Addio a Franca Valeri, aveva appena compiuto 100 anni
La figlia adottiva: «Ha conservato la sua ironia fino all’ultimo, fino a pochi giorni fa: è stata la sua chiave di vita fino alla fine». L’ultima intervista a Aldo Cazzullo
Franca Valeri si è spenta intorno alle 7.40 di domenica mattina nella sua casa di Roma. L’attrice, nata a Milano nel 1920, aveva appena compiuto 100 anni il 31 luglio. La camera ardente sarà allestita al teatro Argentina, dalle 17 alle 21. I funerali si svolgeranno poi in forma strettamente privata. Lo annuncia all’ANSA la figlia adottiva, Stefania Bonfadelli. “A chiunque voglia fare un omaggio con dei fiori, chiediamo una donazione al rifugio per cani abbandonati Franca Valeri onlus, al quale teneva tantissimo”, sottolinea.
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato ai familiari un messaggio di cordoglio per la scomparsa di Franca Valeri, attrice versatile e popolare, che rimarrà nel cuore degli italiani per la sua grande bravura e la sua straordinaria simpatia.
Franca Valeri “si è spenta serenamente, nel sonno, circondata dall’affetto di tutta la famiglia e degli amici. Ha conservato la sua ironia fino all’ultimo, fino a pochi giorni fa: è stata la sua chiave di vita fino alla fine”, ha detto la figlia nell’intervista. Classe 1967, Stefania Bonfadelli è una cantante lirica, veronese di Valeggio sul Mincio. “Non ne ho avuti di miei di figli – aveva raccontato la stessa attrice a Panorama – però una decina d’anni fa ho adottato una figlia che adesso è anche la mia migliore amica“.
Cent’anni fra ironia e classe, una vitalità e longevità straordinarie, senza perdere il contatto col mondo e le sue trasformazioni. Franca Valeri la prima vera voce femminile autonoma della scena italiana, fin dal suo debutto nel 1948. Ma anche le icone popolari della Signorina Snob o della Sora Cecioni. Un umorismo raffinato e una satira capaci di sedurre gli intellettuali e conquistare il pubblico più popolare. Una protagonista anche nella scrittura teatrale e nella regia per la lirica.
L’intervista rilasciata a Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera lo scorso 28 giugno
Franca Valeri: «Vidi Mussolini in piazzale Loreto, non mi fece pena. Da ebrea ho sofferto»
Franca Valeri abita a Roma, in campagna. Non è una contraddizione: la sua casa è l’ultima di una traversa della via Flaminia antica; dopo cominciano i prati. Alle sue spalle, le foto di un secolo italiano: Franca bambina, e Franca novantenne abbracciata a Sophia Loren; «scrissi un film su due sorelle, e lo portai a Carlo Ponti. Rispose: “Bella trama, perfetta per Sophia, ma tu e lei siete troppo diverse per fare le sorelle. Diventerete cugine. Una cugina napoletana e una milanese: si può fare”. Nacque così Il segno di Venere».
La pelle è fresca, quasi senza rughe. «I denti sono tutti miei. Merito di papà: era ossessionato dai denti, temeva che avessi la bocca troppo larga, e mi mandava ogni mese dal dentista, che lo tranquillizzava: «La gh’ha i orecc che la ferma».
Sul tavolo, accanto al pianoforte che suonava fino a poco tempo fa, ha la copertina de La Ferrarina-Taverna, la sua commedia inedita in uscita da Einaudi, e le bozze del libro che La Tartaruga pubblica per il suo centenario, e raccoglie tutte le sue opere teatrali: un pezzo di storia del nostro Paese. C’è «La vedova Socrate», che Lella Costa porterà al festival di Siracusa e — il 31 luglio, la sera del centesimo compleanno di Franca — al Piccolo di Milano. E c’è «Non tutto è risolto», dove la protagonista torna nella vecchia casa, rivede la stufa, simbolo del passato, ritrova un figlio che forse non è davvero suo, presagisce qualcosa di irrisolto, finché non spunta una sedia a rotelle…
Oggi Franca Valeri è davvero sulla sedia a rotelle. Tre anni fa è caduta, si è rotta otto costole, e da allora non si alza più. È sempre lucida, ma le parole non sgorgano più spontanee; vanno distillate una a una. La aiuta a ricordare la figlia adottiva, Stefania Bonfadelli: la cantante lirica che a 17 anni vinse il concorso inventato da Franca insieme con il compagno di allora, il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi.
Signora Valeri, qual è il suo primo ricordo? «Mio nonno Giulio che mi porta una torta. Ma io detestavo le torte. Continuavano a regalarmi dolci che non mi piacevano. Nonna Francesca invece mi regalava le bambole. Ma non mi piacevano neppure le bambole. Le chiudevo tutte in un cassettone».
Stamattina la Valeri ha uno scialle rosso sulle spalle, nonostante faccia caldo, e una piccola stella di David al collo. Stefania gliel’ha portata da Gerusalemme e da dieci anni non la toglie più. «Papà era ebreo. Ricordo quando lesse sul giornale la notizia delle leggi razziali e pianse. Fu il momento più brutto della mia vita». Non poter più andare a scuola, non poter più andare a teatro. «Preparai l’esame a casa, da privatista. Prima andavo al Parini. Provai a dare l’esame al Manzoni, sperando che non se ne accorgessero. Non se ne accorsero. L’Italia è sempre stata un po’ inefficiente».
Qualche giorno prima della guerra il padre di Franca — Luigi Norsa, ingegnere alla Breda — e il fratello Giulio fuggono in Svizzera, con i gioielli di famiglia cuciti nel cappotto: li avrebbero venduti per sopravvivere. Lei resta con la madre, che è cattolica: il padre pensa che non correrà pericoli. Ma quando arrivano i nazisti, Franca si deve nascondere. «Per passare il tempo leggevo la Recherche di Proust. Senza la guerra forse non sarei mai riuscita a finirla».
Un funzionario dell’anagrafe le procura una carta di identità con il cognome della madre, Pernetta. Per qualche tempo vive in una casa di via Mozart bombardata, dove trovano rifugio altre persone braccate. Tra loro c’è una ragazza che si è appena sposata. Poi Franca cerca riparo in casa di amici; «in via Mozart avevo lasciato i gatti. Così ogni tanto andavo a trovarli. Uno era nero e l’altro tigrato, si chiamavano Mignina e Milù». Di solito il cancello era chiuso; ma quel giorno è aperto. Franca ha un’intuizione, non entra, si nasconde, e assiste alla scena: dalla casa di via Mozart escono i tedeschi, trascinando dietro i prigionieri, tra cui la sposina ebrea.
È una storia che le costa molto dolore ricordare. Dalla gola le esce come un gemito: «Poverinaaaa!». Perché la giovane sposa fu portata ad Auschwitz, e non è mai tornata.
Anche per questo Franca Valeri andò a guardare i cadaveri del Duce e della Petacci appesi a testa in giù a piazzale Loreto. «Mia mamma era disperata a sapermi in giro da sola. In quei giorni a Milano si sparava ancora per strada. Ma io volevo vedere se il Duce era davvero morto. E vuol sapere se ho provato pietà? No. Nessuna pietà. Ora è comodo giudicare a distanza. Bisogna averle vissute, le cose. E noi avevamo sofferto troppo».
«Per me la giovinezza incominciò il 25 aprile: una giovinezza tardiva. Ma è stata bella. In quell’Italia tutto pareva possibile». Il padre le aveva fatto studiare francese e inglese; cosi va a lavorare al comando americano, come interprete. Il ricordo più bello è il ritorno del papà dalla Svizzera: il citofono che suona, il trambusto sulle scale, la corsa gli uni incontro agli altri, le due donne che scendono, i due uomini che salgono, il volto del fratello Giulio, poi quello del padre.
«Non vedevo l’ora che tornasse per dirgli che volevo fare l’attrice. Ovviamente, papà era contrario. Sperava che passassi la vita a dipingere». Lei parte lo stesso per Roma. Si impegna ancor di più, per convincere il padre, che adora. Siccome lui non vuol saperne di vedere il proprio cognome sulle locandine dei teatri, lo cambia: non sarà Franca Norsa ma Franca Valeri, come il poeta francese. All’Accademia di arte drammatica non è ammessa; in compenso alla stazione Termini conosce il futuro marito, Vittorio Caprioli. Ma quando lui parte per Parigi, con il suo amico Luciano Salce, lei deve rimanere a casa. Si rifarà più tardi, recitando a teatro in francese, e inventando il personaggio della signorina snob.
Nelle vecchie interviste Franca racconta di non essere mai stata gelosa. Ora fa capire che non è andata proprio così. È che i rapporti tra i sessi un tempo erano diversi: «Non sono mai stata femminista, semmai maschilista» sorride. Però poche hanno fatto quanto lei per la causa delle donne. È stata attrice, regista, sceneggiatrice, commediografa, scrittrice. «Sono anche diventata un’icona gay, anche se non ho mai capito perché. Ma sono fiera di esserlo».
Ogni tanto qualcuno mette in rete una sua imitazione della Valeri, con parrucche e tutto. Lei li considera omaggi. Il teatro, il cinema, la radio, la tv sono stati una grande avventura, che l’hanno portata accanto ai talenti dello spettacolo italiano: Giorgio Strehler — «un genio» —, Federico Fellini — «quanto l’ho fatto ridere con il personaggio della coreografa ungherese!» —, Eduardo — «tutti ne parlavano male ma con me era molto gentile» —, Alberto Sordi: «Siamo diventati amici girando Il vedovo. Sul set stavamo benissimo; nella vita normale non ci sentivamo mai, se non per gli auguri di compleanno: era nato un mese e mezzo prima di me. Non è vero che fosse tirchio, con lui non ho mai dovuto mettere mano alla borsetta… Ricordo quando firmai la regia de La strana coppia, con Monica Vitti e Rossella Falck; Alberto venne alla prima, ci abbracciammo».
Indimenticabile il necrologio che in morte di Sordi dettò al Corriere: «Ciao, Cretinetti. Franca Valeri, Milano».
Un rapporto speciale si era creato con altri due grandi. Tra gli attori, «Vittorio De Sica era l’amico più caro». Ma anche con Totò, notoriamente un carattere non facile, Franca aveva un punto di contatto: «I cani. Parlavamo di cani. Li ho sempre amati tanto. Lui ne aveva moltissimi, forse duecento…». Per casa oggi gironzola Aroldo IV, detto Rorò: è il quarto King Charles della dinastia, nome scelto non in onore di Aroldo Tieri ma dell’opera di Verdi. Convive senza screzi con una gatta, Cocò. Nella villa di campagna, a Trevignano romano, ci sono cinque cani. Altri quattordici, accuditi da volontari, vivono nel rifugio aperto dalla Valeri con la figlia.
Una grande amica, racconta, è stata Maria Callas. «L’ho incontrata a Ischia. Era ancora sposata con Meneghini, prima dell’incontro con Onassis. Ma era già magra: mangiava pochissimo, solo carne cruda e insalata scondita. Stava studiando Anna Bolena che doveva portare alla Scala, era molto preoccupata di non sfigurare. Insieme abbiamo fatto la giuria di un concorso di bellezza… Poi preparò la Traviata con Visconti. Era una donna di grande volontà».
La musica leggera l’ha amata meno: una volta a Bologna Lucio Dalla gli si prostrò davanti, ma la Valeri non lo riconobbe: «Chi è quel tipo in pigiama?».
A Parigi però aveva conosciuto Edith Piaf: Franca andò a un suo concerto, Edith venne a vedere lei alla Comédie Française. I giorni della pandemia sono scivolati lievi nella sua vita. Le abitudini non sono cambiate. I telegiornali non li ha visti: da anni in tv guarda solo la prima della Scala. «Vorrei tanto tornare un’ultima volta all’opera. Il mio sogno sarebbe rivedere ancora la Bohème».
Le notizie sono arrivate attutite: una brutta influenza, che ha colpito soprattutto la sua Lombardia. «È dal dopoguerra che abito a Roma, ma non ho mai perso l’accento milanese»; ora il volto di Franca si apre in un abbozzo di sorriso: «Milano è sempre stata meravigliosa».
Ha anche una nipotina, Lavinia, figlia di Stefania, che protegge dalle sgridate della madre. Una vita così lunga, spiega, è stata una sorta di risarcimento, per quello che ha sofferto da ragazza.
Spunta una lacrima dagli occhi acquosi di Franca Valeri. È il segno che l’incontro è finito. E questa casa costruita dove finisce la grande città sembra il luogo appropriato per una persona giunta — con serenità — ad affacciarsi sull’orlo dello spavento supremo, del grande mistero.
La Valeri non crede in Dio, ma ogni tanto recita una preghiera ebraica. Alla morte cerca di non pensare; ma a cent’anni è difficile non farlo. Qualche volta prevale la paura, qualche altra la curiosità. Perché «voglio proprio vedere cosa c’è dall’altra parte».