Su Moked, i commenti della comunità italiana sulla situazione politica in Israele raccolti da Daniel Reichel

Con il ritorno alle urne, ad aver perso è la democrazia israeliana. Su questo punto le diverse voci da Israele, sentite da Pagine Ebraiche, sono concordi: lo scioglimento della Knesset (il parlamento israeliano), appena sette settimane dopo essere stata eletta, è un danno per il sistema paese, per le sue istituzioni, per la fiducia dei cittadini nella politica.

“È stato il parlamento più breve della storia. È una sconfitta per Israele e per i suoi cittadini”, la valutazione condivisa da Sergio Della Pergola, demografo e autorevole analista della politica israeliana, e da Gideon Rahat, docente di Scienze politiche all’Università Ebraica di Gerusalemme. D’accordo l’architetto David Cassuto, già vicesindaco di Gerusalemme, per cui però – a differenza di Della Pergola – il grande responsabile di questa crisi politica è “quell’esemplare che ha sempre fatto parte della coalizione di Netanyahu e ora ha deciso di affossarlo: Avigdor Lieberman”.

Per Cassuto la scelta di Lieberman – leader di Israel Beitenu, – cui 5 seggi sarebbero serviti a Netanyahu per avere la maggioranza alla Knesset (65 seggi) – è stata dettata da opportunismo e il tema della coscrizione dei haredim è una falsa questione: “la legge per cui Lieberman ha dato battaglia e che voleva introdurre sulla leva obbligatoria per i giovani haredim (ultraortodossi) non avrebbe spostato nulla. Sono già in aumento i religiosi che vanno nell’esercito e la situazione è molto cambiata rispetto a 20 anni fa. Lieberman voleva semplicemente ostacolare Netanyahu e presentarsi come alternativa”. Di diverso avviso Raphael Barki, presidente del Comitato per gli Italiani all’Estero (Comites) in Israele, che nelle posizioni espresse dal leader di Israel Beitenu vede “serietà e coerenza. A Lieberman va dato atto di aver rispettato gli impegni presi nei confronti del suo elettorato. Inoltre quanto accaduto porta l’attenzione su di un tema troppe volte confuso fuori da Israele: destra e sinistra qui hanno significati diversi e più complessi. La divisione semplicistica tra religiosi di destra e laici di sinistra è distorta: Lieberman ha preso le parti dei laici, ma è portatore di un messaggio nazionalistico, anche dal punto di vista territoriale (annessione dei Territori) che certo non è definibile come di sinistra”.

“Il problema non è destra o sinistra – la posizione di Della Pergola, professore emerito dell’Università Ebraica di Gerusalemme – ma l’assoluta imposizione di un uomo, Netanyahu, che pensa che ci sia una sola formula possibile per Israele: un governo presieduto da lui. Non ha dato la possibilità al presidente Rivlin di trovare un’alternativa ma è corso a sciogliere il Parlamento e così lui, e non Lieberman, costringe un intero paese a tornare alle urne”. Se non Netanyahu chi altro? Non vedo nessuno altro che possa guidare il paese”, la risposta (indiretta) di Cassuto. Per Della Pergola invece c’erano ancora tante opzioni sul tavolo ed inconcepibile che non siano state prese in considerazione: “si poteva tranquillamente dare la possibilità a un altro membro del Likud (il partito di Netanyahu) di provare a formare il governo. E invece verrano spesi milioni di shekel per nuove elezioni, milioni che sarebbero serviti per la sanità, per l’educazione, per i trasporti. Per i problemi reali. Siamo alla dittatura di un uomo solo al comando che non ha né alleati né associati ma ha tre inchieste all’orizzonte da cui vuole salvarsi”.

Simile ma meno duro il giudizio di Rahat, consulente dell’Israel Democracy Institute: “per Netanyahu tutto questo è sicuramente un fallimento. E il costo più grave, a parte quello economico, è quello per la democrazia: molti israeliani mettono sempre più in dubbio la fiducia nelle istituzioni politiche. Dicono, ‘io sono andato a votare, vi ho dato la mia legittimazione e voi non sapete fare altro che riportarmi a votare’. A settembre molti potrebbero decidere di disertare le urne. E in più in questo spazio che ci divide dal voto Israele rischia di apparire indebolita e nemici come Hamas e Hezbollah potrebbero schiacciare sull’acceleratore per metterla alla prova”. Rispetto alla disaffezione politica e a un possibile aumento dell’astensionismo c’è chi è d’accordo, come Daniela Fubini – firma di Pagine Ebraiche – e chi no, come Barki. “Ho sentito già diverse persone dire ‘io a settembre non vado a votare’. Non è un dato statistico ma comunque un segnale inquietante”, afferma Fubini. Per Barki invece l’elettorato israeliano “prenderà atto di quello che è successo e cercherà di rinforzare i partiti maggiori. Non credo che gli israeliani diserteranno anzi, penso che andranno a votare più convintamente, sentiranno che il proprio voto avrà un peso ancor più decisivo”.

Ora prenderanno il via altri tre mesi di campagna elettorale che, sottolinea Astorre Modena, tra i fondatori del fondo di venture capital Terra Venture Partners, “non faranno bene al paese, portando ritardi e incertezze in molti settori”. “Economicamente il paese sta bene, e molto lo deve al settore privato estremamente imprenditoriale, – spiega Modena – ma ci sono diverse criticità a cui solo un governo stabile può rispondere. Negli ultimi 20 anni non sono state praticamente prese decisioni a lungo termine, l’infrastruttura del paese non è così sviluppata e serve una visione sul lungo periodo”. Per Modena ci sono diversi punti a cui si deve dare risposta il prima possibile: “l’alto tasso di disoccupazione di alcuni settori della società, haredi e arabi in primis, e l’aumento delle diseguaglianze sociali. Il carovita: anche la classe media in Israele ha difficoltà a chiudere il mese; per le nuove generazioni è quasi impossibile comprare casa; non è pensabile che paesi che dovrebbero essere molto più cari del nostro alla fine non lo siano. E basta con i monopoli che riducono il potere d’acquisto”. Altro punto per Modena importante “l’investimento in infrastrutture, in particolare sul trasporto pubblico. I dati Ocse ci dicono che in Israele abbiamo una produttività molto bassa e uno dei fattori è proprio il tempo che si perde negli spostamenti”. Il suo auspicio è che si superino le differenze tra i partiti e che arrivi a un governo di unità nazionale che dia una risposta a questi problemi e lo faccia con progettualità. “La cosa migliore sarebbe che Bibi Netanyahu si facesse da parte. Lo ringraziamo per quello che ha fatto ma serve una nuova leadership, anche all’interno del Likud. Un governo più ampio, di unità nazionale, con Kachol Lavan non sarebbe ostaggio dei partiti più piccoli e potrebbe focalizzarsi sulle questioni che ho citato”.

“Sarà interessante vedere come i partiti gestiranno questi pochi mesi di campagna elettorale – sottolinea Fubini – Se manterranno le stesse liste, se recupereranno gli errori evidente nella campagna precedete, magari se introdurranno una presenza femminile maggiore (come auspicato dal Presidente Reuven Rivlin) o se non sarà una priorità. Comunque trovo incredibile che un primo ministro in pectore che non riesce a formare un governo possa legalmente scartare l’ipotesi di affidare ad altri questo compito, quand’anche all’interno del suo stesso partito, e possa invece portare il paese alle elezioni anticipate”. Elezioni da cui “si sa come ci entri ma non sai come ne esci”, sottolinea Della Pergola. I partiti intanto hanno iniziato a formulare ipotesi di accordi, nuove strategie e così via: Netanyahu, sottolinea Della Pergola, cercherà di attirare i voti di quei partiti di destra che sono rimasti fuori a questa tornata (quello di Moshe Feiglin e quello di Ayelet Shaked – che potrebbe unirsi proprio al Likud – e Nafali Bennett). “In questo e solo in questo sono d’accordo con Bibi: è finito il tempo dei partitini”, sottolinea il demografo. Ma non è sicuro che gli elettori la pensino allo stesso modo. “Dovremmo cercare di superare questa estrema personalizzazione della politica. Un problema che Israele condivide con l’Italia – afferma Rahat – Dovrebbero tornare al centro i partiti e i processi democratici al loro interno e non i volti dei singoli politici, Netanyahu, Gantz o chi per loro. In questo modo sarebbe più facile parlare della sostanza e non della forma”.

Daniel Reichel, Moked 31 maggio 2019

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