Intervista a Shirin Ebadi, 72 anni, premio Nobel per la Pace nel 2003 (da La Stampa)

Shirin Ebadi, 72 anni, premio Nobel per la Pace nel 2003, è stata la prima donna a ricoprire la carica di giudice nella storia dell’Iran. Ha dovuto abbandonare la magistratura per le forti pressioni del regime degli Ayatollah e da allora ha iniziato il suo impegno come avvocato nella difesa dei diritti umani, in particolare di donne e bambini, offrendo anche assistenza legale gratuita ai dissidenti del regime. Da dieci anni vive in esilio a Londra. L’Iran è nuovamente in ebollizione con l’esplosione di una inaspettata rivolta popolare contro il caro-benzina.

Ci può raccontare cosa sta succedendo nel Paese? «Il Governo, con il sostegno del Parlamento, ha improvvisamente deciso di triplicare il prezzo della benzina. La protesta è stata molto diffusa non solo a Teheran, ma in tutto il Paese, e si è espressa in modo pacifico, con forme di disobbedienza civile nonviolenta, come per esempio la creazione di ingorghi stradali, con auto parcheggiate in mezzo alla strada».

La regioni della rivolta sono solo economiche o c’è qualcosa di più? «Le manifestazioni sono iniziate contro una legge che aumentava in modo insensato il costo della benzina, ma se ascoltiamo gli slogan gridati durante la rivolta popolare ci rendiamo conto di come la gran parte della popolazione sia scontenta di questo regime e chieda un cambiamento radicale».

Il regime ha reagito con estrema durezza. Qual è il motivo di questa repressione così violenta? «Il regime iraniano ha chiuso tutti gli accessi a Internet e messo in atto una repressione violenta e durissima delle manifestazioni spontanee. Non si conosce ancora il numero esatto dei manifestanti uccisi, ma Amnesty International ha documentato in modo dettagliato e puntuale 208 uccisioni. Il bilancio delle vittime è però molto, molto più alto. Si contano inoltre migliaia di feriti ed oltre 7.000 arresti».

Non crede che questa reazione sia un segno di debolezza del regime? «Si, questa repressione è il segno evidente dell’estrema debolezza di un regime, che vuole soltanto prolungare la propria vita e non esita ad usare la violenza contro la popolazione civile».

Qual è la sua opinione sulle sanzioni economiche che la comunità internazionale ha imposto al regime di Teheran? «Le sanzioni economiche sono state certamente un fattore che ha contribuito ad aumentare le difficoltà dell’intero Paese, producendo un aumento della povertà e del carovita. Ma il disastro economico del Paese, certamente aggravato dalle sanzioni, è strettamente legato ad altri due fattori: l’elevato livello di corruzione del regime e l’enorme distrazione di fondi pubblici per sostenere militarmente cd economicamente gli Hezbollah in Libano. II dittatore siriano Bashar al-Hassad in Siria, le milizie Houthi in Yemen, le milizie sciite in Iraq. Chi dice che le sanzioni economiche siano la causa della povertà dell’Iran dimentica gli altri due fattori fondamentali».

L’Europa e la comunità dei Paesi democratici dovrebbero fare di più nei confronti del regime iraniano? Che cosa? «Ci saremmo aspettati una voce più forte ed una protesta adeguata da parte dei Paesi democratici contro il blackout di Internet e contro le violenze e le brutali uccisioni. Abbiamo ascoltato deboli appelli di alcuni governi che hanno invitato il regime di Teheran ad essere più “tollerante”. Ma non è sufficiente. In un’audizione al Parlamento Europeo pochi giorni fa (il 12 dicembre, ndr) ho chiesto ai Paesi membri dell’Unione Europea di compiere un gesto forte richiamando per protesta contro le violenze i loro ambasciatori dall’Iran».

Crede che un cambio di regime sia possibile in Iran? «Oggi la stragrande maggioranza della popolazione iraniana vorrebbe vivere in un Paese secolare, laico e democratico. Ma il regime non accetterà di cedere il proprio potere facilmente. Credo però che i massacri di queste settimane rappresentino l’inizio della fine del regime di Teheran».

Gianni Vernetti, La Stampa 23 dicembre 2019

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