L’Osservatorio Cibi, Produzioni, Territorio (CPT) di EurispesUci e Univesitas Mercatorum ha raccolto dati, approfondito fenomeni legati al mercato del mondo alimentare, e osservato come cambiano le abitudini dei consumatori nel Position Paper “I consumi alimentari: conoscere per agire”.
Dall’analisi emerge il ritratto di un consumatore sempre più informato e consapevole; che cerca innovazione e piacere così come salute, che acquista prodotti certificati ma non si fida più solo di un bollino. I consumatori 4.0 non hanno più fame, ma appetito, e questo è saziato nella loro mente più che nella loro pancia.
I consumi delle famiglie rappresentano la quota più importante del Prodotto interno lordo italiano e, in questo ambito, quelli alimentari pesano l’11% (Istat 2018).
Conoscere il consumo significa capire le persone, i loro valori e la sfera dei loro desideri. In particolare, il food&beverage rappresenta un vero e proprio laboratorio socio-economico, sospeso tra innovazione e tradizione. Come cambia dunque il consumo e qual è l’identikit del consumatore 4.0?
Il consumatore di oggi è un misto di antico e contemporaneo, è un consumatore post-moderno che sta ribaltando il proprio rapporto con il consumo: dopo una lunga fase post bellica, nella quale il consumo ha sostanzialmente dominato sulla persona, è maturato un cambiamento di stato che mostra un altro soggetto, che ribalta i termini del proprio esistenziale socio-economico da consumatore-persona a persona-consumatore, attraverso alcuni atteggiamenti nuovi. Il consumatore diviene, insomma, un “produttore di significati”.
La qualità e come viene percepita
L’immagine positiva di una marca, ovvero ciò che nella mente del consumatore costruisce l’idea di una marca alimentare forte e positiva, vede come primo fattore la qualità del prodotto. Cosa significa qualità in un prodotto alimentare?
L’Osservatorio CPT ha condotto un’indagine alla ricerca del significato di qualità nella percezione dei responsabili di acquisto, tra i millennials.
L’analisi delle opinioni sulla qualità del cibo viene declinata secondo cinque direttrici di senso: sicurezza alimentare, qualità ambientale della terra d’origine dei prodotti, naturalità dei processi di produzione, contenuto salutistico dichiarato, sostanza laica della qualità (Il totale delle risposte non corrisponde al 100%, perché erano possibili risposte multiple).
Nell’ambito della sicurezza alimentare, secondo il 64,8% dei millennials intervistati un cibo è di qualità se “lo mangio e non fa male”; al contempo, il 63% ritiene che sia di qualità se “ci stanno poche cose dentro”; il 56,3% lega la qualità del cibo al fatto che “l’etichetta sia fatta bene”; poco più della metà ritiene che un cibo sia di qualità se “è di stagione”.
Dunque, la sicurezza alimentare è un elemento importante nella scelta dei prodotti e l’etichetta è fondamentale per convogliare le informazioni necessarie a rassicurare il consumatore.
In tema di qualità ambientale della terra d’origine dei prodotti, un cibo è di qualità se “c’è una certificazione ambientale del luogo” per quasi la totalità degli intervistati (98%); “si sa da dove viene” per il 93,7%; “il luogo d’origine è bello e ben tenuto” per quasi otto su dieci (78,8%); “è lontano dai grandi centri abitati” solo per tre su dieci (29,4%).
La qualità ambientale intrecciata alla consapevolezza dell’origine dei prodotti è un fattore di estrema importanza in Italia: è, infatti, nel cibo che molte persone riscoprono l’importanza del territorio e della salvaguardia ambientale.
Passando al tema della naturalità dei processi dei prodotti, secondo il campione preso in esame, un cibo è di qualità se “è certificato bio” per l’84,7%, con una differenza di dieci punti tra le opinioni delle donne (89,6%) e quelle degli uomini (79,6%); “segue processi produttivi certificati” per otto su dieci (81%); “è fatto come una volta” per il 67,4%; solo il 57,9% ritiene che sia di qualità se “è fresco”.
Dunque, la certificazione biologica è un punto di partenza e un riferimento per molti e le donne sono generalmente più affini al consumo di questo tema.
Per quanto riguarda l’aspetto del contenuto salutistico dichiarato, il cibo è di qualità se “svolge funzioni positivi per l’organismo” secondo la quasi totalità degli intervistati (97,8%); “gli vengono tolte sostanze nocive” per il 94,5%; “è additivato con ingredienti salutistici” per il 75,2%.
La relazione tra cibo e salute, in questo caso, è vista come positivo-preventiva: i millennials non vogliono mangiare solo un prodotto non nocivo, ma un prodotto che tenga il passo della ricerca scientifica alimentare e che aiuti a mantenere uno stato di efficienza fisica e mentale.
Infine, per quanto riguarda la cosiddetta sostanza laica della qualità, quasi sei su dieci (57,9%) ritengono che un cibo sia di qualità se “è fatto in piccole quantià”; poco più della metà (51,4%) crede che lo sia se “è sul mercato da molto tempo”; solo il 47,8% crede sia di qualità se “si sa come è stato fatto”. Sia gli uomini che le donne ricercano prodotti innovativi, ma restano anche fedeli a prodotti storici.

La crisi vitale dei consumi italiani
Certamente la crisi economico-finanziaria ha impresso uno shock che ha costruito un sentiment negativo, con l’idea di un impoverimento generalizzato. Ma i dati dicono che in Italia il consumo ha dimensioni quantitative importanti da Paese progredito, le cui manifestazioni aggregate raccontano di uno stock diminuito (ma non basso) e di un consumatore in evoluzione.
Abbiamo costruito la fotografia della crisi dei consumi degli italiani attraverso l’elaborazione dei dati provenienti da diverse fonti (Prometeia per Osservatorio Findomestic, settembre 2018; Istat, Indagine Istat sui consumi delle famiglie 2018; Rapporto Coop Consumi 2018; elaborazioni REF ricerche su dati Istat, 2018) dall’analisi delle quali emerge che i consumi aggregati sono cresciuti più del Pil negli ultimi anni, trainandone il (lieve) incremento: dai 964 miliardi del 2013 si passa, nel 2018, a 1.076, che i salari reali calano del 3% nel 2018, che il valore medio mensile della spesa per i consumi degli italiani è pari a 2.571 euro, quasi invariata rispetto al 2017 (+0,3%). Si spende, dunque, di più al Nord, nelle città metropolitane e nelle famiglie la cui persona di riferimento sia in possesso di titoli di studio superiori.
Emerge anche che gli italiani spendono sempre più in servizi: dal 45% del 2000 siamo passati al 53% del 2018, e che i Neet (15-34) italiani sono circa 3 milioni, dato che ci colloca al poco invidiabile primo posto in Europa. Inoltre, le famiglie italiane sono al nono posto in Europa per indebitamento (86% del reddito disponibile); in aumento del 4,9% gli italiani maggiorenni che richiedono almeno un prestito (38,1%) nel 2018; i prestiti che prevedono un rimborso medio mensile pro-capite di 350 euro.
La crisi della classe media e dell’occupazione giovanile non lasciano prevedere sostanziali e stabili incrementi dei redditi, soprattutto per le fasce più basse. Questo comporterà probabilmente una crescente finanziarizzazione del consumo da parte di operatori bancari e non.
Ma c’è da sottolineare che la crisi del consumo è anche legata alla crisi dell’offerta che risente di un deficit di innovazione reale nelle offerte di beni e servizi di consumo e delle formule distributive e commerciali.
Fatto 100 il numero dei codici-prodotto nuovi lanciati lo scorso anno nel comparto dei beni di largo consumo, quelli realmente nuovi sono appena il 21,4% del totale. Per il resto, chiamiamo “nuovi” prodotti quelli che, in realtà, sono estensioni di marca (54,5%) e imitazioni (24,1%).
A fronte di un quadro complessivamente statico della spesa per consumi, si ravvisano, tuttavia, notevoli incrementi della spesa per alcune categorie di consumo, che raccontano di un consumatore cambiato. Crescono, infatti, i consumi politicamente scorretti (fumo, gioco, alcol, droga, prostituzione) ma, al contempo, quelli politicamente corretti (alimenti salubri, prodotti equi e solidali, biologici, sostenibili); crescono i consumi di integrazione (parafarmaci, super cibi) e, insieme, quelli di sottrazione (gluten free, sfusi); crescono i consumi di protezione (antifurti, assicurazioni, istruzione privata, spese sanitarie all’estero) e, insieme, di esposizione (viaggi, sport estremi), così come i consumi fai da te (cucina, bricolage, distillazione domestica) e, al contempo, quelli del già fatto (cibi pronti, home delivery).
In particolare, ad esempio, i prodotti gluten-free valgono oltre 148 mln di euro; gli integrali oltre 343 mln; i sostitutivi del latte crescono di oltre 15 mln di euro a fronte di un calo di oltre 32 mln delle vendite di latte fresco; lo zucchero di canna cresce del 16% a fronte di un calo del 9% di quello da barbabietola.
I consumi italiani sono sostanzialmente stabili nelle quantità, ma vitali nella qualità. Il tratto più evidente appare l’incoerenza.

Digitalizzazione delle scelte
Grazie alla rivoluzione digitale, la popolazione italiana digitalizzata ha maturato, più o meno consapevolmente, una nuova cultura del consumo che: segue una visione peer-to-peer delle relazioni di scambio (sui social siamo tutti sul medesimo piano di realtà, non esistono gerarchie né rendite di posizione); ha acquisito l’informalità come mood: il linguaggio del digitale è per sua natura pop, caldo e diretto; non accetta più i classici intermediari commerciali, politici, culturali; ricerca semplificazione rifuggendo la fatica mentale: l’uso intenso dello smartphone ha formato una nuova modalità di lettura, di decodifica del testo, più fotografico che verbale; l’individualizzazione diventa la cifra dominante; il brevismo diviene il tempo prediletto della quotidianità.

Trasformazione intellettuale del cibo
Siamo al culmine di un ultra-decennale percorso di trasformazione intellettuale del cibo: da alimento a strumento di piacere, da fatto individuale ad atto relazionale. Una trasformazione a cui hanno contribuito i media innanzitutto (con i format televisivi, l’ascesa dei cuochi star, l’esplosione del fenomeno dell’esposizione del cibo nel piatto sui social); ma anche una maggiore attenzione al territorio d’origine dei prodotti e al recupero dell’identità locale: una sorta di “sovranismo alimentare soft” che si è diffuso tra le marche a segnare un trend di valore molto rilevante.

La trasformazione intellettuale del cibo viaggia in uno spazio ricco di contraddizioni, fra comportamenti sofisticati e attenti alla salubrità e atteggiamenti diametralmente opposti, guidati dall’accumulo, dall’estremizzazione quantitativa a basso costo e dall’assenza del sapere.
In sostanza, la nuova cultura alimentare è principalmente “incoerente”: fra il piacere e il salutismo, fra ritorno alla tradizione e l’ancoraggio a stili alimentari metropolitani globali.

com.unica, 23 novembre 2019

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