L’AQUILA – In un contesto storico in cui si ha l’impressione che la città dell’Aquila stia vivendo un particolare fermento culturale, una sorta di Rinascimento che lascia ben sperare sul futuro del capoluogo abruzzese, mi sembra doveroso segnalare un piccolo grande libro di Maria Elena Cialente, giovane scrittrice aquilana al suo primo romanzo, che giunge dopo un impegnativo saggio dedicato al fantastico nella letteratura italiana, uscito per i tipi  della casa editrice Solfanelli con il titolo L’altro e l’assente.

Il romanzo di cui si parla, pubblicato circa un anno fa dalle Edizioni Tabula Fati, è stato presentato l’ultima volta all’Aquila il 24 maggio 2019 al Palazzetto dei Nobili e a Pescara il 7 giugno scorso, nell’ambito del Rosadonna, festival delle eccellenze femminili. Il racconto, che Maria Elena aveva scritto già prima del terremoto che dieci anni fa ha sconvolto il capoluogo abruzzese, ha il titolo accattivante di SHAT MAT, che in arabo significa “scacco matto’’. Protagonista principale – e “io” narrante – di questo libretto che ha tutte le caratteristiche di un piccolo moderno “romanzo di formazione”, come un tempo si sarebbe detto, è Raffaele, un ragazzo che, come molti di noi, era adolescente negli anni Sessanta e giovane negli anni Settanta. Ha respirato a pieni polmoni l’atmosfera del ‘68, e per tanti aspetti l’ha anche subìta. Ha fatto tutto il cursus honorum di quegli anni, e, ormai medico e sposato, sentendo di aver pagato il suo conto con la vita, decide di fissare sulla carta le sue esperienze giovanili, come se volesse scaricarsi di un peso.

Si stenta a credere che a scrivere le memorie di un uomo nato negli anni Cinquanta sia una giovane donna dei nostri tempi. Bisogna conoscere l’autrice, una donna dall’aspetto fragile e raffinato, per rendersi conto dello sforzo che ha dovuto compiere per immedesimarsi nella psicologia di un personaggio assai diverso da lei, oltre che per il sesso, per il contesto storico, sociale e familiare in cui il protagonista del racconto si muove. Questi ragazzi nati negli anni cinquanta Maria Elena mostra di conoscerli molto bene: ne ha respirato l’aria nei racconti sentiti, fino ad assorbirla. È, questo, il segno di una partecipazione commossa alle vicende di un’epoca e di una generazione che non sono le sue, ma che avverte, quasi con invidia, come un bivio di destini individuali e collettivi: un filo della memoria a lungo coltivata, interrotto dalla sciagura del terremoto, e poi ripreso, ad alimentare forse una nuova speranza.

Per molti coetanei del protagonista (sono anch’io tra questi) che leggeranno il piccolo romanzo di Maria Elena potrebbe valere il famoso detto De te fabula narratur. Del resto, per ogni racconto che si rispetti si può dire De te fabula narratur. Il racconto si apre con la descrizione delle vicende di un gruppetto di bambini di cui fa parte Raffaele: una piccola gang che ruba oggetti (manicotti di bombole del gas, fili di rame) dalle case abbandonate del centro storico aquilano, ma anche oggetti sacri dalle sacrestie delle vecchie chiese, per poi rivenderli ad una vecchia del quartiere in cambio di qualche spicciolo. Si respira a tratti, in queste righe, l’atmosfera di certi romanzi veristi del secondo dopoguerra, nonché di certe scene pasoliniane di “Ragazzi di vita”. Una volta giovane, studente di medicina, Raffaele entra nel tunnel della droga: dapprima erba, poi eroina.

Altro personaggio del racconto è il nonno materno, Roberto, un anziano medico in pensione con il quale Raffaele coltiva un rapporto affettuoso e complice, ma che presenta la stessa fragilità del nipote e che quindi non può essergli di grande aiuto. L’aiuto lo troverà invece in altre persone, prima fra tutte il professor Alberini, originale figura di matematico e anarchico cristiano, conosciuto al circolo, con il quale intreccerà interessanti discorsi filosofici nel corso di interminabili partite a scacchi. C’è nel libro, insieme ad una tensione filosofico-esistenziale, una componente fortemente pedagogica. Raffaele, a un certo punto, dice: «I miei genitori erano anche troppo presi dai loro litigi per accorgersi delle mie fughe. Lo avevo fatto anche da bambino quando, spaventato dalle loro grida e dai piatti che mia madre fracassava a terra, uscivo dal retro per raggiungere la porta del nonno».

Quante famiglie – ci viene da pensare – ci sono state e ci sono come quella di Raffaele…quanti genitori assenti, anche quando sono presenti. «La famiglia è finita», ci ripetono i tanti profeti del nulla che sentenziano ogni giorno nei mass-media. La famiglia la stiamo facendo finire noi ogni giorno, si può ragionevolmente ribattere. Raffaele, che riuscirà ad uscire dal tunnel della droga, finirà per dare un senso alla vita facendo scacco matto (Shah mat, appunto, “scacco matto” in arabo) non contro il professor Alberini, il suo perenne avversario agli scacchi, che in fondo è, come si direbbe in termini freudiani, il suo “super io”, ma contro se stesso, o meglio contro il lato opaco del suo “io”. Raffaele – sembra dirci l’autrice del romanzo – ha il merito di averci provato, e alla fine si è riscattato, mentre si ha l’impressione che oggi molti giovani, purtroppo, nemmeno ci provano. È questo uno dei messaggi che Maria Elena ci insinua.

Sembra proprio che la scrittrice, dando una identità a ciò che ha respirato nell’aria, abbia voluto calarsi nella parte di un protagonista di quegli anni, Raffaele, che alla fine riesce a dare un senso al suo disagio, mentre ogni giorno, anche a scuola, la professoressa Cialente forse tocca con mano un disagio che pare non avere molto senso. Sotto questo aspetto, il libro si presenta come una lettura non canonica e demistificante di quel sessantotto di cui l’anno scorso si sono celebrati i cinquant’anni, se per demistificante si intende, al di là delle indubbie conquiste democratiche di quella stagione, il tentativo di gettare una luce sugli aspetti opachi del mito sessantottino. Tutto ciò a partire da quella filosofia libertaria (ma si potrebbe dire libertina e, come sul dirsi, «buonista») che ha fornito molti alibi, e che si riassume nella frase «Vietato vietare»: quella cultura che ha riportato in auge la pedagogia di Jean Jacques Rousseau (1712-1778) e l’idea che tutti i mali ci vengono dalla società; quella cultura che spesso ha distrutto senza costruire, e che a lungo andare ha prodotto teste vuote, culto delle apparenze, un desolante conformismo spesso contrabbandato per anticonformismo ; ma, anche, paradossalmente, competitività sfrenata, e ricerca del piacere e della trasgressione  scambiata per libertà.

Sotto questo aspetto, l’autrice di questo piccolo romanzo sembra invitarci ad un serio, profondo, coraggioso esame di coscienza. Aspetto non secondario del racconto è la lingua, una lingua che Maria Elena, letterata, padroneggia in ogni riga, e che sa coniugare con un uso sapiente dello stesso parlato dialettale, presente a volte anche nella struttura sintattica della frase. Per finire, una piccola annotazione storico-filosofica (questo della Cialente è anche un piccolo romanzo filosofico, come si accennava), che mi viene suggerita da una frase che si legge nelle prime pagine. Al professor Alberini che gli parla di Ipazia, una giovane filosofa neoplatonica del quarto secolo massacrata da una folla di cristiani fanatizzati dai loro capi, quei cristiani usciti da poco dalle persecuzioni, Raffaele risponde: «…E’ proprio vero, professo’: quando la fortuna cambia corso, i vecchi martiri diventano gli aguzzini di turno». 

Una grande intellettuale francese del secolo scorso, Simone Weil (1909-1943), all’indomani di quella tragedia europea che fu la guerra civile spagnola, nella quale lei, come tanti intellettuali francesi, aveva partecipato militando nel fronte repubblicano, dalla parte dei “rossi”, in quella che aveva ritenuto essere la parte giusta, ebbe un rapporto epistolare con lo scrittore Georges Bernanos (1888-1948), che aveva invece combattuto dall’altra parte, cioè sul fronte dei franchisti vincitori, e che in un saggio-romanzo (“I grandi cimiteri sotto la luna”) aveva denunciato, da cristiano onesto quale era, le crudeltà compiute dalla sua fazione. Simone Weil, che aveva letto il libro, si complimentava con Bernanos, e a sua volta rievocava il disgusto che a lei aveva suscitato l’ebbrezza del sangue di tanti suoi compagni che a sera si complimentavano a vicenda per il numero dei preti uccisi. Ebbene, questa grande pensatrice diceva di aver visto in azione una ferocia umana che andava ben al di là delle ragioni dell’appartenenza politica, e concludeva la lettera con queste esemplari parole: «Bisogna essere sempre disposti a cambiare di campo, per inseguire la giustizia, questa eterna fuggitiva dai campi della vittoria». Maria Elena, novella Simone Weil, alla fine del suo denso racconto, ci propone una soluzione abbastanza simile. A questo proposito, vale la pena di riportare le ultime battute del colloquio tra il professor Alberini e Raffaele ormai pronto per la sua nuova vita.

«Non è mica un contratto la vita, Raffae’…non dobbiamo dimenticare di versare l’obolo fondamentale che dà senso a tutto.»

«Sarebbe, professo’?»

«L’amore, Raffae’…L’ha detto pure Cristo, no?», risponde Alberini, e precisa: «Cristo ci ha detto che noi siamo tutti uguali, sì, ma come figli di Dio, e l’anarchismo che siamo tutti uguali nei diritti. Ma non è vero che siamo tutti uguali. Se così fosse ci capiremmo all’istante. Invece…E poi le possibilità non so’ le stesse, c’è poco da fa’, né per il talenti…né per i natali…né per le condizioni economiche…»

«Ma che rimedio abbiamo a tutto questo?», chiede infine Raffaele.

E la risposta del professore non si fa attendere: è la stessa, si deve presumere, di quella di Maria Elena, ed è il vero filo rosso di tutto il piccolo grande romanzo:

«L’amore. Solo chi ha il coraggio d’amare, Raffae’, sopravvive».

Il rimedio suggerito è una di quelle medicine che scarseggiano sul mercato dei rapporti sociali, dove invece abbondano – ne facciamo esperienza ogni giorno – l’orgoglio e l’invidia: la caligine che sempre rimane quando gli eroici furori ideologici sono evaporati. Si ha l’impressione che l’utopia rivoluzionaria che l’ex sessantottino Raffaele finisce per fare propria è quella linea sull’orizzonte dove la terra e il cielo sembrano toccarsi… Una vera scrittrice è in mezzo a noi: Maria Elena Cialente.

Giuseppe Lalli, com.unica 4 luglio 2019

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