Le disuguaglianze indeboliscono le performances economiche
L’analisi del premio Nobel per l’Economia Michael Spence: perché la sostenibilità nel senso ampio e l’inclusività sono inestricabilmente legate (da project-syndicate).
Circa dieci anni fa la Commissione per la crescita e lo sviluppo (che presiedevo) ha pubblicato un rapporto che tentava di riassumere vent’anni di ricerca ed esperienza in diversi paesi in lezioni per le economie in via di sviluppo. Tra queste, la lezione probabilmente più importante è che i modelli di crescita che non contemplano l’inclusività e alimentano la disuguaglianza tendono a fallire.
Il motivo di questo fallimento non è strettamente economico. Coloro che vengono danneggiati dagli strumenti per lo sviluppo insieme a coloro che non hanno sufficienti opportunità per coglierne i benefici, diventano sempre più frustrati. Questo scenario alimenta la polarizzazione sociale che può portare a un’instabilità politica, a un impasse o a delle decisioni avventate con gravi conseguenze di lungo termine per la prestazione economica.
Non c’è alcun motivo per credere che l’inclusività possa danneggiare la sostenibilità dei modelli di crescita esclusivamente nei paesi in via di sviluppo, anche se le dinamiche specifiche dipendono da una serie di fattori. Ad esempio, l’aumento della disuguaglianza tende meno a influenzare negativamente gli aspetti economici e sociali in un ambiente di crescita elevata (ad esempio con un tasso di crescita annuale pari a 5-7%) rispetto a un ambiente a crescita ridotta o a crescita zero in cui i redditi e le opportunità di un sottogruppo della popolazione sono stagnanti o in calo.
L’ultima dinamica descritta si sta ora verificando in Francia, nel corso dell’ultimo mese, con le proteste dei “gilet gialli”. La causa immediata delle proteste è legata alla nuova tassa sui carburanti che, di per sé, implica un costo aggiuntivo non molto consistente (ovvero pari a circa 0,30 dollari per gallone), ma che viene introdotta in un contesto francese in cui il prezzo dei carburanti era già tra i più alti in Europa (pari a circa 7 dollari per gallone, comprese le imposte).
Anche se quest’imposta potrebbe giustificare degli obiettivi ambientali comportando una riduzione delle emissioni, solleva comunque delle questioni di competitività. Inoltre, nei termini in cui era stata proposta, quest’imposta (che è stata ora revocata) non era comunque neutrale in termini di entrate o mirata a finanziare dei fondi di sostegno alle famiglie francesi in difficoltà in particolar modo nelle aree rurali e nelle piccole città.
In realtà, lo scoppio delle proteste dei gilet gialli non è stato tanto legato all’imposta sui carburanti, ma piuttosto a ciò che rappresentava, ovvero l’indifferenza del governo rispetto alla piaga della classe media residente al di fuori dei grandi centri urbani della Francia. Con l’aumento della polarizzazione dei lavori e dei redditi negli ultimi decenni in tutte le economie sviluppate, le proteste in Francia dovrebbero essere un campanello di allarme per tutti gli altri paesi.
Secondo l’ipotesi maggiormente sostenuta, le caratteristiche legate ad una distribuzione sfavorevole dei modelli di crescita sono iniziate quarant’anni fa quando la percentuale del reddito nazionale della forza lavoro ha iniziato a diminuire. In seguito, i settori manifatturieri ad alta intensità di lavoro delle economie sviluppate hanno iniziato a dover affrontare nuove pressioni da parte di una Cina sempre più competitiva e, in tempi più recenti, la sfida del processo di automatizzazione.
Per un certo periodo, la crescita e l’occupazione sono rimasti stabili oscurando la soggiacente polarizzazione dei lavori e dei redditi. Ma con lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, la crescita è crollata, la disoccupazione è aumentata vertiginosamente e le banche, che erano state legittimate a diventare troppo grandi per fallire, sono state forzatamente salvate per evitare una crisi economica ben più vasta. Questo contesto ha comportato un’insicurezza economica di ampia portata e un indebolimento della fiducia nei leader dell’establishment e nelle istituzioni.
Ovviamente, la Francia, come diversi altri paesi europei, ha una sua serie di ostacoli alla crescita e all’occupazione, come le barriere radicate nella struttura e nella regolamentazione del mercato del lavoro. Ma qualsiasi sforzo volto ad affrontare questo tipo di questioni deve essere accompagnato da misure in grado di mitigare, e nel tempo invertire, il processo di polarizzazione dei lavori e dei redditi che ha finora alimentato lo scontento della popolazione e l’instabilità politica.
Finora, tuttavia, l’Europa ha fallito miseramente su questo fronte pagando un prezzo alto. In molti paesi, le forze politiche nazionaliste e anti-establishment hanno infatti guadagnato terreno. Nel Regno Unito un forte sentimento di frustrazione nei confronti dello status quo ha alimentato il voto del 2016 a favore dell’uscita dall’UE e un sentimento simile sta ora indebolendo i governi di Francia e Germania. In Italia, invece, questo sentimento ha contribuito alla vittoria di un governo di coalizione populista. A questo punto, è difficile individuare delle soluzioni percorribili a favore dell’integrazione europea, per non parlare di una leadership politica in grado di implementarla.
La situazione non è migliore negli Stati Uniti. Come in Europa, il divario tra chi ha un reddito medio e chi ha un reddito elevato, così come tra chi vive nelle città principali e chi nel resto del paese, sta aumentando rapidamente. Ciò ha contribuito a inasprire il rifiuto degli elettori nei confronti dei politici dell’establishment aprendo quindi la strada alla vittoria nel 2016 del Presidente statunitense Donald Trump che da allora ha messo la frustrazione degli elettori al servizio dell’attuazione di politiche che non possono far altro che peggiorare la disuguaglianza.
Nel lungo termine, dei modelli di crescita non inclusivi e persistenti possono produrre una paralisi delle politiche o delle oscillazioni da un’agenda politica relativamente estrema ad un’agenda politica opposta altrettanto estrema.L’America latina, ad esempio, ha un’esperienza consolidata con i governi populisti che portano avanti dei programmi non sostenibili a livello fiscale favorendo i fattori della distribuzione rispetto agli investimenti a sostegno della crescita. Inoltre, l’America latina ha un’esperienza notevole anche rispetto a transizioni improvvise verso modelli estremi basati sul mercato che trascurano il ruolo complementare che il governo e il settore privato svolgono necessariamente per favorire una crescita solida.
Una maggiore polarizzazione politica ha anche portato a un approccio conflittuale nelle relazioni internazionali, il che potrebbe comportare degli effetti negativi sulla crescita globale indebolendo la capacità mondiale di modificare le norme che regolano il commercio, gli investimenti, la circolazione delle persone e l’informazione. Oltretutto un simile contesto non farà altro che ostacolare la capacità di gestire delle sfide a lungo termine a livello mondiale, come il cambiamento climatico e la riforma del mercato del lavoro.
Ma per tornare all’inizio, le lezioni principali derivate dall’esperienza dei paesi un tempo in via di sviluppo e ora sviluppati è che la sostenibilità nel senso ampio e l’inclusività sono inestricabilmente legate. Inoltre, i fallimenti su larga scala in relazione all’inclusione compromettono le riforme e gli investimenti che sostengono una crescita a lungo termine. Il progresso economico e sociale dovrebbe quindi essere perseguito in modo efficace non con un semplice elenco di politiche e riforme, ma con una strategia e un’agenda che comportino un’attenta programmazione e tempistica delle riforme e che dedichino maggiore attenzione alle conseguenze in termini di distribuzione.
La parte più difficile dello sviluppo di strategie inclusive è sia non riuscire a individuare quali sono gli obiettivi finali, sia non capire come delineare il percorso per raggiungerli. La realtà è che questi aspetti sono di fatto molto complessi, ecco perché delle competenze adeguate di leadership e di sviluppo delle politiche sono assolutamente essenziali.
Michael Spence – Project-Syndicate gennaio 2020
* Michael Spence è un economista statunitense, insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica. Oggi insegna alla New York University.