Bettina – racconti in quarantena
Fosse stata ancora tra noi e se la Cattedrale fosse già stata ricostruita dopo il terremoto del 2009 che distrusse L’Aquila; e se la pandemia non ci avesse costretti tutti in casa, anche al termine di questa Quaresima fatta di città deserte e restrizioni, Bettina l’avremmo incontrata di sicuro là, alle cerimonie in Duomo della Settimana Santa che sfocia nel giubilo pasquale, magari a cantare l’exultet con la corale di Sant’Antonio di cui faceva parte. L’avremmo allora vista in prima fila, piccola e rotondetta, fasciata per l’occasione in un completino nero, i capelli a caschetto, la voce inconfondibile anche nella coralità dei fiati.
Bettina era come il prezzemolo, l’avresti della onnipresente, ma solo un po’ meno del Padreterno che è in cielo, in terra e in ogni luogo, mentre Bettina era in ogni luogo soltanto. Se glielo facevi notare si schermiva con il suo perenne sorriso, mai pieno perché si portava addosso le pene di una vita che con lei non era stata benigna. In qualunque Chiesa capitassi per una liturgia particolare, lei era là. Partecipavi ad un evento istituzionale e la incontravi. Il calendario invitava da qualche parte a un appuntamento culturale, e la vedevi apparire con la sua aria che stava al mezzo tra il soddisfatto e lo scusate tanto.
Lei era come quei fiori dei tigli che stanno nei viali e che a tempo giusto ti raggiungono con il profumo intenso e gli sbuffi di ovatta che penetrano in ogni dove, per le narici e fin dentro i vestiti. La gente la chiamava per nome come una persona di casa, non lesinando attenzioni e confidenze, anche se lei non aveva mai imparato a scrivere, pur avendo appreso dalla vita a far di conto. Aveva infatti, la saggezza delle stagioni, e il candore di chi mai si è prestato, anche se inconsciamente, ai marchingegni astrusi della malizia. Non sapeva quale fosse e dove fosse il male. Tutto ciò che la circondava e la toccava era pulito per lei: “omnia munda mundi” (tutte le cose sono pure per il puro), anche se non sapeva di latino.
L’autobus gran turismo viaggiava quell’anno, verso la Spagna per una gita organizzata che ci avrebbe condotto dalla Catalogna all’Andalusia. Il rollio del bus fu sovrastato da una voce alta e appena arrochita che si trascinò dietro il coro dei gitanti in un’allegra canzone popolare a doppio senso: “…era lì che voleva volare, l’uccellino della comare”. Non vedevo a chi appartenesse quella voce, che sparse allegria a piene mani, come semente rara. Fino a che apparve lei, che per tutti gli anni che è stata tra noi, sempre dopo la voce giungeva: la voce che era stata il grande dono della sua vita.
Bettina per anni e anni si era portato dietro un grande dolore, del quale le rimase ombra per sempre: abbandonata dai genitori appena nata, non seppe mai chi furono anche se non smise mai di pensarli, cercarli no, che era cosa assai più grande di lei. Cresciuta in un istituto, se ne affrancò appena possibile, quando trovò occupazione come lavorante nell’ospedale cittadino. La ricordano ancora, laboriosa, attenta, servizievole, allegra. Nonostante un aspetto fisico che non le rendeva giustizia.
“Per anni e anni, confidò un giorno a mia moglie, mi sono chiesta perché: perché i miei genitori mi abbiano abbandonato, perché sono così piccola, sgraziata, perché sono sola, poi ho pensato alle sofferenze di Gesù, e me ne sono fatta una ragione. Mi voglio anche bene come sono, perché mi vedo amata dagli altri per quello che sono”. Un anno prese posto nel mio scompartimento, sul treno bianco che ci portava a Lourdes. Lei andava come volontaria dell’Unitalsi e le maggiori attenzioni le prestava ad altri svantaggiati ospiti di case famiglia, con i quali era pienamente in sintonia perché della stessa innocenza. Quando pregava, davanti alla Grotta di Massabielle, sembrava parlasse davvero con la Vergine apparsa a Bernadette.
A tavola ritornava l’allegra ragazza che era, attenta agli altri e curata nella persona. Vestiva come una bambola, abitini lindi con trine e ricami alle bluse e agli immancabili jeans, se c’era il sole un cappello di paglia, perfino le scarpe, sovente da tennis e dai colori pastello, “sbrilluccicavano” di perline che lei stessa applicava. Procedeva a piccoli passi, con l’andatura a saltelli dei minimi. Profumava di lavanda e di fiori, come la casetta piccola piccola che le era stata assegnata dopo il terremoto e alla quale un giorno l’accompagnai in auto. Viveva da sola. La casa era il suo rifugio, ma la sua vita era fuori, dovunque la portassero gli eventi, tra la gente che l’amava, le gite, nel coro dove a voce spiegata proclamava la sua libertà.
Una brutta caduta la condusse in ospedale e se la portò via il giorno di Natale, senza darle il tempo di fare in casa il piccolo presepe e di baciare il Bambino in Chiesa nella notte Santa. I giornali scrissero che aveva ottant’anni. Ma era soltanto Bettina
Mario Narducci, com.unica 14 aprile 2020
Mario Narducci è nato nel 1938 all’Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest’ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell’ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell’anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. È presidente dell’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L’Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. È componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l’altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L’Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L’Aquila).