L’AQUILA – “Me recunusci?” disse una voce stanca mentre due braccia si protendevano davanti e l’uomo in pigiama mi veniva incontro. Il volto segnato dall’età e la barba incolta di più settimane alimentavano la mia perplessità. “Mi riconosci?” insistette l’uomo, togliendosi il berretto di lana e tenendolo, il capo chino, tra le due mani accostate al petto come accadeva un tempo con i mezzadri alla visita del padrone. E lo riconobbi, allora, e di colpo mi ritrovai nel vicolo della mia infanzia, in pieno centro storico, dove Spasimante abitava, solo ma parte viva di un vicinato fatto di tanti disperati come lui, stipati in bassi umidi e bui, al piano interrato di palazzi signorili.

Il colloquio che ne seguì mi raggrumò le viscere. Decenni e decenni di lavoro rimediato non gli avevano migliorato di un’acca la vita e lo straccio di pensione di vecchiaia che gli arrivava ogni mese, non gli bastava nemmeno per riscaldare, d’inverno, il basso in cui ancora abitava. Io mi trovavo lì, in un anfratto del corridoio del vecchio ospedale cittadino, in visita a mio suocero ricoverato in geriatria.

Stai bene?” gli chiesi alludendo a una malattia che non conoscevo. “Benissimo”, mi rispose, sussurrandomi accortamente che lui si trovava là per svernare. “Tutti gli anni – continuò, felice di parlare con un ragazzo del vicolo della sua giovinezza -, quando il freddo si fa più straziante, vengo qui e mi faccio ricoverare. Capisci dottore, sono solo e la casa è fredda, e qui anche da mangiare è buono, tre pasti caldi al giorno, curato e servito come meglio non potrei desiderare, e mi conoscono tutti ormai e tutti mi vogliono bene, perché io non ho mai fatto del male a nessuno e ho sempre rispettato e voluto bene a tutti come fossero i fratelli che non ho mai avuto”.

Era il tempo in cui anche gli ospedali, che non dovevano rispondere ancora alla logica delle aziende, avevano un cuore pur se non giravano più per le corsie le monache cappellone della carità, guardiane inflessibili del buon andamento dei reparti e viscere materne di fronte al dolore diffuso che quotidianamente dovevano alleviare. Quando anche nell’inverno successivo, ancora una volta mio suocero dovette subire un ricovero, invano cercai Spasimante, svernato per sempre, seppi in seguito, là dove non esistono più inverni gelidi e soprattutto agli ultimi viene assicurato di diritto il pasto caldo della visione beatifica di Dio.

Spasimante abitava in un basso, ma la sua giornata la trascorreva a Piazza Duomo dove lavorava. La sua giornata incominciava all’alba, perché aveva un’occupazione rimediata che non poteva aspettare. Non avendo acqua corrente, portava un catino in mezzo alla strada, vi versava una brocca d’acqua tirata dalla conca d’angolo, si insaponava le mani e se le portava, ripetutamente sbruffando, al viso, con godimento se era la buona stagione, tra nuvole di vapore da fiato caldo se l’inverno insisteva.

Gettata l’acqua sporca nel tombino, metteva i soliti abiti sdruciti e sopra d’essi uno spolverino grigio da lavoro, calzava una coppola di sghembo e, freneticamente ancheggiando in passi brevi, si portava in Piazza, dove i postali scaldavano già il motore. Spasimante faceva il facchino, un mestiere povero ma sicuro, a quei tempi, quando i bagagli non entravano in corriera ma finivano tutti sul tetto della vettura, trattenuti da lunghe barre perimetrali alle quali venivano assicurati con un intreccio sapiente di corde. La stazione delle poche corriere stava allora, striminzita e caotica, dal lato delle Anime Sante, la Chiesa sorta a memoria dell’apocalittico terremoto del 1703, a fianco del palazzo merlato, dal cui terrazzo veniva chiamata la tombola durante le ricorrenze patronali.

E mentre tra la gente girava il venditore di caramelle, con la sua cassettina di raccolta e di esposizione, Spasimante saliva spedito la scaletta fissata sul retro del postale, scendeva ad uno ad uno i bagagli dalle corriere in arrivo, saliva quelli delle corriere in partenza. Per ogni bagaglio una mancia povera, tante mance, alla fine, che facevano una piccola giornata. Bastevole a lui che si contentava di poco: un cappuccino con pasta, a colazione, nel vicino bar, ricco degli umori dei venditori del mercato, un panino farcito di mortadella per pranzo, una minestra ristoratrice alla sera, preparata sul fornellino a gas, prima di prendere su un giaciglio di foglie di “marrocchie” il sonno tosto che lo avrebbe portato al giorno successivo.

Mai nessuno ha sentito Spasimante alzare la voce, né urlare contro qualcuno. La sua era una gentilezza innata, accentuata da un portamento lieve e dalla parola chioccia, accompagnati da un sorriso accondiscendente e da un lieve ammiccare d’intesa che s’arrestavano lì, senza mai varcare il limite del buon garbo e che gli avevano guadagnato un nome da sospiri lunghi.

Mi sono chiesto più volte quale sarebbe stato il suo mestiere rimediato, oggi che i postali con il tettuccio portabagagli non esistono più, soppiantati dai lussuosi autobus di gran marca, perfino a due piani, che se vanno a Roma lo fanno in autostrada, senza subire il martirio della vecchia Salaria, che nelle curve difficili costringeva gli autisti a manovre da vertigini sugli strapiombi. Ma ogni tempo ha il suo volto e i suoi personaggi che lo marchiano per sempre. Il tempo di Spasimante era quello dei bassi e dei postali che andavano a nafta tra scarichi di nuvole nere, e che avevano bisogno di un uomo gentile e forte come lui per tirare su bagagli, spesso colmi più di sogni che di vita degna.

Mario Narducci, com.unica 7 giugno 2020

La foto è di Franco Nerilli: Postali in Piazza del Duomo

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