Le dimissioni da Pontefice: Celestino V e Benedetto XVI
La rinuncia al potere: una festa mai celebrata
L’AQUILA – C’è sempre qualcosa di strano nella storia degli uomini. Qualcosa di inafferrabile, di incomprensibile. Ma certamente di calcolato, voluto, condiviso. L’interrogativo: “Perché il 13 dicembre di ieri e di oggi non è mai diventata una festa?” Una data rimasta nel silenzio, spesso nel più lontano dimenticatoio. In quel giorno, in quella data storica, un papa rassegnò le dimissioni. Si chiamava Celestino V. Un gesto mai accaduto, se non alcune volte per gravi motivi di salute. Un gesto, quello di Celestino, profondamente rivoluzionario non solo nella storia della Chiesa, ma nella storia degli uomini. Imperatori e re dimissionari non pare ce ne siano stati. Le dimissioni non sono mai passate come gesto di esempio e di coerenza, ma espressione di pavidità e di fuga dalle responsabilità.
Le dimissioni di Papa Celestino V furono e sono rimaste come denuncia, attacco ad un potere che aveva ben poco di evangelico. Ad un regime ed un sistema lontani dalla vita eremitica che Pietro del Morrone aveva condotto fino alla incoronazione papale. Le dimissioni sono il frutto d’una consapevolezza interiore che nega il potere come tale, rinunciandovi e ritenendolo ostacolo alla salvezza. Lo afferma espressamente: «Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per bisogno di umiltà, di perfezionamento morale e per obbligo di coscienza, per debolezza del corpo, difetto di dottrina e la cattiveria del mondo, al fine di recuperare la pace e le consolazioni della vita di prima, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta».
E lo conferma il successore, Bonifacio VIII, nella Bolla “Olim Celestinus” dell’8 aprile 1295: «incalzandolo la coscienza, puramente ed assolutamente rinunciò al papato». Rinunciava ad un tipo di papato che Bonifacio desiderava ed aveva ottenuto. E rinunciava non “per viltade” come sembra accusarlo Dante Alighieri: “vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto”. Sono i versi più famosi della Divina Commedia, riguardanti Celestino V. Resta il fatto che Dante parli di “ombra”, anche se allora facilmente individuabile. La motivazione dell’attacco di Dante, sempre che si riferisca a Celestino, sembra avere valore politico personale. Così scrivono Bianca Garavelli e Maria Corti: “È possibile, anzi plausibile che Dante si accanisse contro l’eremita molisano perché con la sua rinuncia al papato permise indirettamente l’ascesa del Caetani, spietato fautore del potere temporale del papato, esponente di un modo secondo Dante eccessivamente politico e aggressivo di interpretare il ruolo della Chiesa, e suo nemico personale”.
Un altro grande poeta del medioevo italiano, Francesco Petrarca, nato otto anni dopo la morte di Celestino V, nel “De vita solitaria” esclama “Oh fossi vissuto con lui!” e dichiara: “Persone che lo videro mi raccontarono che fuggì, con tanto giubilo, mostrando tali segni di letizia negli occhi e nella fronte quando si allontanò dal concistoro, libero di sé, come se avesse liberato il collo non da un peso lieve, ma da crudeli mannaie, tanto che gli sfolgorava in viso qualche cosa d’angelico”. Sono parole meravigliose, quando ormai Celestino è diventato un mito, un modello di papa santo. “La sua santità – scrisse nel Trecento Giovanni Villani – era stata proclamata ancor prima che egli morisse”. E Paolo Golinelli, nella biografia dal titolo “Il papa contadino”, scrive: “Mentre Bonifacio cercava di consolidare il suo potere, Celestino si era già guadagnato la palma del martirio e l’onore degli altari presso il popolo”.
La fuga dal palazzo reale di Napoli, dove si trovava relegato come pontefice, anche se in una povera capanna costruita appositamente per lui, era la riconquista della libertà contro l’ipocrisia e la contraddizione. Un cristiano/papa non poteva vivere tra le ricchezze d’un re, accumulate frodando e impoverendo il suo popolo. Più che rinuncia, perché all’inizio aveva accettato, in Celestino si evidenzia il netto rifiuto della carica, del ruolo del papa, in quelle condizioni di servo dei potenti. Lo stretto rapporto con Carlo ll d’Angiò che lo schiacciava col suo potere regale e che muoveva tutti i fili del pontificato era una evidente ingiustizia che subiva e una colpa che lo affliggeva.
La vita di Celestino V è stata una continua “conversione” (metànoia). Ne è testimonianza la stessa proclamazione della Perdonanza, all’atto della sua incoronazione a L’Aquila il 29 agosto 1294 nella Basilica di Collemaggio. E l’istituzione della Perdonanza celestiniana – il primo giubileo della cristianità – con la Bolla “Inter sanctorum solemnia” del seguente 29 settembre, non è un normale anno giubilare, come quello proposto nel 1300 dal successore Bonifacio VIII. È una frattura. Un diaframma che infrange il ritmo del tempo, la routine della vita. Con il rito della Perdonanza Celestino intendeva proporre alla Cristianità Universale lo stile di vita evangelica: la conversione interiore. Era la realizzazione dell’Amore per Dio e per gli uomini, che fra Pietro aveva imparato e vissuto durante la sua permanenza sul Morrone, a contatto con la natura, con la gente semplice e povera di quei luoghi impervi d’Abruzzo.
Il concetto di Perdono, direttamente connesso alla incoronazione papale, appare come una confessione pubblica di fallibilità e di indulgenza, di fiducia e di debolezza. Un atto di umiltà che Bonifacio VIII revoca con estremo rigore mediante la Bolla “Sicut plurimorum assertio” del 18 agosto 1295, perché in antitesi con la sua visione del potere papale, ma che non riuscirà ad annullare, perché mai il Primo Magistrato aquilano – il sindaco dell’epoca –, cui Celestino aveva consegnato un originale della Bolla, la restituì. Da 725 anni il prezioso documento è custodito nel forziere della Cappella della Torre civica e proprio il suo possesso ha consentito per oltre sette secoli che sia proprio l’autorità civile, e non quella religiosa, ad indire annualmente questo speciale Giubileo di un giorno che concede l’indulgenza plenaria a chiunque, sinceramente pentito e confessato, varchi la porta della Basilica di Collemaggio dai Vespri del 28 agosto a quelli del giorno immediatamente successivo.
Dopo l’incoronazione, Papa Celestino V e il Re Carlo II d’Angiò partono per Napoli e vi arrivano il 5 novembre, accolti da una massa di napoletani entusiasti. I 107 giorni, dal 29 agosto al 13 dicembre 1294, rappresentano il tempo di riflessione, di sofferenza, di espiazione per aver accettato la nomina a pontefice. Un tempo trascorso nel ricordare i luoghi del suo eremitaggio. Desiderio che cercherà di realizzare in tutti i modi, chiedendo direttamente al nuovo papa di tornare all’eremo di S. Onofrio. Richiesta che Bonifacio nega, dicendogli: “Non voglio che tu torni all’eremo, ma voglio che mi segua in Campania”, come riferisce Tommaso da Sulmona. Ma, al seguito di Bonifacio, giunti al convento di Piedimonte San Germano, la piccola Montecassino, confida la sua idea di fuggire ad un sacerdote amico, che gli mette a disposizione una bestia da soma e può così raggiungere il Morrone.
La gente di Sulmona, appresa la notizia, sale a salutarlo. Rimane sul Morrone alcuni mesi, nella primavera del 1295. Sarà il periodo delle sue fughe quotidiane per evitare le guardie papali che lo vanno cercando. Al disgelo, quando il Morrone e le falde della Maiella si liberano dell’alta coltre di neve, intraprende con un compagno il cammino verso il Gargano e la Foresta Umbra. Ma, braccato anche in quei luoghi, progetta di oltrepassare il mare per recarsi in Grecia, tanto che alcuni marinai di Rodi Garganico si rendono disponibili ad aiutarlo e predispongono la barca. Riescono a partire, ma vengono rigettati dal vento e dalla tempesta sulla costa, vicino a Vieste.
Bonifacio VIII non si dà pace e cerca di rintracciarlo, rivolgendosi alle autorità per farlo arrestare e condurlo da lui. È così che una delegazione con il patriarca di Gerusalemme e un priore dei Templari riesce a scovarlo e ad accompagnarlo in Campania, dove Bonifacio aveva inviato il vescovo Teodorico Ranieri che, di notte, senza che nessuno se ne accorgesse, conduce Celestino ad Anagni, al palazzo dei Caetani. Al mattino, l’incontro tra Bonifacio e Celestino. Bonifacio gli rimprovera la fuga da San Germano e di aver disobbedito. Celestino chiede perdono e implora nuovamente di poter tornare sul Morrone. Bonifacio lo trattiene ad Anagni per due mesi. Parecchi cardinali erano del parere di lasciarlo in pace, ma Bonifacio aveva trovato la soluzione: rinchiuderlo in una cella del castello di Fumone. Vi rimane dall’estate 1295 al 19 maggio 1296. Il giorno della sua morte.
La figura di Pier da Morrone/Celestino V è indubbiamente, a tutt’oggi, un enigma. “Una figura lontana, diversa, per certi aspetti incomprensibile” la definisce Paolo Golinelli. Un “povero cristiano”, per dirla con lo scrittore abruzzese Ignazio Silone, autore del dramma “L’avventura d’un povero cristiano”, in cui focalizza il conflitto tra istituzione e profezia, lettera e spirito. Silone, umilmente e quasi sotto voce, cerca di rintracciare la via maestra, segnata da Celestino, per costruire un mondo di pace e di fratellanza, concludendo: «A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il “Pater noster”». L’esempio di Celestino è stato seguito, dopo oltre sette secoli, da Benedetto XVI, che annuncia le dimissioni l’11 febbraio 2013, stabilendo che la sede pontificia diventi vacante dalle ore 20.00 del 28 febbraio 2013. Anche le sue dimissioni evidenziano la debolezza d’una persona di 86 anni ed una inconfessata denuncia della burocrazia vaticana, causa di uno spiacevole isolamento nello svolgimento dell’attività pastorale di pontefice. Dimissioni che aprono nuove vie.
Proprio parlando di Celestino V, nella visita pastorale del 4 luglio 2010 a Sulmona, nell’800° anniversario della nascita di Pietro Angelerio del Morrone, Papa Benedetto XVI tra l’altro affermava: «[…] San Pietro Celestino, pur conducendo vita eremitica, non era “chiuso in se stesso”, ma era preso dalla passione di portare la buona notizia del Vangelo ai fratelli. E il segreto della sua fecondità pastorale stava proprio nel “rimanere” con il Signore, nella preghiera, come ci è stato ricordato anche nel brano evangelico odierno: il primo imperativo è sempre quello di pregare il Signore della messe. Ed è solo dopo questo invito che Gesù definisce alcuni impegni essenziali dei discepoli: l’annuncio sereno, chiaro e coraggioso del messaggio evangelico – anche nei momenti di persecuzione – senza cedere né al fascino della moda, né a quello della violenza o dell’imposizione; il distacco dalle preoccupazioni per le cose – il denaro e il vestito – confidando nella Provvidenza del Padre; l’attenzione e cura in particolare verso i malati nel corpo e nello spirito. Queste furono anche le caratteristiche del breve e sofferto pontificato di Celestino V e queste sono le caratteristiche dell’attività missionaria della Chiesa in ogni epoca. […]».
E ancora Papa Benedetto a Sulmona: «[…] Tutto questo non distoglie dalla vita, ma aiuta invece ad essere veramente se stessi in ogni ambiente, fedeli alla voce di Dio che parla alla coscienza, liberi dai condizionamenti del momento! Così fu per san Celestino V: egli seppe agire secondo coscienza in obbedienza a Dio, e perciò senza paura e con grande coraggio, anche nei momenti difficili, come quelli legati al suo breve Pontificato, non temendo di perdere la propria dignità, ma sapendo che questa consiste nell’essere nella verità. E il garante della verità è Dio. […]». Un anno prima, il 28 aprile 2009 a L’Aquila, visitando la Basilica di Collemaggio devastata dal sisma, Papa Benedetto XVI si era raccolto davanti all’urna con le spoglie di san Celestino V, rimasta intatta nel mausoleo quasi per miracolo salvo dalle copiose macerie d’intorno, e vi aveva deposto con un gesto di umiltà e d’intenso raccoglimento il suo Pallio di pontefice. Un gesto fortemente simbolico davanti al suo predecessore, quasi profetico per quel che egli stesso avrebbe compiuto tre anni dopo, con le sue dimissioni.
Per questo il successore, col nome significativo di Francesco, eletto il 13 marzo 2013, ha preferito vivere in una normale dimora, la casa di Santa Marta, a testimonianza di stile e di esempio di vita. Non sappiamo se la data della sua ordinazione sacerdotale, il 13 dicembre 1969, abbia riferimenti con la data delle dimissioni di Celestino V, ma certamente appare non casuale e piuttosto provvidenziale a motivo dell’incontro inimmaginabile tra un pontefice che lascia il potere ed uno che lo accoglie. Papa Francesco, con l’età di 83 anni, non sembra preoccuparsi per motivi di salute, ma potrebbe anch’egli raggiungere gli 86 anni e rassegnare le dimissioni. Cosa assolutamente possibile, anche se non augurabile.
Resta sempre, latente, il desiderio di quel “Papa Angelico, al quale sarà data piena libertà per rinnovare la religione cristiana e per predicare il Verbo di Dio”, secondo le parole di Gioacchino da Fiore, applicate allora a Celestino V. È oggi più che evidente lo sforzo di Papa Francesco nel rinnovare la Chiesa, nonostante le critiche dei conservatori e, talvolta, la mancanza di adesione convinta da parte dei collaboratori più stretti. Purtroppo negli episcòpi, spesso antiche e artistiche costruzioni con numerose stanze decorate, i vescovi vi dimorano come gentiluomini e burocrati. Lontani dagli eremi dove viveva e amava vivere Celestino. E, paradossalmente, lontani da quel popolo di Dio che sono chiamati a servire.
Paolo VI, nel post Concilio, aveva ordinato ai vescovi di rassegnare le dimissioni all’età di 75 anni, con il Motu Proprio “Ecclesiae Sanctae” del 6 agosto 1966. Una normativa che lo aveva angosciato, perché avrebbe dovuto valere anche per il papa. Si recò al castello di Fumone, il 1° settembre di quell’anno, in visita alla cella dove era morto Celestino, per pregare e avere ispirazione sul tema delle dimissioni. Addirittura si parlò di sue dimissioni e di un eventuale eremitaggio sul Morrone, sulle orme di Celestino. In quella occasione Papa Paolo VI tra l’altro disse: «[…] Ed ecco rifulgere la santità sulle manchevolezze umane: il Papa (Celestino V, ndr), come per dovere aveva accettato il Pontificato supremo, così, per dovere, vi rinuncia; non per viltà, come Dante scrisse – se le sue parole si riferiscono veramente a Celestino – ma per eroismo di virtù, per sentimento di dovere. E morì qui, segregato, perché altri non potesse profittare ancora della sua semplicità ed umiltà, e la morte non fu per lui la fine, ma il principio della gloria, oltre che nel paradiso, anche sulla terra. […]». Le disposizioni che obbligano i vescovi a rassegnare le dimissioni all’età di 75 anni sono state recentemente ribadite anche da Papa Francesco. La regola delle dimissioni apre una strada nuova, meravigliosa, non solo per la Chiesa, ma per l’umanità. È la strada della critica al potere che deve trasformarsi in servizio. Una critica che assume i caratteri dell’auto-critica.
Celestino, dunque, non è imprigionabile nelle stanze del potere, di ogni potere, anche di quello ecclesiastico, simboleggiato dalla tiara, il copricapo che con Bonifacio VIII diventerà “triregno”, a significare il potere temporale del papato. Questo simbolo venne eliminato da Paolo VI e venduto per ricavarne denaro da destinare ai popoli del Terzo Mondo. La salma di Celestino, lasciata prima a Ferentino, da alcuni monaci Celestini fu proditoriamente trafugata nel 1327 e traslate a L’Aquila. Nel frattempo c’era stata la prima canonizzazione di san Pietro del Morrone, come confessore, avvenuta nel 1313 ad opera di Clemente V ad Avignone, dove lo stesso pontefice aveva trasferito la sede apostolica. Bisogna attendere il 1668 per la seconda canonizzazione come pontefice, diventando così san Pietro Celestino. Oggi le spoglie di Celestino V sono custodite nella Basilica di Collemaggio, nello cinquecentesco mausoleo realizzato dallo scultore Girolamo da Vicenza, raccolte in un’urna di cristallo e argento sbalzato. Probabilmente Celestino non immaginava né voleva che le sue spoglie mortali fossero rivestite dei paramenti pontificali, esposte alla venerazione dei fedeli. Più verosimilmente avrebbe preferito indossare, da morto, il saio della povertà e rimanere nella grotta del Morrone, col suo stile di vita umile e modesto.
A livello di analisi esegetica, c’è un concetto semplice e profondo, eloquente e terribile, esposto in poche parole nella lettera di San Paolo ai Filippesi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo”(2,6-8). È la “kénosi”, parola derivante dal verbo greco “ekénosen”, che significa appunto “spogliarsi, svuotarsi, privarsi”. Forse nessun passo della Scrittura è così sconvolgente come questo. In poche parole viene focalizzata la figura di Cristo-Dio, nella sua eccezionalità: rinuncia all’ “onnipotenza” divina e scelta della “debolezza” umana. Su questa via, segnata dal sangue del Fondatore, si sono incamminati tutti coloro che, come Celestino, hanno lasciato un’orma indelebile nella storia e tutti coloro che oggi ne incarnano la vita.
Mario Setta, Goffredo Palmerini/com.unica 16 ottobre 2019