Un racconto surreale da stasi forzata per Coronavirus

Sono già a letto quando mia moglie mi dice: «Non coricarti, vai a buttare la spazzatura, che fra un po’ passano a ritirarla.»

Riluttante, mi rivesto e scendo in un borgo di Taranto che alle 21,30 è già spento da un pezzo; alcuni tratti di strada, durante l’imbrunire, non si accendono più da diverso tempo e restano con quella luce diafana che incute paura. Quella stessa paura che deve aver preso due adolescenti che giorni fa hanno bussato alla nostra porta per timore di un bruto che le aveva seguite con l’auto. Poi la vicenda del coronavirus ha creato davvero un coprifuoco.

Butto l’immondizia in un cassonetto che tracima e raggiungo di nuovo e velocemente il portone e mi accorgo che la porta gira.

“Una porta girevole”, penso, “non me n’ero accorto prima”. Salgo le scale, non più di corsa per via dell’età e quando arrivo alla porta noto che è scomparso il buco della serratura. Al suo posto c’è un cerchio luminoso con l’immagine di un dito. Poggio il dito sopra la luce e una voce metallica automatica strilla: “sconosciuto”.

A questo punto, una voce femminile dall’interno urla: «Ma chi cavolo è a quest’ora!»

Sono in preda al panico, tremo in tutta la persona e dico solo con voce palpitante: «Amore, non scherzare fammi entrare».

«Amore? Entrare? Ma lei è impazzito, ma chi è? Ora chiamo la Spartan Police».

Davvero non capisco cosa stia accadendo. Scendo e risalgo più volte, immaginando di aver sbagliato, esco e guardo il palazzo e la strada, ma è tale l’agitazione che non m’accorgo di alcuna modificazione del paesaggio, piuttosto noto quella porta girevole che ha bordi luminosi, risalgo stavolta lentamente e alla fine m’accascio sulle scale, là, vicino alla porta.

La voce dal di dentro l’appartamento si è ora fatta più dolce: «Lei è ancora qui, ma che vuole da me?»

Dico il mio nome e confermo di abitare lì. Queste parole hanno il potere di far aprire la porta che fa uno scatto, come se fosse una cassaforte.

Una figura giovane, esile, mi dice: «Entri, signore, non mi faccia del male».

La casa è cambiata, non la riconosco più, il soffitto a volta è illuminato da figure in movimento, come in un cartone animato, la ragazza vede il mio aspetto distrutto e mi fa sedere. Lei però è all’interno di un’area ovale luminosa.

«E’ la difesa antiviolenza», mi dice, leggendo il mio pensiero.

Mi osserva con tenerezza e mi dice ancora: «Senta, la mia famiglia abita in questa casa da 25 anni, mia madre l’acquistò da una famiglia americana e mi disse che erano tarantini espatriati dopo cinque anni che lei, o meglio uno con il suo nome, era sparito. Ho aperto perché ho sentito parlare molto di lei, quando ero bambina».

Io la guardo stralunato senza fiatare. Non faccio in tempo a risponderle che sento una sirena, guardo di nuovo la ragazza e le dico: «Ha chiamato la polizia?»

«Per il suo bene, la vedo smarrita, non so chi sia davvero, l’aiuteranno loro».

Una poliziotta, con un grande simbolo di Sparta sul petto, entra e mi dice con voce decisa:

«Venga con me, non importuni di più la signora».

Mi porta via aiutata da due robot poliziotti che mi sollevano dalle braccia. Un’auto, tutta di plastica trasparente, come un gigantesco drone, è già pronta sul tetto; vi entro dentro e subito si vola in modo silenzioso.

Arriviamo ad un posto di polizia, sempre attraverso l’atterraggio morbido su un tetto e mi portano, sempre sollevato dalle braccia, fino ad una stanza dove ci sono un poliziotto e un uomo in camice bianco. Quando entro mi fanno sedere e il poliziotto mi mette un aggeggio davanti agli occhi.

«Ma chi è lei? Non c’è riconoscimento facciale.» Sbotta il graduato guardando l’uomo in camice.

Io sono in fibrillazione ma ho la forza di urlare: «Ho la carta di identità elettronica!»

Così facendo prendo il portafoglio, la tiro fuori e gliela mostro. Quello se la gira in mano e dice:

«Non l’ho mai vista ‘sta carta in circolazione; a casa in un cassetto ho quella di mio padre. Egregio signore sono 20 anni che abbiamo il riconoscimento facciale di identità e lei non esiste.»

Poi guarda la data di nascita e riprende:

«Qui poi c’è scritto che lei è del 1953 e quindi ora avrebbe 97 anni, mentre se la osservo presso a poco mi pare un sessantenne».

A questo punto anche l’uomo col camice interviene.

«Collega, se ha la carta elettronica ci sarà l’impronta digitale – sempre se gliel’hanno fatta -, perché la gestione dei comuni di allora lasciava a desiderare».

«Sì, me l’hanno fatta!», dico subito io, che della vicenda ho un ricordo recentissimo e avverto l’urgenza di uscire dall’imbarazzante situazione. A questo punto i due mi conducono davanti ad uno schermo e mi fanno poggiare la punta dell’indice. Sullo schermo appare il mio volto, articoli di giornali, vecchi video di “Chi l’ha visto?”.

I due mi osservano con insistenza, poi parlano a lungo fra di loro. Li osservo mentre gesticolano, indicando le immagini che scorrono, i video. Alla fine quello in divisa viene da me e mi dice:

«Vada pure, non la tratteniamo, dobbiamo studiare il suo caso, ma non scappi, tanto è localizzato di continuo».

Esco da questa struttura e mi riverso nella città. E’ ancora notte. Taranto in qualche punto è uguale a quella che conosco. Ma sono in chissà quale periferia. Cerco di fare mente locale alle cose che ho sentito per comporre il fattore temporale e gli anni trascorsi. Vedo su un portone di vetro una sigla ‘Press’. Penso fra me: “Cavolo! Ecco quello che fa per me.”

Entro e trovo uno che se ne sta in poltrona con un libro in mano. Mi guarda e mi sorride dicendo: «Salve». Rispondo: «Ho visto Press fuori, ho pensato…». Non mi dà il tempo di finire la frase.

«A un giornale, vero? Senta, quella è una mia provocazione, oramai i giornali non esistono più, tutte le news sono aggregate dalla rete in un nanosecondo e poi qualsiasi notizia che abbia riferimento con le persone, il loro gusti, i loro viaggi, gli acquisti o persino i loro desideri, viene immediatamente inserita nella rete e si materializza davanti agli occhi dei singoli. Mi pagano bene solo per eventuali nuove di cui non si sa nulla e non ne parla nessuno, le vere news».

Racconto la mia vicenda e quel personaggio subito salta dalla sedia.

«Perbacco! Ecco una vera notizia! Guardi, la inserisco subito!»

Così facendo parla velocemente in un tubo e immediatamente le sue parole diventano uno scritto, appaiono immagini: la mia faccia, articoli di giornale, video di “Chi l’ha visto?” e tutto entra dentro una news che parte. Appare una scritta “Inviata”. Subito dopo compare una cifra di soldi incassati, con la musica del tintinnio delle monete. L’amico è raggiante, è stato pagato bene per una notizia strabiliante che reca il titolo: “Dopo trent’anni compare il tarantino scomparso”.

Sullo schermo appare una nuova scritta “Nuove interazioni dagli USA”.

Quello mi guarda con occhi sfavillanti di gioia: «Sua moglie è viva e le sue figlie sono in contatto virtuale con me. Stanno arrivando.»

Non sto capendo nulla, ma il sapere che mia moglie stia venendo mi predispone al buon umore. L’appuntamento è in una stanza di un hotel sul mare. E’ proprio quest’uomo della Press che mi porta lì, felice di aver finalmente guadagnato qualcosa. Mentre arriviamo sul lungomare, a bordo di una comunissima auto cabriolet, vedo che all’orizzonte non ci sono più ciminiere. Lui si accorge del mio interesse e dice:

«Ora da quelle parti c’è un parco di Archeologia Industriale dell’età del ferro.»

Arrivo sul punto del lungomare di Taranto dove c’è l’hotel; la costruzione tutta in vetro trasparente si dilunga su una vecchia darsena, che ricordo come un sgarrupato cimelio di guerra.

Non so ancora se hanno ridotto il tempo di volo dagli Usa a Taranto e mi predispongo per la notte che ancora deve passare. Nel mio letto vedo il mare tra i vetri; anzi, sul tardi, con l’alta marea la stanza pare finire proprio sott’acqua e vedo tanti pesci colorati passarmi sopra e di fianco. Ripenso alle cose dettemi dal giornalista, a proposito dell’archeologia industriale, e noto che la natura ha sul serio preso il sopravvento.

E’ già mattino quando noto un grosso pesce scuro vicino al vetro dove ho spiaccicato il volto. Metto gli occhiali e vedo che in realtà si tratta di un videomaker con una minuscola cinepresa che sta davanti al vetro della mia stanza e mi sta filmando a cavallo di un drone.

Esco e noto che tutto il lungomare è pieno di furgoni colorati, tanta folla. E c’è anche il mio amico giornalista, anche lui sul drone, che mi saluta raggiante: ha venduto la notizia al mondo, è diventato ricco.

Io penso alla mia famiglia. In un frangente del mattino anche loro sono già qui. Il viaggio dall’America si è dimezzato in 6 ore. Attorniate da telecamere telecomandate, vedo delle settantenni che sorreggono una signora molto anziana. Hanno gli sguardi stralunati. La donna anziana le osserva con disappunto, come per rimproverarle di aver creato questo incontro con un perfetto sconosciuto. Ma le due signore mi osservano da vicino. Una guarda una pallina di grasso sotto il collo, un’altra fissa il mio sguardo con attenzione e sorride. Poi entrambe rivolte alla signora le dicono in coro: «Mamma è proprio lui!»

Io non so che fare. Riconosco le figlie che, anche se invecchiate, mostrano ancora la loro bellezza; ma anche la persona anziana conserva quello sguardo sottile che ricordo, vivo, sottile.

Mi avvicino e le dico con dolcezza: «Mi riconosci?»

E lei risponde con evidente rabbia: «Perché tu non sei invecchiato?»

Le due figlie si avvicinano a me e la più piccola mi sussurra: «Dormile accanto, vedrai che alla fine si calmerà».

Così succede.

Così accade che mi sveglio da questo incubo mentre mia moglie, che mi sta accanto, mi dice: «Non coricarti, vai a buttare la spazzatura, che fra un po’ passano a ritirarla.»

«Noooooo!», le rispondo gridando.

Roberto De Giorgi, com.unica 12 marzo 2020

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