La solidarietà dello scrittore israeliano all’Italia dalle pagine de La Stampa. Il contagio è arrivato anche in Israele e si intreccia con il dramma politico in atto in questi giorni

L’epidemia di coronavirus è arrivata anche qui in Israele. Ogni Paese vive questo dramma in maniera diversa. In altre parole è possibile valutare i pregi e il carattere della struttura amministrativa di ogni popolo dal modo in cui affronta un disastro o una sfida che coinvolge anche altre nazioni.

Proprio perché io sono così legato all’Italia, la visito di frequente e sono grato per l’entusiasmo e la fedeltà con cui il pubblico italiano accoglie le mie opere, sono rimasto addolorato, deluso e confuso dalla relativa facilità con cui il virus cinese si è diffuso da voi. Tanto più che, proprio in questi giorni, sono impegnato nella stesura di un racconto ambientato nella vostra bella penisola alla fine del XX secolo, imperniato sull’imbastitura religiosa tra cristianesimo ed ebraismo.

Non sono ovviamente qualificato per spiegare le ragioni delle incertezze, da un punto di vista medico e amministrativo, con cui l’Italia ha affrontato le prime fasi dell’epidemia. Ma dopo aver visto, di recente, le immagini delle città vuote, il rigore con cui i vivaci abitanti dell’Italia – un Paese tanto vario sul piano culturale e storico – rispettano l’imposta quarantena e il video trasmesso dalla televisione israeliana in cui cantano e suonano sui balconi delle case, ho provato un senso di sollievo: ecco, la mia meravigliosa e amata Italia ha deciso di combattere seriamente contro questa dannata epidemia e riuscirà a sconfiggerla. E la sua lotta, diversa da quella ingaggiata dai tedeschi, dagli inglesi, e certamente dagli americani, è per noi israeliani, nonostante le differenze tra i nostri due Paesi, fonte di incoraggiamento. Perché gli israeliani amano l’Italia, e credono che anche gli italiani amino loro.

I confini di Israele, ovviamente, sono molto più facili da tenere sotto controllo. Si può infatti arrivare sul nostro territorio solo passando per porti e aeroporti e l’unico valico di frontiera con la Giordania è strettamente sorvegliato. Quindi, nonostante l’intenso movimento di israeliani e di turisti arrivati dall’estero ancor prima che le frontiere fossero chiuse completamente, è stato facile appurare chi fosse portatore del virus.

Non si deve inoltre dimenticare che, essendo Israele un Paese che ha conosciuto parecchie guerre negli ultimi settant’anni, è preparato a possibili conflitti e possiede un’infrastruttura sanitaria di emergenza altamente efficiente per uno Stato tanto piccolo. Finora il coronavirus non ha causato morti e il numero dei contagiati è relativamente basso. C’è quindi la plausibile speranza che, se l’epidemia dovesse diffondersi – Dio non voglia – si riesca a gestire anche una maggiore quantità di pazienti. Inoltre, per via delle numerose crisi affrontate negli anni, abbiamo fiducia che la popolazione si mostri disciplinata e presti ascolto alle direttive del governo.

Ciò che sorprende in questa vicenda è come il coronavirus si intrecci al dramma politico in atto in questi giorni. Da oltre un anno si tengono ripetute elezioni parlamentari nel tentativo di rimuovere Benjamin Netanyahu dalla carica di primo ministro. L’insistenza con cui il blocco della destra lo sostiene, nonostante su di lui pendano tre gravi capi di accusa e debba presentarsi in tribunale proprio in questi giorni, si è trasformata in un dramma tempestoso tra la destra e la sinistra. Per la prima volta nella storia dello Stato ebraico si è rinfocolata la speranza che il centro-sinistra riesca a formare un governo con il sostegno di un partito arabo israeliano, la cosiddetta Lista unita, che ha accresciuto la sua forza alle elezioni tenutesi poco prima dello scoppio dell’epidemia. Sarebbe un cambiamento significativo e un miglioramento della democrazia israeliana.

E mentre le forze politiche si preparano, dietro le quinte, a questo sostanziale mutamento, a una possibile detronizzazione (anche se solo grazie a un voto) di Netanyahu e al suo processo, il coronavirus piomba in Israele e il dramma politico è relegato in disparte. La sensazione generale, anche tra i nemici giurati di Netanyahu, è che solo un governo di emergenza nazionale potrà far fronte a questa grave crisi. E se davvero dovesse formarsene uno, è impensabile che Netanyahu (che finora ha gestito con abilità la lotta contro il virus) non sia tra i suoi leader.

All’età di 83 anni io appartengo alla fascia della popolazione più a rischio e sono quindi chiuso in casa a leggere o a scrivere una o due righe del mio nuovo racconto. Mia sorella, di tre anni più grande di me, vive da molti anni in un’elegante casa di riposo. Ha figli, nipoti e persino pronipoti, e conduce una vita molto confortevole sotto tutti i punti di vista. È nemica giurata di Netanyahu e, ogni volta che ci sentiamo, non perde occasione di lamentarsi di lui e di insultarlo. La sua più grande speranza è di riuscire a vederlo dietro le sbarre prima di lasciare questo mondo.

Ma da quando l’epidemia è sbarcata in Israele Netanyahu si è come dissolto e tutte le ansie e le paure di mia sorella sono incentrate sul virus. Io cerco di tranquillizzarla, di ricordarle i momenti difficili che passammo a Gerusalemme durante la guerra del 1948, quando la nostra casa fu distrutta, nostro padre fu ferito e trascorremmo mesi in un rifugio antiaereo senza sapere quando quel terribile conflitto sarebbe finito. Cerco anche di riportare le cose alle giuste proporzioni. Le parlo dell’angoscia che provammo nel corso di molte altre guerre, quando suo figlio, pilota di caccia, combatteva nei cieli del Libano e della Siria e i miei due erano arruolati nei paracadutisti. Ma, a quanto pare, tutte le difficoltà, le paure e le sfide del passato sono state dimenticate e il coronavirus, che non ha ancora fatto vittime in Israele, rimane al centro delle sue paure.

«Ma, un momento, che ne è di Netanyahu?», le dico cercando di spostare la sua irritazione dal virus al primo ministro, «Non ti importa più che non si riesca a spodestarlo e rimanga al suo posto invece di sottostare a un processo?».

«Che ci si può fare?», sospira mia sorella. «Che resti ancora un po’ primo ministro, a patto che combatta efficacemente contro questa maledetta epidemia».

Nel sentire che anche la più accanita nemica di Netanyahu rinuncia a vederlo andare in prigione, comincio a sospettare che tra il cinese che si è mangiato un pipistrello e il primo ministro israeliano possa esserci un legame nascosto e, grazie a questo virus e con un po’ di scaltrezza, o di fortuna, Netanyahu riesca non solo a sfuggire al processo, ma anche a mantenere il suo prestigioso incarico, a dispetto di tutti coloro che cercano di rimpiazzarlo.

Ecco, anche questa è una delle storie del «Decameron israeliano» ai tempi dell’epidemia propagatasi nel XXI secolo.

Abraham B. Yehoshua, La Stampa 19 marzo 2020

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