Papa Giovanni Paolo II nei ricordi di Mario Narducci, che da vaticanista ha conosciuto da vicino, seguendolo in molti viaggi all’estero

A raccontarla così, mentre si celebrano i cento anni della nascita, viene da sorridere pensando ad uno dei grandi scherzi che ogni tanto la Provvidenza si diverte a fare. Uno dei tre Papi che ha regnato più a lungo in tutta la storia della Chiesa, dopo San Pietro e Pio IX, ha rischiato infatti di non entrare nemmeno nel Conclave che lo avrebbe eletto. Era il 14 ottobre del 1978. Il pomeriggio romano respirava ancora il fiato caldo della bella stagione e sul lungotevere si affacciavano i turisti a contemplare il fiume scorrere copioso fra i due argini, tra i barconi-ristoranti ancorati e in attesa delle cene al lume di candela di innamorati in cerca di segretezza.

In Vaticano i cardinali giunti a Roma da tutto il mondo per partecipare al secondo Conclave nel giro di pochi mesi, dopo il breve pontificato di Papa Luciani, si apprestavano ad entrare nella Cappella Sistina, che avrebbe chiuso i battenti alle loro spalle alle diciassette in punto, per eleggere il suo successore. Al cardinale Wojtyla, venuto da Cracovia, non parve vero di approfittare della giornata di sole per tornare pellegrino al Santuario mariano della Mentorella, oltre mille metri a picco su una rupe del versante orientale del Monte Guadagnolo, tra Tivoli e Palestrina. Lo faceva sempre quando capitava a Roma, tanto più avrebbe dovuto farlo allora, per chiedere alla Vergine delle Grazie il papa che alla Chiesa in quel momento serviva. Pranzo veloce con i Padri polacchi nel refettorio comune, quindi la discesa a bordo della vecchia utilitaria che appena imboccata la statale, prese a singhiozzare e si arrestò.

Qualche inutile tentativo per farla ripartire, poche centinaia di metri a piedi nelle scarpe grosse e sformate, brevi soste con il pollice alzato nel gergo degli autostoppisti, fino a che non si fermò un camionista a prenderlo a bordo, e deviando dal suo itinerario, alle preghiere del cardinale, andò a depositarlo a Piazza San Pietro, giusto in tempo per fargli guadagnare, trafelato e sudato, il portone della Sistina che gli si chiudeva alle spalle alla fatidica ingiunzione dell’Extra omnes: come a dire chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro. E lui fu davvero l’ultimo ad entrare.

Ne uscì all’imbrunire di due giorni dopo, vestito di bianco, la mozzetta rossa e la stola, per affacciarsi alla loggia della basilica, confessare la sua paura per il peso di tanto incarico, scusarsi quasi per essere venuto “di lontano”, per non parlare bene “la vostra, nostra lingua” e aggiungere un accattivante “se sbaglio mi corrigerete” che per i romani fu amore a prima vista. Aveva 58 anni. Era il primo Papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo.

A scorrere anche velocemente la biografia, la sua vita appare tutta un romanzo. Che si dipana fra tragedie private (a poco più di vent’anni resta solo al mondo) e pubbliche, lotte per la libertà del suo popolo, impegno culturale nella clandestinità, duro lavoro nella cava della Solvay, scelta religiosa irremovibile, ascesa al sacerdozio, all’episcopato, al Pontificato, viaggi apostolici nel mondo intero, a quelli che lui chiamava i “santuari dell’uomo”; un poderoso magistero fatto di encicliche e discorsi innovativi, revisione di momenti storici della Chiesa segnati da comportamenti poco evangelici, progressi nell’ecumenismo e nel dialogo con i non credenti, lavoro incessante quale contributo ai mutamenti della geopolitica internazionale.

Fu il primo papa della storia a mettere piede in una Sinagoga, cancellando antichi rancori e contrapposizioni con gli ebrei che definì “fratelli maggiori” dei cristiani; il primo a vedere nei popoli terzomondiali il futuro del cristianesimo, il primo a parlare di “teologia del corpo” in oltre cento catechesi del mercoledì sull’amore sponsale, il primo a riunire ad Assisi le religioni del mondo per una preghiera comune, il primo a promuovere le giornate mondiali della gioventù. Il primo Papa a inginocchiarsi ai piedi dei martiri dei campi di sterminio a Czestochowa e a quelli di Hiroshima e Nagasaki rase al suolo dalla bomba atomica sul finire della seconda guerra mondiale. Io che lo seguivo per il mio giornale ero là, per testimoniarne i grido di dolore, l’anatema contro guerre e dittature, l’appello veemente perché certi orrori non si ripetessero più.

Il papa poeta, una delle voci più sensibili della poesia contemporanea (basta leggere “La bottega dell’orefice” e “Trittico romano” per rendersene conto), il papa che in gioventù era stato tra i fondatori del teatro jagellionico d’avanguardia, il papa sciatore che amava i suoi monti Tatra, come le Alpi e il Gran Sasso; che scendeva i torrenti con il kajaki; il papa che si affacciava al balcone dell’Episcopio di Cracovia per intrattenersi con parole e canti con i giovani che lo pregavano di restare, il Papa che dovunque andava, nel mondo, segnava la fine delle dittature, da quella di Marcos a quella di Pinochet a quella di Mobutu o di Jaruzelski nella sua Polonia, era anche il Papa che sollevava a sé i bambini lanciandoli in aria come un papà qualunque, che camminava sorretto da un anziano Fidel, a Cuba; che prendeva dolcemente per mano Madre Teresa di Calcutta per chinarsi sugli ultimi nei lebbrosari d’Africa e del Brasile e baciarne le piaghe fetide con dolcezza serafica.

Ricordo l’attentato di piazza san Pietro, i due colpi di pistola del turco Alì Agca che lo resero prossimo alla morte e che ne minarono per sempre la prestanza fisica. E quel proiettile portato quale ex voto a Fatima, l’anno dopo, insieme ad una rosa d’oro. Per tutti i ventisette anni di pontificato si portò dietro le stimmate di quell’attentato, fino alla Domenica delle Palme del 2005, quando comparve per l’ultima volta alla finestra di Piazza San Pietro senza poter dir parola, ché tutte gli restarono nella gola tracheotomizzata. “Lasciatemi andare” fece intendere a chi ancora una volta voleva ricoverarlo al Gemelli. E se ne andò il 2 aprile, vigilia della festa della Misericordia che egli aveva voluto aggiungere nel calendario. Oltre due milioni di pellegrini pregarono davanti alla salma composta in San Pietro e un mare di folla partecipò ai funerali, tra capi di stato di tutto il mondo e il libro del Vangelo posato sulla triplice bara e il vento che ne sfogliava le pagine come la mano invisibile di Dio.

Kaduna, secondo viaggio in Africa di Wojtyla. Messa solenne dell’addio. Il Papa Polacco si lascia andare e racconta un sogno. “Mi ritrovai alle porte del Paradiso e feci per entrare ma San Pietro mi fermò per chiedere chi fossi”. “Sono il papa”, risposi, ma San Pietro non volle credermi. “Sono in Nigeria, e ho incontrato i giovani a Onitsha”, nemmeno questa volta Pietro volle credermi. “E poi sono stato a Kaduna, nel Benin, nel Gabon e nella Guinea Equatoriale…” Anche questa volta san Pietro non volle credermi. Sconsolato, allora, gli dissi: “Guarda la mia veste bianca, come è sporca della polvere rossa delle strade che ho percorso”. Questa volta, finalmente, Pietro mi riconobbe. Perché il papa è prima di tutto un Apostolo che ha per casa il mondo.

Quel ragazzo che aveva per compagni di giochi i coetanei del ghetto di Varsavia, quel pontefice che ha testimoniato il Vangelo negli angoli più remoti del mondo, nacque cento anni fa ed oggi è Santo. E alla Jenca, alle falde del Gran Sasso aquilano, dove più volte da papa veniva a pregare e a riposare, gli è stato dedicato un Santuario che ricorda la Casa di Nazareth, tanto è piccolo. Ma è il primo al mondo.

Mario Narducci*, com.unica 15 maggio 2020

*Mario Narducci è nato nel 1938 all’Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest’ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell’ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell’anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. È presidente dell’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L’Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. È componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l’altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L’Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L’Aquila).

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