Lo scrittore ripercorre la biblioteca ideale: Roberto Calasso intervistato da Nicola Lagioia (La Stampa)

Ordinare i propri libri significa dare forma al proprio paesaggio mentale, e al tempo stesso continuare a esplorarlo. Come ordinare una biblioteca di Roberto Calasso è un viaggio nella civiltà del libro, un’autobiografia involontaria, un ragionamento su un possibile futuro per librerie e biblioteche. Abbiamo fatto qualche domanda al suo autore.

Il libro, come il cucchiaio, sembra un’invenzione definitiva. Nel fare il parallelo lei aggiunge che il cucchiaio era uno degli “attrezzi” previsti dalla liturgia vedica, con una declinazione maschile e una femminile. Questo, rispetto al libro, cosa suggerirebbe?

«Potrebbe invitare allo studio del rituale vedico. Dei due cucchiai, maschile e femminile, parlo nell’Ardore».

Una figura che aleggia su “Come ordinare una biblioteca” è quella di Aby Warburg. La regola del «buon vicino”, secondo cui nella biblioteca ideale quando si cerca un libro ci si imbatte in quello che gli sta accanto, il quale può rivelarsi più utile e prezioso, argina l’ossessione di catalogare tutto, una pretesa che lei imputa alla cultura digitale. Non crede che anche per il computer più potente l’idea di far coincidere la mappa e il territorio sia destinata a fallire?

«Catalogare tutto è una impresa vana, che forse fa sognare qualcuno. Quanto al territorio, meglio lasciarlo in pace, senza mappe obbligate».

Leggendo il suo libro viene il desiderio di visitare il Warburg Institute. In Italia c’è spazio per istituzioni simili?

«In Italia non conosco nulla di paragonabile al Warburg. Ma a Roma ricordo due biblioteche di grande piacevolezza e utilità: quella della American Academy, sul Gianicolo (mondo classico), e quella della Hertziana in via Gregoriana (storia dell’arte). Ahimè entrambe istituzioni non italiane».

A un certo punto descrive ciò che si intravede nelle librerie dei nostri politici: atti di convegni, repertori, pubblicazioni omaggio. Tra le stranezze del nostro paese c’è quella di una minoranza di lettori forti a fronte di una classe dirigente che non legge. Da dove vengono i lettori forti?
«Non saprei dire da dove vengano i nostri cosiddetti “lettori forti”. Ma ho sempre potuto constatare che esistono e forse sono anche più duttili, curiosi e percettivi di tanti che si incontrano in altri paesi di grande tradizione editoriale. Questo aiuta a capire il successo imprevisto di certi libri non ovvi, che altrove vengono ignorati».

Lei scrive di ricoprire i suoi libri con il pergamino per rendere meno leggibili i dorsi al visitatore. Comprendo le ragioni dell’intimità. Esistono anche le ragioni del visitatore?

«L’occasionale visitatore riuscirà comunque a vedere anche troppo, a dispetto del pergamino, se è svelto. E non è male se fa un po’ fatica».

Lei definisce l’idea di collana come alta speculazione editoriale. Penso alla collana in cui è uscito “Come ordinare una biblioteca”, la Piccola Biblioteca. Per impostazione grafica, mi sembra quasi un’idea definitiva di collana, capace di resistere alla tentazione dell’immagine di copertina. È troppo iconoclasta pensare che la collana ideale dovrebbe fare a meno dell’immagine di copertina?

«Per quanto mi riguarda abbiamo provato a fare collane con immagini e senza immagini. Ci importa solo che siano attraenti e congeniali ai libri che accolgono. È vero comunque che le copertine senza immagini, se ben concepite, invecchiano meglio di quelle con immagini. Basta pensare alla blanche di Gallimard o alla Blibliothek Suhrkamp, che resistono intatte da vari decenni.

Parlare dell’utilità pratica della lettura è un modo per svilirla, ed è sbagliato pensare che la lettura renda migliori le persone. Ricordo però di averle sentito dire durante una conversazione: “non rende necessariamente migliori dopo, al limite durante”. Forse era una concessione per rafforzare la tesi opposta, ma è quel durante che mi interessa.

«Che la lettura in sé renda migliori è un’idea palesemente errata, tipica di chi non è abituato a leggere. Quel durante di cui mi chiede era una allusione a una magnifica frase di Robert Walser: “Chi legge, fin tanto che sta leggendo, non fa danno”. Ma il danno può cominciare subito dopo».

Ci racconta di un libro importante di cui è entrato in possesso in un momento della vita ma che ha letto diverso tempo dopo?

«I cinque volumi dello Śatapatha Brāhmana, che comprai in un sottoscala di Milano, e parecchi anni dopo divennero il nucleo centrale dell’Ardore».

Parlando dei vecchi Saggi Einaudi, arriva a dolersi per la scomparsa di una sinistra illuminata. Molti intellettuali e lettori di sinistra hanno una vera venerazione per i suoi libri e per Adelphi in generale. Si potrebbe imputare al brivido per l’eresia? Un’ipotesi più avventurosa potrebbe suggerire che un dialogo nascosto (o un proficuo dissidio) tra due mondi diversi continui.

«Se qualcuno avverte un “brivido dell’eresia” leggendo un libro Adelphi, è benvenuto. Vorrà dire che qualcosa si muove nella sua testa».

Scrivendo della libreria Central di Barcellona, dove sullo stesso tavolo è possibile trovare libri in diverse lingue, scrive: “non dovrebbe presentarsi così una vera libreria europea?”. Se una libreria europea è immaginabile, esiste anche una cultura europea, o addirittura un pensiero europeo in grado di incidere sul nostro tempo?

«“Cultura europea”, “pensiero europeo”: per me sono espressioni che oggi non corrispondono a qualcosa di esistente o anche desiderabile. Basterebbero “cultura” o “pensiero” da soli. Una libreria europea, invece, è un luogo dove si respira la pluralità dell’Europa, nelle sue lingue e nelle sue forme editoriali».

Ho l’impressione che, quando arriva a parlare delle riviste letterarie novecentesche non stia solo evocando un passato archiviato. Penso a “L’innominabile attuale”, al modo in cui dialogano i due principali capitoli del libro. Esagero se vedo, nel capitolo sulle riviste letterarie, la ricerca di una tensione tra quell’epoca e la nostra?

«Il capitolo sulle riviste parla di una storia che si è conclusa. Ci sono forme ed esperienze che si perdono per strada, nel corso del tempo».

Esiste comunque una legittima ambizione delle riviste preclusa ai libri?

«Già il puro accostamento di autori e testi molto diversi può dare sapore a una rivista e renderla preziosa».

Rispetto a “L’impronta dell’editore”, sembra che in “Come ordinare una biblioteca” l’ipotesi che il libro sopravviva alla nostra epoca ne esca rafforzata.

«Il libro è comunque più resistente di coloro che ne discutono le sorti».

Leggendo libri come “2666” di Roberto Bolaño, o i volumi della collezione Animalia, mi viene da pensare che, attraverso approcci difficilmente pensabili qualche decennio fa, Adelphi si stia gettando alle spalle il Novecento. Ogni buon libro intrattiene forti rapporti con il passato, e ci si augura con il futuro, ma il fatto che la sua casa editrice si stacchi dal secolo in cui è nata, che impressione le fa?

«Non so bene che cosa significherebbe “gettarsi alle spalle il Novecento” e non mi sembra fattibile, oltre che non augurabile. Non mi sembra che il secolo successivo abbia offerto finora qualcosa di meglio».

Nicola Lagioia, La Stampa 20 giugno 2020

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