Racconti in quarantena – Il primo mare non si scorda mai
L’AQUILA – La prima volta che vidi il mare fu uno stordimento. Sensazione analoga avevo provato solo con le influenze stagionali che mi coglievano, con febbri altissime, all’improvviso, così come all’improvviso sparivano lasciandomi in uno stato di deliquio estatico, una sorta di euforia sottile, lo sguardo fisso al soffitto bianco che s’animava di ronzii come un alveare e di immagini fatte di segmenti e macchie che diventavano volti d’uomini e di animali e paesaggi sconosciuti.
Avevo sentito nominare il mare da mia madre, che lo attraversò per un mese a dieci anni, di ritorno dall’America, dove era nata insieme ad altri quattro fratelli da genitori emigrati. Ma quello era un oceano, vasto da paura, le onde altissime sollevate da raffiche di vento poderose che s’acquietavano al ritorno della bonaccia. Sole da fornace in coperta dove stavano ammassati come chicchi di melagrana, ma senza il colore dell’ottimismo perché il ritorno, per molti, altro non era che una denuncia di fallimento.
Avevo otto anni, forse nove ma non di più. Allora s’andava al mare con le colonie della POA, la pontificia opera di assistenza che subito dopo la guerra soccorreva i meno abbienti e organizzava colonie marine perché il sole rincorasse anche i bambini gracili e il respiro dello iodio alleviasse l’asma incipiente. La rivelazione mi colpì a Francavilla a mare. Stordimento come da febbre alta. Il fruscio dell’acqua che giungeva a riva e se ne tornava via con la risacca.
Io me ne stavo ritto sulla sabbia a contemplare l’immenso, là fino a dove la linea d’orizzonte del mare si congiungeva con quella del cielo, in un subisso di sole accecante che mi riportò il ronzio di un alveare nella testa, tra piccole vele lontane, opposte alle instabili telature della colonia che ci facevano da riparo nell’ora della più forte calura, sulla spiaggia libera. “Noce di cocco, cocco fresco” si udì, sottile come bisbiglio, una voce lontana, sempre più robusta mano a mano che ci veniva incontro.
“Cocco fresco”, ripeté invitante e forte l’omino che ci si parò davanti, con un secchio d’acqua in una mano ricolmo di liste di cocco, e noci intere di riserva in un borsone. Era l’unico venditore di allora quando erano lontanissimi i tempi dei “vu cumbrà” carichi di accendini, pareo e bigiotteria. Qualche spicciolo lo avevamo un po’ tutti. “Non si sa mai, potrebbero servire”, m’aveva detto mio padre alla partenza facendomi scivolare in tasca poche lire.
Lo sguardo accondiscendente delle giovani assistenti ci permise gli arditi acquisti, anche se ci fu possibile gustare ogni cosa solo dopo il bagno che, dentro un costumino di lana che appena in acqua si sbrillentava tutto, poteva aver luogo nelle ore rituali, prima della merendina delle undici: pane e formaggino di rigore, un profumo ed un desiderio che ancora mi porto dentro al punto da gustarne ancora quando voglio reimmergermi con voluttà nel sole dell’infanzia.
Con l’omino del cocco un giorno passò sulla spiaggia anche un piccolo coro folcloristico diffondendo una canzone che ancora mi porto dentro: “E’ Francavilla le più belle site”. E’ Francavilla il posto più bello del mondo. E per noi lo era davvero, anche se non si alloggiava in un villaggio turistico, ma in una chiesa sconsacrata dove erano state disposte brandine militari per la notte e tavoli con sedie per la refezione. Tra le attese del bagno che avveniva sotto l’occhio vigile delle assistenti, canti e giochi di gruppo per occupare il tempo. Gli animatori dei villaggi turistici sono stati un’invenzione successiva perché il mestiere lo avevano già creato le giovani assistenti di allora.
Seppi anni dopo l’importanza della cittadina che ci aveva accolto, del Conventino di Michetti, pittore e fotografo, grande amico di D’Annunzio, dove si riunivano in cenacolo i più bei nomi della cultura dell’epoca, da Francesco Paolo Tosti a Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao. Non si tratta di soli ricordi, per quanto profondi possano essere e per quanto terreno abbiano dato ai miei sogni. Si tratta di molto di più, di uno spazio immenso che si apriva nella mente di un ragazzo pronto a cogliere gli stupori della vita e a lasciarsene trasportare, come vela bianca da vento leggero sulla calma piatta di acque insondabili.
Verranno altre spiagge e verranno anche gli oceani, non più solcati da bastimenti come quello che riportò in patria mia madre, ma sorvolati in poche ore, il tempo di un pasto e di un film, nella frenesia di un mestiere che ha avuto la ventura di farmi stringere il mondo tra le mani.
Ma il primo mare non si scorda mai e ne sento le onde nell’anima, oggi, solo a riascoltare un cammeo poetico e musicale come quello di Tosti e D’Annunzio nella dolcissima “A vucchella”, che per me, decenni più tardi, prese volto d’amore: “Sì, comm’a nu sciorillo/ Tu tiene na vucchella/ Nu poco pocorillo appassuliatella./ Dammillo e pigliatillo/ Nu vaso piccerillo/ Comm’a chesta vucchella/ Che pare na rusella/ Nu poco pocorillo appassuliatella”.
Mario Narducci*, com.unica 14 giugno 2020
*Mario Narducci è nato nel 1938 all’Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest’ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell’ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell’anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. È presidente dell’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L’Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. È componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l’altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L’Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L’Aquila).
La foto: Mario Narducci, al mare