La prima cosa che si avvertiva di lui, era il calpestio pesante degli scarponi chiodati e sciabordanti, che si trascinavano dietro stringhe luride, mai allacciate per inettitudine più che per comodità, insieme a una muta di ragazzi che gli facevano allegramente il verso. Era un rumore secco e strisciante, effetto di un passo pesante e traballante per dimestichezza di vino. Con quel passo e con quell’odore addosso, come un orso marsicano, egli aveva marcato il proprio territorio, circoscritto nel quarto di Santa Giusta, con puntate a Piazza del Duomo, al Grand Hotel e a Via Venti Settembre, come per dire: questa è casa mia.

Ed in realtà altra casa sembrava non avere, se non quella che lo vedeva, assai di rado, nella bottega del fratello maniscalco a reggere le zampe delle bestie da ferrare. Perché Mastru Peppe, che mutuava un titolo improprio, visto che egli era solo un garzone di bottega, un lavoro ce l’aveva, anche se l’occupazione sua principale era quella di fare il giro delle cantine, con un fiasco in mano che svuotava e riempiva a piacimento, fino a che qualche anima buona non lo riportava all’ovile. Tra sbornie e smaltimenti, Mastru Peppe trascorreva i suoi giorni, passando dal vino al vino senza soluzione di continuità, come una giostra che si arresta appena il tempo di scaricare e ricaricare i cavalli fermi e dondolanti. Per riprendersi almeno un po’ dalle sbornie, Mastru Peppe si ubriacava d’acqua al pilone della fontana addossata al lato destro della facciata di Santa Giusta, poi si allontanava giurando a se stesso di andare in latteria, mentre in realtà andava a riempire nuovamente il fiasco di vino che, con arguzia non comune, chiamava “latte bruciato” con l’intenzione di rassicurare chi lo commiserava.

Il risultato era che tra latte bruciato e vino, l’abbondante sorsata d’acqua al fontanile non gli era mai sufficiente a ristabilirlo in un minimo d’equilibrio. Donde l’aggiunta di Pazzo’ al nome che ne dichiarava il lavoro. Il fiasco era il suo compagno permanente, una bustina grigioverde sempre calcata sul capo, con le bande laterali sulle orecchie come un cocker, un pastrano d’inverno, la sola parnanza di cuoio unta e bisunta nella buona stagione, Mastru Peppe vagava entro il recinto del suo territorio nella tranquillità che gli assicuravano tutti coloro che lo conoscevano e per i quali era diventato più che un famigliare, anche se da tenere non proprio in dimestichezza.

Era il tempo in cui al Grand Hotel dell’Aquila s’erano stabiliti gli occupanti americani che si vedevano a spasso per la città in compagnia di signorine compiacenti dalla gonna sopra al ginocchio, la blusa svolazzante e i sandali altissimi di sughero. Era anche il tempo in cui il comando alleato, per agevolare la circolazione di moneta in un momento di lira inesistente, aveva diffuso le Am-lire, una moneta stampata con carta di poco pregio, che dopo qualche passaggio di mano si sciupava fino a lacerarsi. Mastru Peppe aveva escogitato un metodo tutto suo per venirne in possesso. Si avvicinava alla gente e biascicando per vino profferiva la sua formula magica: Té gnende ruttu? (Hai niente rotto? – in senso figurato Hai qualche spicciolo?)

Una richiesta che non andava delusa, tanto che a sera poteva contare sempre su un discreto gruzzolo. Accadde una mattina, sul tardi, che rivolgesse la stessa domanda a una signora al braccio di un facoltoso romano all’Aquila per diporto, il quale prese la richiesta per offesa grave alla moglie e lo portò in Pretura. Non ci volle molto al magistrato per rendersi conto di che pasta fosse l’imputato e dell’equivoco che s’era generato. Anche la coppia di romani comprese e dovette farsi forza per non profanare l’aula con grasse risate. L’udienza si chiuse con la raccomandazione a Mastru Peppe di non ripetere mai più l’espressione equivoca. Mastru Peppe assentì, voltò le spalle al magistrato e strascinando gli scarponi chiodati si avviò verso l’uscita. Prima di guadagnarla, tuttavia, si girò verso il banco dei giudicanti, tese la mano senza pudore alcuno e dalla sua bocca partì la domanda inesorabile tra una risata generale che rischiò di tirar giù il soffitto: “Signor Preto’, té gnente ruttu?”

Quando tornai all’Aquila, dopo anni di “esilio”, tra i primi luoghi della mia infanzia che andai a riscoprire ci fu, manco a dirlo, la Piazzetta di Santa Giusta con il pilone rettangolare addossato alla facciata della chiesa. Quante volte, nei giorni di calura, avevo atteso che se ne distaccasse Mastru Peppe, nelle sue rade sbornie d’acqua, per salirvi cauto e abbeverarmi alla cannella tra una partita e l’altra di Zirè, sotto il muro della canonica di don Ernesto. Ma Mastru Peppe non comparve, come non comparve più nel resto del suo territorio marcato a scarponi e a vino. Anche la bottega di maniscalco era diventata un buco cieco, né c’erano più ragazzi nella piazzetta occupata da auto in sosta. Con Mastru Peppe era scomparso tutto un mondo, le cui tracce nessuno mai dovrebbe mettersi a cercare. Perché il cuore frantuma nel saperlo sparito per sempre.

Mario Narducci*, com.unica 1 maggio 2020


*Mario Narducci è nato nel 1938 all’Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest’ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell’ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell’anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. È presidente dell’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L’Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. È componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l’altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L’Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L’Aquila).

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