Racconti in quarantena – L’Estate dei cocomeri
L’estate dei cocomeri, quell’anno, a Roma, si risolse tutta in una notte di follia. Trascorsa tra Monteverde e Montesacro, con la calura che ti si attaccava addosso con tutti i vestiti che portavi, leggeri ma sempre di troppo, il bicchiere di Frascati in eccesso, l’allegria di uno scapolato di ritorno per via delle mogli che stavano in vacanza, non pienamente convinte di lasciarci soli, io al giornale, il mio amico nel suo studio di pittore a Ponte Bianco. Era una di quelle notti romane che invitano a dormire all’aperto, sulla panchina di un parco, se vuoi, disteso sull’erba che è meglio, mentre il “venticello de Roma” t’accarezza il volto dandosi la voce, come nella fortunata canzone di Rascel, dall’Aventino, con quello del Gianicolo. Anche le stelle c’erano tutte; e c’erano, sotto l’alberi di un’altra canzone romanesca, le mille bocche che si baciavano, complice la luna che cresceva. Forse non era nemmeno proprio così, come nelle canzoni, ma l’atmosfera c’era tutta e, dietro l’angolo, c’era quella notte di irripetibile follia.
Il mio amico pittore era Domenico Colantoni, passato nel tempo dal surrealismo al realismo con i ritratti impietriti di coppie anche famose come quella del regista Robert Altman e le gigantesche nature morte sullo sfondo del Fucino, la sua terra d’origine. Amico di Moravia (al quale dedicò una mostra di successo) e De Chirico, protagonista del fermento culturale romano per almeno un trentennio a partire dagli anni settanta, conteso dai maggiori galleristi, frequentatore di scrittori e poeti quali Elio Pecora, recensito dai critici d’arte dei maggiori quotidiani e periodici italiani, richiesto da reali e capi di Stato all’estero, Colantoni aveva fatto della sua casa un salotto frequentato da artisti e letterati del tempo, tra i quali mi onoravo di figurare anch’io, di certo più nel nome della comune abruzzesità che per ingegno.
Raggiunsi Ponte Bianco con i mezzi e l’idea iniziale era solo quella di stare a cena insieme, alla Fraschetta. Ma nessuno dei due all’uscita, baciato con malia dall’aria di Trastevere, riprese la via di casa e incominciammo a percorrere Roma a piedi come sbandati, soffermandoci con bramosia tra gli acquaroli di grattachecca e i banchi dei cocomerai che s’annunciavano di lontano con tremore chiaro di luci. A quei tempi, negli anni settanta, le strade di Roma ne erano ancora piene, a incominciare dai bordoponti del lungo Tevere. Originari tutti e due dell’Abruzzo aquilano, fummo subito allettati dai cocomerai. Non è forse il cocomero il frutto per eccellenza dell’estate, vivace nel colore, invitante nel rosso spaccato al mezzo e disteso a fette sui blocchi di ghiaccio? Non era il frutto dell’estate, il cocomero, quello che ci si portava dietro nelle gite fuori porta, che veniva tenuto al fresco nel fiume in attesa d’essere distribuito alla voracità arsurata dei presenti?
Tutto questo era il cocomero, cui un detto dialettale aquilano attribuisce una triplice azione benefica a modico prezzo: “dieci lire la petaccia: ci magni, ci bii e ti ci lavi la faccia” (una fetta dieci lire, ci mangi, ci bevi e ti ci lavi la faccia). E fu sull’onda di questi ricordi d’infanzia, che riconquistammo quell’aria sbarazzina che ci portò per le vie di Roma, da Trastevere al Nomentano, stazionando puntualmente davanti a tutti i banchi dei cocomeri, per immergere il muso nelle fette rinfrescanti e sbrodolanti. Il cocomero appariva in quel momento come il massimo della trasgressione.
Nessuno di noi che avesse pensato a infedeltà di sorta. C’era una specie di passione strana, forse anche compensativa, in quel gesto compiuto in apnea, come se la fetta di cocomero rappresentasse una immersione in acque profonde, dalle quali si riemergeva solo momentaneamente appagati per rituffarci in un nuovo perdimento. Era il cocomero l’amante di quella notte che ci avvolgeva nella furia del tradimento. E l’appagamento diventava allegria, spensieratezza, voglia di volare, di invadere il cielo con le nostre risate, di tirarci addosso le stelle con i nostri canti impazziti, di toccare la luna con l’indice puntato là dove lei tremolava tra la serigrafia dei rami in controluce, che potevi contarne le foglie ad una ad una, anche se il respiro che le muoveva ti faceva ricominciare ogni volta da capo.
A Piazza Esedra l’orchestrina estiva del bar parve accompagnare la nostra follia. Sempre a piedi raggiungemmo Porta Pia cantando alle cento penne dei bersaglieri, per fare subito sosta al primo cocomeraio della dirittura nomentana. Una, due, tre soste fino alla Batteria. Una passione vorace ogni volta nuova e fino in fondo assaporata. Dieci, venti fette? Nemmeno la voglia di contarle, solo intuirle, magari, dalla cintura dei pantaloni che progressivamente s’era costretti ad allargare. A Via Val Chisone, dove abitavo, sembravamo due ubriachi che non hanno voglia d’altro se non di letto per smaltire la sbornia, e così fu.
Era il quattordici di agosto del 1977. L’indomani il giornale sarebbe stato a ranghi ridotti perché tanto a ferragosto non succede mai nulla. E invece successe. Proprio nel giorno di ferragosto, Herbert Kappler, colui che individuò il rifugio di Mussolini a Campo Imperatore, consentendo l’Operazione Quercia per liberarlo; il sanguinario responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, fugge dall’ospedale militare del Celio, dov’era ricoverato, coadiuvato dalla moglie che aveva sposato da ergastolano.
Una fuga rocambolesca e mai chiarita che gli permise di raggiungere la Germania e della quale la moglie Anneliese fornì in seguito versioni contrastanti: nella prima il marito sarebbe stato accompagnato fuori come un normale visitatore; nella seconda sarebbe stato calato con una corda dalla finestra della sua stanza, entro una grossa valigia. Tutto avvenne nel mistero di una sorveglianza inesistente e forse con qualche connivenza altolocata. La verità non è mai venuta alla luce. Toccò a me lavorare su questo fatto oscuro di cronaca, che costò le dimissioni al ministro della difesa Lattanzio, anche nei giorni successivi. E fu la mia estate. Goduta appena per una notte. La notte folle dei cocomeri. Appunto.
Mario Narducci*, com.unica 9 luglio 2020
*Mario Narducci è nato nel 1938 all’Aquila. Giornalista professionista, ha lavorato per Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Popolo, Avvenire e Il Popolo, seguendo per quest’ultimo, come vaticanista, i viaggi apostolici di Paolo VI nell’ultimo scorcio del pontificato e, per dieci anni, quelli di Giovanni Paolo II, poi raccontati nel volume, esaurito, Le ragioni dell’anima (Calderini, Bologna, 1989). Ha fondato e dirige Novanta9, periodico di lettere, arti e presenza culturale. È presidente dell’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia e promotore del Premio L’Aquila intitolato ad Angelo Narducci, direttore storico del quotidiano Avvenire. È componente di numerosi Premi letterari. Ha pubblicato tra l’altro i seguenti testi di poesia: La Ragazza di un mese (Ceti, Teramo), Se insiste la speranza (Cannarsa, Lanciano), Il deserto e i giorni (IAED, L’Aquila) con un contributo critico di Alda Merini, Le offese stagioni (Confronto, Fondi), Tempo di Passione (IAED, L’Aquila).
Nell’immagine in alto “Il cocomeraio di Piazza Navona”, un dipinto dell’artista romano Achille Pinelli (1809-1841).