Alcune riflessioni sulla vita e l’opera del filosofo francese, uno dei massimi teorici del personalismo cristiano

La morte di Giustino Pacifico (una vita trascorsa alla direzione del patronato Acli dell’Aquila, nonché spesa generosamente nell’impegno politico e sociale della comunità locale), popolarissimo e stimato nella sua Paganica, e il riferimento, quanto mai appropriato, che il suo concittadino Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore, nel commosso e significativo ricordo dell’amico scomparso, ha fatto a Emmanuel Mounier (1905-1950), forse il massimo teorico del personalismo cristiano, mi inducono ad una riflessione su questo originale pensatore cattolico della prima metà del Novecento.

Si verifica a volte per alcune persone che espressioni, atteggiamenti, scelte, persino “tic” riferiti alla loro vita privata, rivelano la qualità morale del loro carattere più di quanto avrebbe potuto fare un trattato o una conferenza. È questo il caso di Emmanuel Mounier.

Poche settimane prima della sua morte (avvenuta nel 1950, a soli quarantacinque anni, maturo per il Cielo e per la terra), così scriveva ad un suo amico: « Sono un “intellettuale”. Questa parola richiama alla mente un certo numero di atrofie e di “tic”. Mi guarderò dal credermene esente. Ma spesso ripenso con riconoscenza ai miei quattro nonni contadini, veri contadini tutti e quattro, con le scarpe infangate, la levata alle tre ed una fetta di salame in mano. […] Quando mi ribello all’ipocrisia, alle espressioni ampollose, alle piroette o, sull’altro versante (l’Università), all’agghiacciante atteggiamento di sussiego avverto uno dei nonni che reagisce in me, il suo sano realismo che mi scorre nelle vene, l’aria dei suoi campi che purifica i miei polmoni […] ». E a un altro amico, nel 1936, confessando di sentirsi un montanaro, si paragona all’acqua di un lago di montagna:

« Nessuna increspatura alla superficie, una limpidezza disumana, ma il torrente rumoreggia sul fondo […]. Temperamento diseguale, di gusti nativi, insomma impulsivo, e fatto più per la contemplazione libera del cielo e della terra che per le iniziative e i dogmatismi ».

Nasce a Grenoble nel 1905. Dapprima si iscrive alla facoltà di Farmacia, per seguire la professione del padre; poi, divenuto cosciente della sua vera vocazione, passa al corso di Filosofia. Il padre, per nulla sorpreso, lo presenta a Jacques Chevalier (1882-1962), che era stato assistente di Henry Bergson (1859-1941), e che in quegli anni insegnava all’Università di Grenoble, con queste parole: « Professore, ecco mio figlio, che vuole studiare filosofia per fare apostolato ». Si laurea brillantemente, per poi proseguire gli studi alla Sorbona di Parigi ed ottenere l’abilitazione all’insegnamento, piazzandosi, nel relativo concorso, al secondo posto, dopo Raymond Aron (1905-1983). Per un po’ di anni insegna filosofia nei licei, avendo cura di scegliere le scuole non statali, che a quel tempo assicurano maggiore libertà intellettuale. Nel 1924 aveva conosciuto Jean Guitton (1901-1999), anche lui ex allievo di Chevalier, che gli sarà compagno di passeggiate e di istruttivi incontri comunitari nei boschi vicino a Grenoble, alla ricerca di orizzonti nuovi da schiudere all’impegno sociale e culturale di giovani e un po’ inquieti pensatori cattolici.

Agli inizi degli anni trenta risale il suo incontro con Jacques Maritain, (1882-1973) più vecchio di lui di una ventina d’anni: un’amicizia che rimarrà forte e leale anche nelle divergenze. È molto attivo, in questo scorcio di tempo, come pubblicista nel campo dell’impegno cristiano nella scuola. Nel 1932, dopo vari incontri di preparazione, fonda la rivista dal significativo titolo di « Esprit », di cui sarà direttore ed infaticabile animatore, scegliendo « un cammino senza ritorno » e rinunciando alla carriera accademica.

Nel 1935 sposa con Henriette Leclercq (1905-1991), che sarà la compagna di una vita, in un rapporto forte e reso ancor più spiritualmente fecondo dalla sofferenza. Nello stesso anno pubblica il volume Rivoluzione personalista e comunitaria, dove raccoglie i principali contributi apparsi su « Esprit » , nonché il saggio Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana, scritto che illustra il programma sociale di quel movimento personalista a cui ha dato vita. Seguiranno altri scritti, politici e filosofici, tra i quali un saggio sul pensiero di Charles Péguy (1873-1914), un altro sull’esistenzialismo, un trattato di psicologia sul carattere.

Ma cerchiamo di comprendere i tratti fondamentali del suo pensiero personalista.

Nel primo numero di « Esprit », in un articolo dal titolo Rifare il Rinascimento, egli spiega in che cosa consiste la rivoluzione che propone. « Il Personalismo – egli scrive – è uno sforzo integrale per comprendere e superare la crisi del secolo XX nella sua totalità ». E questo, a suo avviso, sarà possibile solo a patto che al centro della discussione teorica e dell’azione pratica si ponga la persona. Ma in che cosa consiste il concetto all’apparenza semplice di persona?

Ebbene, innanzi tutto, « la mia persona – afferma Mounier in Rivoluzione personalista e comunitarianon è la coscienza che io ho di essa. Ogni volta che io compio un atto di prelevamento della mia coscienza, che cosa prelevo? Il più delle volte, se non mi tengo ben saldo, prelevo solo frammenti effimeri d’individualità, labili come l’aria del giorno » . Né la persona si identifica, per il nostro pensatore, con quei personaggi che siamo stati in passato e che sopravvivono in noi per forza d’inerzia o per vigliaccheria; personaggi che ci illudiamo di essere, perché li invidiamo, e permettiamo loro di modellarci secondo quanto vuole la moda. Sono i nostri capricci. Se andiamo più a fondo nell’analisi di noi stessi, scopriamo i nostri desideri, le nostre volontà, le nostre speranze. Ma nemmeno tutto ciò costituisce ancora la nostra persona. « La mia persona – conclude Mounier – non coincide con la mia personalità. Essa è al di là del tempo, è un’unità data, non costruita, più vasta delle visioni che io ne ho, più intima delle ricostruzioni da me tentate. Essa è una presenza in me » .

Dopo aver dimostrato che la persona è inoggettivabile, egli specifica che essa « è il volume totale dell’uomo […] ; è in ogni uomo una tensione fra le sue tre dimensioni spirituali: quella che sale dal basso e l’incarna in un corpo; quella che è diretta verso l’alto e la solleva a un universale; quella che è diretta verso il largo e la porta verso una comunione. Vocazione, incarnazione, comunione sono le tre dimensioni della persona » .

Da questa rigorosa definizione per così dire “teorica” del concetto di persona, deriva all’uomo una altrettanto rigorosa norma di comportamento. L’uomo è chiamato a meditare sulla propria vocazione, vale a dire sul posto che deve occupare, e sui suoi doveri nella comunione universale. E siccome, d’altra parte, la persona è sempre incarnata in un corpo (siamo sempre anche corpo) e situata in precise condizioni storiche, di conseguenza « il problema non sta nell’evadere dalla vita sensibile e particolare, che si svolge tra le cose, in seno a società limitate, attraverso gli avvenimenti, ma nel trasfigurarla » . Inoltre, la persona, per raggiungere se stessa, deve donarsi alla comunità superiore, che chiama ed integra le singole persone. Da ciò risultano – conclude il nostro pensatore – i tre esercizi necessari per arrivare alla compiuta espressione della persona : 1) la meditazione, per la ricerca della propria vocazione; 2) l’impegno, vale a dire l’adesione ad un’opera che è riconoscimento della propria incarnazione; 3) la rinuncia a se stessi, che è iniziazione al dono di sé e alla vita in altri » . Se la persona manca di uno solo di questi esercizi, è lo scopo stesso dell’esistenza a venir meno.

Un impegno personale così rigoroso reclama una politica adeguata, che non può che essere una politica che guardi all’uomo nella sua interezza, materiale e spirituale. Sotto questo aspetto, Mounier rifugge, come si può intuire, sia dall’astratto moralismo, che è l’atteggiamento di chi, in buona o cattiva fede, si illude di cambiare la società cambiando gli individui, sia dall’idea, propria del marxismo (oggi, per la verità, sostituita da un generico e confuso sociologismo), che consiste nel credere che cambiando le strutture sociali l’uomo sarà salvo.

Ciascun lettore potrà giudicare se e in quale misura questa visione antropologica, che affonda le sue radici nel messaggio evangelico, ma che non disprezza il valore della cultura e della scienza, e che si pone in un atteggiamento di apertura verso il mondo e la storia, anticipando in questo un atteggiamento che sarà fatto proprio dalla Chiesa nel Concilio Vaticano II (visione che Mounier propone e che io mi sono sforzato di sintetizzare nei suoi elementi essenziali) sia in grado di confrontarsi con i problemi posti dalla società odierna. A me pare che in questa idea personalista ci sia una verità sull’uomo che prescinde da ogni riferimento cronologico.

Qualche annotazione, infine, per meglio comprendere la “persona” di Emmanuel Mounier. La sua prima figlia, Francoise, si ammalò dopo una vaccinazione antivaiolosa, cadendo in uno stato di incoscienza. Subito apparve chiaro che la piccolo era condannata a vivere « in una misteriosa notte dello spirito » . Appresa la notizia, Mounier scrive alla moglie: « Che senso avrebbe tutto ciò se la nostra bimba non fosse che un batuffolo di carne sprofondata non si sa dove, un frammento di esistenza senza senso e non già questa bianca, piccola ostia che tutti ci supera, un’immensità di mistero e d’amore che ci abbaglierebbe se si mostrasse ai nostri occhi? […] Dal mattino alla sera, non pensiamo a questa sofferenza come a qualcosa che ci viene tolto, ma come a qualcosa che doniamo, per non essere da meno di questo piccolo Cristo che è fra noi, per non lasciarlo solo, lui che deve attrarci, per non lasciarlo solo a soffrire con Cristo » .

Che cosa si può aggiungere alle stupende parole di questo cristiano coraggioso ? Mounier, inoltre, visse povero.

Volle non certo a caso chiamare la sua rivista “Esprit”, che in francese significa “spirito”, ciò che per lui veniva prima della materia, benché, come ho cercato di far comprendere, fosse disposto a riconoscere alla dimensione materiale dell’esistenza tutta la sua importanza.

Leggiamo nel suo diario che la sua straordinaria avventura editoriale iniziò con la partecipazione ad una Santa Messa, quasi a voler ricordare che per il cristiano la vita interiore (la preghiera: non ci vergogniamo a dirlo!) è l’anima di ogni apostolato.

Un santo piuttosto “pragmatico” del secolo scorso amava ripetere che le crisi mondiali sono crisi di santi…

Giuseppe Lalli, com.unica 14 luglio 2019

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