Elie Wiesel, il ragazzo di Auschwitz che non distolse gli occhi dal Male
Un ritratto di Antonio Monda (per La Stampa) del filosofo e scrittore di origine ebraica superstite dell’Olocausto
Nel 1928, il paese in cui nacque era ancora un regno, e Ferdinando di Romania concesse proprio allora la cittadinanza agli ebrei. Eliezer Wiesel, che tutti chiamavano Elie, visse l’infanzia in un’atmosfera piena di speranza e fiducia nel futuro. A casa i genitori Schlomo e Sarah elogiavano anche le altre iniziative di quel sovrano saggio e illuminato: un’importante riforma agraria e una costituzione di stampo liberale. Ma purtroppo il sogno si spezzò presto con la morte improvvisa del re: il piccolo Elie fu testimone della svolta autoritaria del successore Carol II, del patto Molotov-Ribbentrop che assegnò la Bessarabia all’Unione Sovietica e quindi del massacro di Fântâna Albă da parte delle milizie comuniste. Non aveva ancora compiuto dieci anni quando l’imprescindibile presenza del male entrò prepotentemente nella sua vita con tutta la sua assurdità, ma nulla cambiò il suo sguardo sul mondo come il vivere in prima persona l’orrore delle persecuzioni razziali.
Negli anni in cui ho avuto il privilegio di frequentarlo, il professor Wiesel – non ho mai osato rivolgermi in maniera meno formale – mi ha parlato molto di quei primi anni e in particolare dei genitori: «Mio padre ha rappresentato per me la ragione, mia madre la fede, e questa è stata una benedizione». Termini come benedizione e gratitudine erano frequenti nel suo linguaggio, come anche fede e speranza, e vedevi negli occhi quanto fosse sincero, a dispetto del dolore, dell’angoscia, del sopruso che gli offriva ogni giorno la vita. Quando gli chiesi come avesse fatto a non perdere la fede, mi rispose in pura tradizione chassidica «non esiste fede più solida di quella che è stata ferita». Poi mi spiegò che «Dio in realtà non è mai silenzioso» e che anche la più buia delle notti termina con l’alba. Non è un caso che notte sia il termine utilizzato per uno dei suoi libri più belli, dove il momento più struggente è quello in cui racconta la vergogna provata quando seppe che il padre era morto di stenti ad Auschwitz.
Aveva soltanto quindici anni ed era stato internato insieme con lui: aveva visto morire davanti ai suoi occhi la mamma e la sorella, e giurato a se stesso che lui sarebbe sopravvissuto per non far morire di crepacuore il padre. Era stato invece proprio il razionale Schlomo a soccombere, lasciandolo solo nel campo di concentramento, prima di un nuovo trasferimento a Buchenwald. Pronunciava il nome di quei luoghi senza emozione, nel modo in cui un medico parla di un male incurabile, eppure lui era riuscito a vincere su quell’infamia, ed esiste una foto in cui è ritratto, adolescente, nel giorno della liberazione. Forse la notte finiva in quel momento, ma il ricordo indelebile di quell’orrore lo portava tatuato sull’avambraccio sinistro, con il numero A-7713. «Non esiste nulla nella storia paragonabile all’Olocausto del mio popolo, ma nessuno può illudersi che il male scompaia con la sconfitta del nazismo», spiegava, e parlava volentieri di chi lo aveva aiutato a rinascere e aver fiducia nella vita.
Era commovente sentirlo parlare dei suoi anni in Francia, quando venne accolto in un centro di assistenza prima ad Ecouy e poi a Taverny. Poche persone hanno forgiato la sua crescita come Judith Hemmendinger e poi, negli studi alla Sorbona, Martin Buber e Jean Paul Sartre. Ma nessuno ha avuto un ruolo determinante come FrançoisMauriac, che lo definì come «Lazzaro resuscitato dai morti». Wiesel diceva di lui: «io, ebreo, devo a lui, che si definiva innamorato di Cristo, se sono diventato uno scrittore». Una volta Mauriac gli regalò un suo libro con la dedica «a Elie Wiesel, bambino ebreo che fu crocefisso»: lui all’inizio la prese male, ma poi comprese «che era il suo modo di farmi sentire il suo amore, oltre al fatto che crediamo nello stesso Dio». Parlava volentieri anche della fede, spiegando che «l’esistenza di Dio è l’unico problema autentico nel quale tutti gli altri sono riassunti. A volte penso che parliamo sempre di Dio senza rendercene conto». Un giorno gli chiesi come immaginasse Dio: «Pascal ha parlato dell’esistenza di un Dio nascosto. La stessa Bibbia parla di Dio che si copre il volto. E io interpreto che Dio si copre il volto perché non riesce a sopportare quello che vede, quello che facciamo noi uomini».
L’aver visto e vissuto l’inferno gli consentiva di parlare con assoluto distacco di personalità quali Orson Welles, che voleva adattare La notte per il cinema, o Saul Bellow, con cui parlava soltanto di letteratura. Ma questo non frenava mai la passione del suo impegno civile e politico: parlava senza remore del genocidio degli Armeni, arrivando a sostenere che negarlo significa commettere il crimine due volte. Non esiste abuso o discriminazione contro un popolo o una minoranza che non lo abbia visto schierarsi in prima fila, e combatteva fortemente ogni tipo di fanatismo e fondamentalismo, che non riteneva una degenerazione, ma un tradimento della religione. Per lui era determinante il concetto di scelta, spiegando che «se non fosse così si limiterebbe l’idea stessa di fede». Parlava poco del fatto di essere stato insignito del Nobel per la pace, e ho sempre sospettato che non avesse apprezzato altre scelte operate dai responsabili del premio. Ma quando ritirò l’onorificenza spiegò che «il silenzio incoraggia il tormentatore, non il tormentato. Ci sono momenti in cui dobbiamo interferire. Quando le vite umane sono a rischio, quando la dignità umana è in pericolo, le sensibilità e i confini umani diventano irrilevanti».
Parlava ancora meno del fatto di essere stato una delle tante vittime di Bernie Madoff, sia per quanto riguarda la sua fondazione, che per i risparmi privati. Era giunto al tramonto di una esistenza che non lo aveva mai visto soccombere, e provava imbarazzo per essersi fidato di un criminale che prometteva interessi mirabolanti.
In quello stesso periodo aveva iniziato a dialogare anche con personalità dello spettacolo come Oprah Winfrey e George Clooney, capendo che il mondo stava cambiando velocemente, e che il suo approccio colto e austero doveva dialogare anche con la cultura popolare. Ha testimoniato le proprie idee sino alla fine, però, anche quando erano scomode e controcorrente: entrò in polemica con Obama, che pure stimava, rispetto a Israele, sostenendo «Gerusalemme è al di sopra della politica. È citata più di seicento volte nelle scritture, e nemmeno una volta nel Corano. Appartiene al popolo ebraico ed è molto più che una città». Faceva impressione il senso di appartenenza con cui pronunciava i luoghi della terra promessa: il tono era malinconico e orgoglioso. Gli ultimi tempi aveva diradato ogni impegno, preferendo dialogare a lungo con l’adorata moglie Marion. «Sempre di vita, però, perché parlare di morte è negare la fede».
Antonio Monda, La Stampa 18 agosto 2019