antonio Monda, La Stampa 10 maggio 2019

Condividi con