Racconti in quarantena – Maria La Polveriera
L’AQUILA – Il mestiere più antico del mondo aveva trovato in lei un’interprete discreta e solitaria, una delle poche in una cittadina di provincia berbenista e bacchettona, pronta a segnare a dito e a ritirarlo quando questo avrebbe dovuto rivolgersi verso se stessi. La sua era una bellezza contadina prorompente ma non ostentata. Una sorta di Figlia di Iorio di dannunziana memoria, raffigurata dal Michetti sullo sfondo innevato della Maiella, mentre passa scostante tra “cafoni” irridenti, avvolta in un lungo scialle rosso. Il suo magnetismo era però negli occhi, neri come pece e voluttuosi come una notte di luna, rotondi come cerva dal richiamo biblico che corre di valle in valle alla ricerca disperata dell’amato.
Lei però si accontentava di assai meno: accompagnatori per una manciata di minuti, che salivano furtivamente al suo “eremo” fuori città, un luogo lontano e assolato dove l’esercito aveva scelto di piazzare la sua santabarbara, deposito di munizioni e di esplosivi, al sicuro da ogni malaventura. La sua clientela era formata per lo più da studenti delle Superiori e universitari, spesso alla prima esperienza, e da soldati di leva di una delle tante caserme, riversati fuori in libera uscita come fiumi in piena, clientela provvidenziale anche per le pizzerie e trattorie che punteggiavano la città. Per il luogo dove stava, solitario e lontano da occhi indiscreti, le era stato appiccicato addosso un nome d’arte: Maria la Polveriera, che si sovrapponeva al suo fino a cancellarlo del tutto.
Nel tempo libero, ma non ne aveva molto, riordinava la casa, sbatteva le coperte al sole con il battipanni di vimini incrociati a bell’arte, e se ci scappava, si segnava anche di croce aggiungendo qualche giaculatoria sacra. Erano così, del resto, le donne che allora facevano il mestiere, quasi tutte almeno, libere com’erano da sfruttatori patentati e da asservimenti ricattatori. Come l’altra che vendeva le sue grazie in una stradina del centro, appena fuori l’uscio di casa, e che seduta sul paracarro d’angolo aspettava i clienti sgranando piamente il rosario. “Cristo mi guarda dentro e mi conosce meglio di tutti voi”, rispondeva ponendosi addolcita una mano sul cuore, a chi le faceva notare l’incongruenza del mestiere con le pratiche di pietà.
E non aveva tutti i torti, se è vero che nel Vangelo Gesù ha parole assai chiare nei confronti di scribi e farisei che gli rimproveravano la sua dimestichezza con i più disprezzati del tempo con i quali si intratteneva perfino a pranzo: “Pubblicani e prostitute saranno i primi nel regno dei cieli”. I pubblicani erano gli ebrei che riscotevano le tasse per conto dei dominatori romani, le prostitute guadagnavano vendendo se stesse. Tutt’e due erano l’abiezione. Tutt’e due, guarda caso, avevano a che fare con denaro sporco. Perché in realtà c’è qualcosa di più sporco ancora: un cuore contaminato da falsità e sete di potere che passa su tutto calpestando la dignità delle persone e costringendone altre a metterla in vendita.
Maria la Polveriera non si faceva problemi, tanto più che, con il tempo, le era colata addosso una notorietà da quasi stella del cinema, al punto che il Ristorante – monumento della città, famoso in tutto il mondo, dove approdavano a gustare l’antica e tipica cucina abruzzese registi come Antonioni, cantanti come Celentano, re come Faruk, politici come Andreotti, musicisti come Von Karajan, intellettuali come Pasolini e perfino un re come Gustavo di Svezia durante le sue ripetute ricerche archeologiche -, aveva voluto evocarla in una sorta di spot pubblicitario stampato sulla ceramica delle caraffe: “Se vai in cerca di allegria può bastarti una Maria, ma se vuoi ghiottonerie devi anda’ alle Tre Marie”.
Dopo gli anni della maturità, per Maria la Polveriera giunsero quelli dell’età avanzata che coincisero con la forte espansione urbanistica al di fuori dell’antica cerchia muraria, verso le campagne più prossime e quelle più lontane, fino ad inglobare paesi. Anche l’antica polveriera fu smobilitata e la rotonda collina su cui insisteva la sua casetta rurale, fu invasa da palazzi e ville che ne mutarono radicalmente il volto, fino a rendere difficoltoso ritrovare la luna anche nelle notti piene, e guardare le stelle perse ormai definitivamente tra le finestre illuminate che toccavano il cielo.
Anche Maria scomparve e nessuno ne seppe più nulla. La Figlia di Iorio s’era persa tra i ruderi della sua cascina sovra la quale era stato edificato un palazzo di quattro piani, anonimo e incolore, senza più il vento che passeggiasse tra gli alberi dell’orto e ne ripetesse il nome. Anche se c’è chi giura che nelle notti più calde dell’estate, quando tra i palazzi passa la brezza del refrigerio, quel nome lo si avverta ancora, a tendere l’orecchio, con tenerezza antica, perché la morte, dicono, lo ha lasciato per sempre a mezz’aria. Ma forse è soltanto illusione.
Mario Narducci*, com.unica 20 maggio 2020
Nella foto il dipinto di Francesco Paolo Michetti, La Figlia di Iorio
*Mario Narducci è nato nel 1938 all’Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest’ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell’ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell’anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. È presidente dell’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L’Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. È componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l’altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L’Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L’Aquila).