La nuova criptovaluta di Facebook: il pollice verso di un premio Nobel
L’economista americano Joseph Stiglitz lancia un serio allarme sui rischi legati alla sicurezza e alla nostra privacy.
NEW YORK – Facebook e alcuni suoi alleati aziendali hanno deciso che quello di cui il mondo ha veramente bisogno è un’altra criptovaluta, e che lanciarne una sia il modo migliore per utilizzare i molti talenti a loro disposizione. Il fatto che Facebook pensi questo la dice lunga su ciò che non va nel capitalismo americano del ventunesimo secolo.
Per certi versi, è un momento curioso per lanciare una moneta alternativa. In passato, il principale motivo di lamentela nei confronti delle valute tradizionali era la loro instabilità, dal momento che un’inflazione rapida e incerta le rendeva una riserva di valore poco affidabile. Ma il dollaro, l’euro, lo yen e il renminbi si sono dimostrati tutti assai stabili. Casomai, a preoccupare oggi è la deflazione, non l’inflazione.
Il mondo, fra l’altro, ha fatto dei progressi sul fronte della trasparenza finanziaria, rendendo più difficile utilizzare il sistema bancario per riciclare denaro e per altre attività scellerate. La tecnologia, poi, ci ha permesso di effettuare transazioni in maniera efficiente, trasferendo denaro dai conti dei clienti a quelli dei rivenditori nel giro di nanosecondi, con un ottimo livello di protezione dalle frodi. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un nuovo mezzo per alimentare attività illecite e riciclarne i profitti, cosa che un’altra criptovaluta quasi sicuramente sarebbe.
Il vero problema legato alle valute e agli accordi finanziari esistenti, che fungono sia da mezzo di pagamento che da riserva di valore, è l’assenza di concorrenza e regolamentazione tra le aziende che controllano le transazioni. Di conseguenza, i consumatori – specialmente negli Stati Uniti – pagano molto più di quello che costerebbero i pagamenti in sé, rimpinguando le tasche di Visa, Mastercard, American Express e alcune banche con “rendite” – profitti enormi – per decine di miliardi di dollari l’anno. Il “Durbin Amendment”, che ha modificato la riforma finanziaria Dodd-Frank del 2010, limita le commissioni eccessive dei bancomat in misura minima e non affronta affatto il ben più grande problema delle esose commissioni associate alle carte di credito.
Altri paesi, come l’Australia, hanno fatto molto di meglio, incluso vietare alle società di carte di credito di utilizzare clausole contrattuali per limitare la concorrenza; d’altro canto, la Corte Suprema statunitense, con un’altra delle sue decisioni 5 a 4, sembra aver ignorato gli effetti anticoncorrenziali di tali disposizioni. Ma se anche gli Stati Uniti decidono di avere un sistema finanziario non competitivo di second’ordine, l’Europa e il resto del mondo dovrebbero opporsi: non è anti-americano essere a favore della concorrenza, come invece sembra aver suggerito Trump di recente criticando il commissario europeo alla concorrenza Margrethe Vestager.
Verrebbe da chiedersi quale sia il modello di business di Facebook e perché in così tanti sembrano interessati alla sua nuova avventura. Può darsi che ambiscano a una riduzione delle rendite spettanti alle piattaforme tramite cui si effettuano le transazioni. Il fatto di credere che un aumento della concorrenza non rischierà il quasi azzeramento dei profitti testimonia la fiducia del settore delle imprese nella propria capacità di detenere il potere di mercato – e nel suo potere politico di garantire che il governo non interverrà per contenere tali eccessi.
Visto il rinnovato impegno della Corte Suprema statunitense a minare la democrazia americana, Facebook e i suoi amici potrebbero pensare di avere poco da temere. Ma le autorità di regolamentazione, cui è affidato il compito non solo di mantenere la stabilità ma anche di garantire la concorrenza nel settore finanziario, dovrebbero intervenire. E in altre parti del mondo, il dominio tecnologico dell’America con le sue pratiche anticoncorrenziali suscita meno entusiasmo.
In teoria, il valore della nuova criptovaluta Libra sarà ancorato a un paniere di valute internazionali e garantito al 100%, presumibilmente da un insieme di titoli di stato. Ecco profilarsi, quindi, un’altra possibile fonte di introiti: non pagando interessi sui “depositi” (le valute tradizionali scambiate con Libra), Facebook può trarre un profitto di arbitraggio dagli interessi che riceve su tali “depositi”. Ma perché mai qualcuno affiderebbe a Facebook un deposito a zero interessi, quando potrebbe investire il proprio denaro in buoni del Tesoro americano, molto più sicuri, o in un fondo del mercato monetario? (La registrazione dei guadagni e delle perdite in conto capitale ogni volta che avviene una transazione, quando Libra viene riconvertita nella moneta locale, unitamente alla tassazione prevista sembrano rappresentare un ostacolo importante, a meno che Facebook non creda di poter calpestare il nostro regime fiscale, come ha fatto con i timori legati alla privacy e alla concorrenza).
La domanda sul modello di business ha due risposte ovvie: una è che le persone coinvolte in attività losche (compreso, forse, l’attuale presidente americano) sono disposte a pagare un bel gruzzolo per fare sì che tali attività – corruzione, evasione fiscale, traffico di droga o terrorismo – passino inosservate. Tuttavia, dopo così tanti progressi compiuti per impedire che il sistema finanziario venga utilizzato per agevolare il crimine, perché mai qualcuno – figurarsi il governo o i regolatori finanziari – dovrebbe giustificare un simile strumento semplicemente perché è definito “tecnologico”?
Se il modello di business di Libra è questo, i governi dovrebbero stroncarlo immediatamente. Quantomeno, Libra dovrebbe essere soggetta alle stesse norme sulla trasparenza che valgono per tutto il settore finanziario. Ma, a quel punto, non sarebbe più una criptovaluta.
In alternativa, c’è il rischio che i dati economici raccolti attraverso le transazioni Libra vengano acquisiti, come è accaduto con tutti gli altri dati di cui Facebook è entrato in possesso, aumentando il potere di mercato e i profitti di quest’ultimo, e minando ulteriormente la nostra sicurezza e privacy. Facebook (o Libra) potrebbe promettere di non farlo, ma chi gli crederebbe?
Esiste, poi, un problema di fiducia più ampio. Ogni valuta si basa sulla fiducia che i dollari duramente guadagnati e “depositati” in essa saranno rimborsabili su richiesta. Già da qualche tempo, il settore bancario privato ha dimostrato la sua inaffidabilità al riguardo, e questo ha reso necessaria l’introduzione di nuove norme prudenziali.
Tuttavia, nel giro di pochissimi anni Facebook si è guadagnato un livello di sfiducia per raggiungere il quale il settore bancario ha impiegato molto più tempo. Ancora una volta, i leader di Facebook, di fronte alla scelta tra il denaro e l’adempimento delle loro promesse, hanno agguantato i soldi. E nulla potrebbe riguardare il denaro più della creazione di una nuova valuta. Soltanto un folle affiderebbe a Facebook il proprio benessere economico. Ma forse il punto è proprio questo: con una tale quantità di dati personali su circa 2,4 miliardi di utenti attivi ogni mese, chi meglio di Facebook sa quanti fessi nascono ogni minuto?
Joseph E. Stiglitz, project-syndicate luglio 2019
*Premio Nobel per l’Economia nel 2001, insegna Politica Economica alla Columbia University ed è capo economista presso il Roosevelt Institute.