Racconti in quarantena – Fortunato Milleprofumi
Fortunato Milleprofumi si muoveva con l’alba. Si chiudeva alle spalle l’uscio di un monolocale che guardava le 99 Cannelle, varcava l’attigua Porta Rivera ed era nell’orto, uno dei tanti che affiancava la ferrovia, prima che la strada curvasse verso Roio e lo raggiungesse tutta in salita, tra tornanti panoramici sulla Città che si svegliava. Era il tempo che gli orti della Rivera, fertili anche per le vicine acque dell’Aterno e sempre verdi, rifornivano in buona parte il mercato di Piazza del Duomo, dove per trovare ortaggi di casa, bastava dirigersi a colpo sicuro nella striscia laterale del mercato, prospiciente la Chiesa delle Anime Sante.
Fortunato Milleprofumi riempiva con sapienza il carrettino delle sue verdure, disponeva ordinatamente i numerosi odori e con la calma e il portamento d’anca che gli erano propri si inerpicava per la salita erta che solo permetteva riposo allo slargo piano dei Cappuccini di Santa Chiara. Coperto l’ultimo tratto che incrocia Via XX Settembre, si immetteva nella piazzetta di Fontesecco e, costeggiando le Magistrali dal lato piccolo, guadagnava Piazzetta San Biagio per raggiungere finalmente Piazza Duomo, dove ferveva tutto un brulichio di bancherelle che si fermavano al posto stabilito, come formiche finalmente acquietate.
Fortunato Milleprofumi s’asciugava con un ampio fazzoletto a fiori il sudore copioso della salita, si disponeva nella striscia delle ortolane provenienti dai paesi limitrofi con analoga mercanzia, riordinava verdure e odori, faceva capolino di preghiere veloci alle Anime Sante, e al braccio di altri venditori, acquietati anch’essi, guadagnava il bar più vicino per il meritato caffè. Chiacchierine suonavano a questo punto le campane per annunciare la prima messa e il sole levato. Le banche dei fruttaròli erano belle e allineate.
I furgoncini degli alimentari avevano aperto i teloni come ali d’aquila in tutta la loro estensione, tra odori penetranti di sottaceti, aringhe e baccalà; il porchettaro aveva incominciato a servire i primi panini caldi caldi agli stessi ambulanti bisognosi di colazione robusta; era apparsa la distesa di conche e rame vario a piedi piazza mentre dal lato destro, guardante la Cattedrale, le bancherelle di vestiti e d’intimo avevano messo in mostra la loro mercanzia e l’edicola incominciava la vendita di giornali, dopo il richiamo dello strillone che vendeva anche di suo, solleticando la curiosità della gente con una frase rimasta al mezzo come un sospiro tronco: “E’ successo”… Che cosa, poi, dovevi comprare il giornale per saperlo. Era L’Aquila del dopo guerra, ma anche la stessa Città che ci ha rubato le ore del mattino fino a quando il terremoto del 2009 non scacciò gli ambulanti per trasferirli nell’arida e incolore Piazza d’Armi, dove c’è di tutto, ma si fa fatica a ritrovarne l’anima.
Fortunato Milleprofumi era una delle tante anime del Mercato del Duomo e forse tra le più caratteristiche. Gentile di voce e nel portamento, sapeva adunare attorno alla banca, che era la sua profumeria, le donne degli acquisti che non trovavano solo verdure, ma tutta una infinità di odori come erbetta, sedano, rosmarino, mentuccia, timo che nell’orto della Rivèra curava con particolare attenzione da farne il richiamo principale della sua banca piccola. E’ questa particolarità, si intende, che gli aveva guadagnato il soprannome di Milleprofumi, al quale teneva come a un trofeo da esibire nel salotto buono. Come la ressa scemava un poco, Milleprofumi sedeva su uno sgabello precario, tirava fuori da una sacca di tela bianca un gomitolo di lana e gli dava sotto coi ferri per confezionare qualche capo, fosse un maglione o un paio di calzettoni per l’inverno.
Alla scena più esilarante del suo stare in piazza, si poteva assistere quando accostavano la sua banca donne e giovanottoni simultaneamente. Se era la donna a chiedere: “Che profumi porti oj (oggi), Fortunà”, egli rispondeva falsamente ischizzinito con un “Vattene via, puttano’ “, che aveva tutto il sapore di una carezza e che come tale veniva percepita ridendo. Quindi le attenzioni erano rivolte tutte al baldo giovanotto: “Guarda se quanti profumi tengo (ho), capa, capa (scegli, scegli) Stellozzu”. E tutto finiva lì, perché Fortunato Milleprofumi era sempre abbondantemente nei limiti della galanteria, prestata tutt’al più al doppio senso, come lo erano del resto tutti nei suoi confronti, in una Città aperta al diverso, anche in tempi in cui le cosiddette battaglie di civiltà erano ancora di là da venire.
Intorno alle quattordici le banche incominciavano a sciamare, mentre arrivavano squadre di netturbini a ripulire ogni cosa con le ramazze lunghe. Fortunato allora ridiscendeva verso gli orti della Rivèra con il carrettino alleggerito e riprendeva la cura del suo orto, perché l’indomani la città profumasse ancora tutta della freschezza delle sue verdure e dei suoi odori, cui lui teneva più di un prato in fiore. E che lo esaltavano assai più di due gocce di Chanel.
Mario Narducci*, com.unica 4 maggio 2020
*Mario Narducci è nato nel 1938 all’Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest’ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell’ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell’anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. È presidente dell’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L’Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. È componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l’altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L’Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L’Aquila).