L’Inferno vissuto da Alberto Sed “fa impallidire quello di Dante”
Testimone della Shoah, tra gli ultimi reduci di Auschwitz, si è spento a 91 anni. Il ricordo di Francesca Paci (La Stampa)
Chiedeva sempre d’incontrare i bambini, Alberto Sed, a chi lo andava a trovare nel suo appartamento romano dove, in una speciale stanza dei ricordi, custodiva le foto in bianco e nero del ritorno alla vita, un quadernone su cui annotare in bella calligrafia i nomi degli ospiti, le lettere e i biglietti di auguri degli studenti che, da quando nel 2006 aveva deciso di raccontare il passato, erano diventati gli amici del futuro. Uno degli ultimi sopravvissuti al lager di Auschwitz se ne va così, tenendo per mano il passato e il futuro, una catena allacciata con fatica ma anche con la consapevolezza di una caducità in agguato, l’oblio sempre più minaccioso sulla memoria dell’Olocausto man mano che i testimoni si spengono, uno dopo l’altro.
«Io, come tanti, ero rimasto zitto per tutta la vita perché sapevo che parlare significava non essere capiti e magari finire al manicomio o da uno psichiatra a farsi imbottire di pillole. Nonostante le leggi razziali mi abbiano precluso gli studi ho fatto in tempo a leggere la Divina Commedia e dico che se Dante aveva intuito bene il Purgatorio e il Paradiso, sull’Inferno si è sbagliato per difetto, perché l’Inferno è quello che ho vissuto io a 15 anni. Incredibile dall’esterno. Meglio il silenzio». Le parole di Alberto restano nelle orecchie di chi le ha ascoltate sul divano accanto a questo signore sempre rasato a puntino e in abito chiaro con la cravatta, cura e cortesia d’altri tempi.
Le porte dell’inferno si chiudono adesso come gli occhi di Alberto Sed, 91 anni e l’energia compressa del bambino interrotto come i binari all’ingresso di Auschwitz-Birkenau. Abbiamo però ancora la storia che, senza tregua, anche quando i movimenti diventavano più ardui e l’udito lo abbandonava, ha continuato a raccontare nelle scuole, con quel marcato accento romanesco con cui ammetteva che, pur essendo uno sfegatato tifoso giallorosso, aveva abbandonato lo stadio dopo la comparsa degli striscioni antisemiti.
«Gli antisemiti sono i primi a sapere quello che è successo, lo sanno meglio degli altri, per questo si affannano tanto. Ho visto Auschwitz ma paradossalmente era come stare in villeggiatura rispetto a quello che mi sarebbe capitato dopo, la marcia della morte, il lavoro nella miniera così devastante da farmi improvvisare pugile e combattere per il divertimento dei miei carnefici, il ritorno alla vita con i fantasmi di Auschwitz, la perdita di Fatina». Fatina per Alberto era il paradigma del dolore, un ricordo da rivivere per punirsi di essere vivo. Fatina, la sorella adorata che accompagna l’Inferno fino alla fine, che ritrova il fratello in una Roma devastata dalla guerra ma bramosa di ripartire, che si rimette in marcia insieme a lui ma che non ce la fa, arranca, non riesce a cancellare il laboratorio di Mengele, le ceneri della madre e della sorella Emma disperse nel vento, le urla dell’altra sorella, Angelica, fatta sbranare dai cani davanti ai suoi occhi. Fatina che alla fine molla, si ammala, non mangia più e pian piano se ne va lasciando Alberto nell’abisso, in attesa di Godot.
«Durò ancora un po’, un giorno rispondendo ai richiami di mia moglie alzò la voce dicendo “Non hai capito che voglio andare via da Auschwitz? E portate via pure mio fratello”. La ricoverammo in un istituto di suore e un giorno mentre eravamo tutti intorno a lei mi chiamò per dirmi addio, si era lasciata morire». Piangeva piano Alberto rivelando il suo incubo peggiore durante la stesura dell’ebook pubblicato dalla Stampa nel 2004, Se chiudo gli occhi muoio. Diceva che l’aveva uccisa, proprio così.
Dopo Fatina era cambiato tutto, ancora una volta, come quando il mondo si era capovolto all’avvento delle leggi razziali. Come allora, peggio, Orfeo incapace di salvare la sua Euridice dall’Inferno. «Ricordate ogni parola, parlate ai bambini, se smettete saremo davvero morti tutti» ripeteva ancora il 25 aprile scorso, alle Fosse Ardeatine, l’uomo che dopo Auschwitz non era più riuscito a tenere in braccio un bambino, neppure i suoi. È quanto ci ha lasciato, ai piccoli ma soprattutto ai grandi.
Francesca Paci, La Stampa 4 novembre 2019
*Nella foto Alberto Sed e la moglie nel dicembre 2010 con una foto della madre e delle sorelline deportate con lui ad Auschwitz