Come il Coronavirus ha risvegliato l’intelligenza collettiva mondiale
Le dinamiche collaborative sostengono il progresso della conoscenza, le riflessioni di un ricercatore esperto in reti complesse
In tutto il mondo, epidemiologi, professionisti, ingegneri (e così tanti altri) usano instancabilmente il flusso di dati sull’epidemia per modellizzare la sua progressione, prevedere l’impatto di possibili interventi o sviluppare soluzioni per sopperire alla carenza di attrezzature mediche. Inoltre generano modelli e codici aperti che vengono riutilizzati da altri laboratori.
Il mondo della ricerca e dell’innovazione sembra essere preso così da una frenesia di collaborazione e di produzione di conoscenza aperta, contagiosa quanto il coronavirus. Potrebbe essere quindi la famosa “intelligenza collettiva” in grado di risolvere i nostri principali problemi planetari?
Scienza, una rete costruita sulle spalle dei giganti
Già nel 1675 Isaac Newton scriveva: “Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti”. Da allora, il riconoscimento di questo patrimonio intellettuale collettivo è diventato uno standard nella ricerca scientifica. Nella scienza e nel campo dell’ingegneria, oggi, il 90% delle pubblicazioni sono scritte da team.
Negli ultimi tre decenni, l’avvento di Internet e quindi dei social network ha contribuito alla cancellazione dei tradizionali limiti dell’intelligenza collettiva, da parte di società di “studiosi” esclusive di riviste ad accesso a pagamento, passando attraverso l’opacità del sistema di “peer review”.
La ricerca accademica sta vivendo oggi una fase caratterizzata da una facilitazione tecnologica e un’apertura senza precedenti che consentono a una vasta gamma di attori di interagire in modo immediato e distribuito. Assistiamo all’affermarsi di riviste ad accesso aperto e di siti web di archiviazione degli articoli.
Al di fuori del sistema accademico, stanno emergendo così comunità non istituzionali: hacker, bio-hacker o ancora produttori si auto-organizzano online e partecipano allo sforzo collettivo per produrre conoscenza. È questo terreno particolarmente fertile a favorire una reazione senza precedenti rispetto alla crisi innescata dal Covid-19.
Il Covid-19 e l’intelligenza collettiva
All’inizio dell’epidemia abbiamo potuto vedere come ricerca “tradizionale” abbia accelerato e aperto notevolmente i suoi mezzi di produzione. Riviste scientifiche di prestigio, come Science, Nature e The Lancet, che di solito fanno pagare per l’accesso ai loro articoli, hanno aperto l’accesso alle pubblicazioni sul coronavirus e Covid-19.
I dati sulla progressione dell’epidemia vengono aggiornati quotidianamente: quello della John Hopkins University, ad esempio, è il risultato di un lavoro aperto e collaborativo ed è già stato riutilizzato quasi 9000 volte sulla piattaforma di collaborazione GitHub attraverso progetti di terze parti. I risultati vengono pubblicati immediatamente su server di pre-pubblicazione ad accesso aperto o sui siti di laboratorio stessi. Algoritmi e visualizzazioni interattive sono online su GitHub; video educativi e divulgativi su YouTube. Le cifre sono sbalorditive, con oltre 45.000 articoli accademici pubblicati sull’argomento fino ad oggi.
Più recentemente, sono emerse iniziative popolari che riuniscono vari attori al di fuori del quadro istituzionale, che utilizzano piattaforme online. Ad esempio, una comunità di biologi, di ingegneri e di sviluppatori ha progettato la piattaforma di collaborazione Just One Giant Lab (JOGL) per sviluppare strumenti open source a basso costo contro il virus. Questa piattaforma mira a diventare un istituto di ricerca virtuale, aperto e distribuito i tutto il il pianeta.
La piattaforma consente alle comunità di auto-organizzarsi per fornire soluzioni innovative a problemi urgenti che richiedono competenze fondamentalmente interdisciplinari e conoscenze “sul campo”. Funge da chiave di volta per facilitare il coordinamento riunendo bisogni e risorse all’interno della comunità, organizzando programmi di ricerca e organizzando sfide.
In particolare, l’uso di “algoritmi di raccomandazione” consente di filtrare le informazioni in modo che i partecipanti possano seguire l’attività e le esigenze della comunità più pertinente, semplificando la collaborazione e facilitando la creazione di intelligenza collettiva.
Quando il primo progetto legato al Covid-19 (un test diagnostico open source a basso costo) è nato lì quattro settimane fa, si è potuto assistere a una vera gara su questa piattaforma. Il numero di contributi al minuto ha continuato ad aumentare: centinaia di interazioni, creazione di progetti, scambi… Tanto che il server che ospita la piattaforma non è stato più in grado di reggere. In un solo mese, oltre 60.000 visitatori sono arrivati da 183 paesi, tra cui 3.000 collaboratori attivi che hanno generato oltre 90 progetti, da quelli sulle maschere protettive ai prototipi di ventole a basso costo.
Questa grande comunità è stata rapidamente organizzata in sottogruppi, mescolando competenze e campi diversi: scienziati dei dati di grandi aziende, ricercatori di antropologia, ingegneri e biologi che si avvicinano in questo universo virtuale.
La persona più attiva, il coordinatore della comunità emergente risulta addirittura essere … uno studente liceale diciassettenne di Seattle! Questa iniziativa è ora diventato un programma di ricerca a tutti gli effetti, OpenCOVID19, con 100.000 euro di finanziamenti del Fondo di ricerca Axa da ridistribuire ai progetti emergenti secondo un sistema di revisione da parte della comunità, in collaborazione con l’AP-HP per facilitare la valutazione e la validazione di progetti destinati all’uso ospedaliero e alla diagnosi, prevenzione, trattamento o ancora analisi e modellizzazione dei dati.
L’auto-organizzazione delle comunità è stata la prerogativa del mondo open source in campo informatico e la base all’origine di grandi progetti come Linux. Oggi il suo approccio sta avendo un grande successo nella risoluzione di problemi globali e multidisciplinari, in cui la diversità delle competenze è al servizio della complessità.
Cos’è l’intelligenza collettiva?
Se siamo in grado di misurare l’intelligenza individuale attraverso le performance per compiti vari e quindi ricavare un “quoziente di intelligenza” individuale (il famoso QI), allora perché non misurare l’intelligenza di un gruppo di individui per quanto riguarda le loro prestazioni collettive?
I ricercatori hanno dimostrato nel 2010 l’esistenza di un “fattore c” dell’intelligenza collettiva. Affinché un gruppo massimizzi la sua intelligenza collettiva, non è necessario mettere insieme le persone con un QI forte. Ciò che conta è la sensibilità sociale dei membri, ovvero la loro capacità di interagire efficacemente, la loro capacità di parlare in modo equilibrato e propositivo durante le discussioni e inoltre il grado di diversità dei membri, in particolare legata a una forte componente femminile nel gruppo.
In altre parole, un gruppo intelligente non è dato dalla somma dei singoli individui intelligenti, ma da individui vari che interagiscono correttamente. E gli autori concludono: “Sembrerebbe più facile aumentare l’intelligenza di un gruppo rispetto a quella di un individuo. Potremmo aumentare l’intelligenza collettiva, ad esempio grazie a migliori strumenti di collaborazione online?”
È con questo spirito che si è arrivati alla creazione della piattaforma JOGL: possiamo misurare in tempo reale l’evoluzione della comunità e lo stato di avanzamento dei progetti, che consente di stabilire un migliore coordinamento dei diversi programmi, compresi ovviamente i programmi legati al Covid-19.
I dati offrono anche un parametro di riferimento quantitativo di “buone pratiche” che facilitano l’intelligenza collettiva, consentendo l’avanzamento della ricerca fondamentale sulle collaborazioni che stiamo svolgendo all’interno del mio gruppo di ricerca presso il Centro interdisciplinare di ricerca di Parigi. In effetti, utilizzando gli strumenti della scienza delle reti, stiamo studiando come queste dinamiche collaborative sostengano il progresso della conoscenza.
Anche se è presto per trarre conclusioni su questo argomento nel caso di OpenCOVID19, esistono diverse strade per pensare al futuro di collaborazioni così massicce.
Un problema comune alle comunità che crescono rapidamente è che ci si può smarrire facilmente! Chi contattare per risolvere un problema specifico o rispondere a una domanda specifica? La soluzione potrebbe essere proprio nei sistemi di raccomandazione, gli stessi algoritmi che hanno permesso il successo dei social network come Twitter, Instagram o Facebook.
Tale approccio, basato sui fondamenti della scienza delle reti, consente di utilizzare le tracce digitali lasciate dalla comunità (interazioni, discussioni, progetti completati, competenze dichiarate) per promuovere il progetto più rilevante da aiutare o il compito più logico da produrre in seguito.
Lo sviluppo di tali algoritmi di raccomandazione a beneficio di collaborazioni di massa richiede il contributo di varie discipline, che vanno dall’informatica alle scienze sociali, passando anche per la matematica e l’etica. Infine, il futuro dell’intelligenza collettiva ruota su se stesso: perché è l’intelligenza collettiva che deve mettersi al servizio del proprio divenire.
Marc Santolini*, La Conversation 4 aprile 2020
*Marc Santolini, CRI Research Fellow, è ricercatore presso il Centro per la ricerca sulle reti complesse (Northeastern University), e co-fondatore di Just One Giant Lab, Università di Parigi.
L’articolo, tradotto da Sebastiano Catte è stato pubblicato sulla testata online “The Conversation” sotto licenza Creative Commons. Qui la versione originale.