Israele non è a rischio, la democrazia è forte. Qui non c’è spazio per un altro Mussolini
Il commento dello storico israeliano Benny Morris sulle elezioni in Israele (dal Corriere della Sera)
Nelle ultime settimane, alcuni analisti hanno scritto che lo Stato israeliano di oggi presenta numerose analogie con la Germania dell’era pre-Weimar, precedente all’ascesa di Hitler, e con l’Italia mussoliniana, alla vigilia della marcia su Roma. Costoro insinuano, anzi, ipotizzano apertamente che l’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che dovrà affrontare elezioni fatidiche domani, sia un aspirante dittatore che negli ultimi anni ha eliminato, o gravemente indebolito, vari ostacoli che impedivano il suo cammino verso un regime autoritario. Io non credo che simili analogie storiche abbiano il benché minimo fondamento.
È indiscutibile invece che la polizia e le autorità competenti, sotto la guida del procuratore generale, Avichai Mandelblit (nominato dallo stesso Netanyahu nel 2016, dopo aver ricoperto l’incarico di segretario di gabinetto nel suo governo), hanno messo sotto inchiesta il primo ministro per molteplici accuse di corruzione e di abuso d’ufficio, ed è molto probabile che dopo l’udienza finale prevista per il mese prossimo, Mandelblit farà processare Netanyahu. È proprio per evitare questo processo che Netanyahu negli ultimi mesi ha attaccato ferocemente il sistema giudiziario del Paese, dalla Corte suprema a Mandelblit fino ai ranghi inferiori. Non credo però che Netanyahu lo abbia fatto con il proposito di abbattere la democrazia israeliana e le sue infrastrutture, ma solo con l’intento di sottrarsi alla giustizia. Dopo tutto, è stata la democrazia israeliana ad affidare ripetutamente la guida del Paese a Netanyahu e a garantirgli l’incarico di primo ministro dal marzo 2009 a oggi.
Netanyahu è infatti il primo ministro israeliano con la maggiore anzianità di servizio (ed è stato primo ministro anche dal 1996 al 1999). Netanyahu ha ragione da vendere quando si lamenta – come il presidente americano Donald Trump – che i mezzi di comunicazione gli sono ostili, e addirittura lo odiano (i giornalisti attaccano anche sua moglie, Sarah, spesso descritta come «pazza» e corrotta). Parte delle accuse di corruzione, di cui Netanyahu è chiamato a rispondere, nascono proprio dai suoi sforzi per ottenere una copertura mediatica favorevole per se stesso e la sua famiglia. Sembra improbabile, tuttavia, che Netanyahu riuscirà anche questa volta a ricacciare il genio della giustizia nella lampada, anche se vincesse le elezioni politiche di domani. Non sono un ottimista, ma finora Netanyahu non è riuscito a spazzar via dalla sua strada i tutori della legge, e il giorno del giudizio si avvicina. Potrebbe darsi che perderà le elezioni, come suggeriscono alcuni sondaggi. Ma anche se dovesse mettere a segno una vittoria sul filo del rasoio, non sembra probabile che tutti i partner della sua potenziale coalizione, e persino i membri del suo stesso partito Likud, si stringeranno attorno a lui per salvargli la pelle.
Alcuni critici affermano che, anche nel caso di sconfitta domani, Netanyahu ha già fatto danni enormi alla democrazia israeliana e ne ha scalzato le istituzioni. Ma in una democrazia consolidata — e Israele, tra alti e bassi, è una democrazia piena e funzionante da 71 anni a questa parte — la nomina di un candidato inadatto a capo di un’istituzione non sancisce la fine di quell’istituzione, come l’elezione del presidente Trump non segna la morte della democrazia americana né dell’istituzione della presidenza. Da ultimo, gli ebrei di Israele — benché molti siano originari di Paesi privi di tradizioni liberali — sono saldamente agganciati allo stile di governo democratico e non assomigliano in nessun modo ai tedeschi della breve parentesi di Weimar. E benché Netanyahu abbia cavalcato con successo l’onda messianica che prese avvio dopo la vittoria nella guerra dei Sei giorni, nel 1967, che portò la destra al potere, quel messianismo, forse in crescita sotto il profilo demografico, resta circoscritto a una minoranza di ebrei israeliani.
Benny Morris, Corriere della Sera 16 settembre 2019
(traduzione di Rita Baldassarre)