Un racconto intrigante su personaggi insigni, grandi firme del giornalismo, artisti e pugliesi di rango nella Milano degli anni Settanta e seguenti

MILANO – Tutto cominciò nel ’77 in via Brera, al Centro informazioni d’arte di Nencini, titolare anche della galleria Boccioni. Il settimanale “L’Europeo” aveva pubblicato un inserto sui trulli che andavano in rovina, autore Salvatore Giannella; e, con il grande pittore pugliese Filippo Alto, organizzai una serata sull’argomento, invitando a parlare fra gli altri il gastronomo Vincenzo Buonassisi, il fotografo Piero Raffaelli, Guido Le Noci – che nella sua “Apollinaire” aveva ospitato i più grandi nomi dell’arte contemporanea, tra cui Christo Javaceff – il direttore del settimanale della Rizzoli e il giornalista e scrittore Domenico Porzio, da pochi giorni tornato da Taranto, che descrisse con vivezza di particolari, nel bene e nel male.

Lambros Dose, architetto d’interni, gestore del Cif, introdusse la manifestazione con la lettura di una pagina di Paolo Grassi, tratta dal Libro “In Valle d’Itria cicerone di me stesso” di Pietro Massimo Fumarola. Mezz’ora prima della conclusione degli interventi, una sorpresa: alla chetichella, per non disturbare, mentre in un’altra sala si proiettava un documentario sulle tarantolate di Galatina, sfilò un corteo di collaboratori di Michele Jacubino, Chechele per tutti, proprietario del ristorante “La Porta Rossa”, pugliese purosangue, con assaggi di prelibatezze della nostra regione da offrire al pubblico, circa 400 persone.

Seppi che Chechele, ad Apricena, sua città natale in provincia di Foggia, per una visita di qualche giorno, appena aveva saputo dai giornali della serata, aveva dato disposizioni allo “chef” ed era partito subito per Milano. Qualcuno ricorda ancora le orecchiette, le mozzarelle, i taralli, i salumi, il vino buono e quella delizia del pane pugliese, un gioiello uscito dalle stesse mani del ristoratore, che da giovane ad Apricena aveva esercitato l’arte del fornaio. Il tutto condito dall’espressione incantata di quell’uomo che in seguito fu indicato come “nunzio” della Puglia a Milano.

Ad avere l’idea era stato Mario Dilio, giornalista e scrittore barese, che per anni era stato capo ufficio stampa dell’Alfa Romeo a Milano. Amico del poeta Vittore Fiore, figlio del grande Tommaso, docente all’Università di Bari, scrittore a sua volta e meridionalista, vincitore nel ’55 del Premio Viareggio con “Un popolo di formiche”, lo disse a Filippo Alto e a me, coinvolgendo un gruppo di commensali seduti al tavolo di fianco al nostro durante una cena. I giornali ripresero le sue parole e Chechele ebbe l’investitura “coram populo”, “complici” i pugliesi che frequentavano il locale, ai quali si aggiungevano spesso attori, attrici, presentatori, giornalisti famosi, imprenditori, poliziotti della vicina questura…

Chechele abbracciava tutti; se qualcuno aveva prenotato, lo aspettava sulla soglia e gli andava incontro. Così fece con Giuseppe Giacovazzo, direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, autore del primo documentario a colori della televisione: tema, Domenico Cantatore, che era di Ruvo di Puglia. Giacovazzo si presentò dopo mezzanotte in compagnia di Filippo Alto, suo amico dall’adolescenza, cenò e conversò a lungo con Chechele, deciso ad aprire un secondo locale, per il quale aveva già il nome: “Puglia”. Che dopo alcuni mesi fu inaugurato alla presenza di Daniele Piombi. Alla conversazione erano presenti anche Nenella e la figlia Antonietta che si stava laureando in lettere, e il sottoscritto.

Chechele aveva la mente fervida, sempre tesa a realizzare nuove imprese. Aveva fantasia, era generoso, schietto, affabile. Un giorno andai a trovarlo assieme a Filippo Alto e ancora prima di salutarci ci spiattellò un pensiero che covava da tempo: “Voglio fare qualcosa per dire grazie a Milano. Questa città mi ha dato tante soddisfazioni, mi ha consentito il successo anche attraverso i tanti stranieri che vengono qui, avendo sentito parlare di me, della cucina di Nenella e del nostro calore”.

In testa aveva la pubblicazione di un libro con tutte le fotografie che lo ritraggono con centinaia di personalità. “Non sarebbe meglio un premio di giornalismo?”. “Vada per il premio”. Filippo s’incaricò dello statuto, che rivedemmo insieme prima di sottoporlo a Chechele, che lo approvò, e pensammo alla giuria, con nomi prestigiosi: i pittori Ibrahim Kodra, Giuseppe Migneco, Mario Bardi; i critici d’arte Raffaele De Grada, Alberico Sala (che era anche poeta) e Sebastiano Grasso del “Corriere della Sera”. Seguirono i galleristi Mimmo Dabbrescia e Renzo Cortina (era anche libraio in piazza Cavour), i gastronomi Vincenzo Buonassisi e Edoardo Raspelli; il vicedirettore del “Giorno” Ugo Ronfani, grande intellettuale e critico teatrale; Mario Oriani, direttore di “Qui Touring”; lo scrittore Paolo Mosca

E partimmo. La prima edizione venne assegnata a Giovanni Valentini, perché a 29 anni era alla guida de “L’Europeo”; la seconda a Gino Palumbo, direttore de “La Gazzetta dello Sport” (tra l’altro aveva moltiplicato le vendite del giornale); la terza ex aequo a Franco Di Bella, direttore de “Il Corriere della Sera,” e ad Alberto Cavallari, corrispondente da Parigi dello stesso quotidiano (venne apposta preceduto da un telegramma). In questa cerimonia, tra gli ospiti c’erano, oltre a Gino Palumbo, il sindaco Carlo Tognoli e il giornalista e scrittore Giovanni Testori.

I giornali e le televisioni dettero molto spazio all’iniziativa e Chechele gongolava di gioia. Nenella era riservata. La si vedeva soltanto quando, all’inizio scendeva al braccio del marito la scala che dal piano superiore portava a quello inferiore, sede del Premio. Al ristorante “La porta rossa” era quasi sempre festa. Ogni tanto nel locale si esibiva qualche cantante pugliese; si tenevano incontri culturali e qualche pittore (Mario Bardi uno dei primi) donava una sua opera che veniva appesa nel punto più in vista o collocata su una mensola, come un faraglione del grande ceramista Giuseppe Rossicone, abruzzese che aveva aperto il proprio laboratorio in via Chiossetto nel 1950. Insomma gli artisti erano di casa in via Vittor Pisani, a pochi passi dalla stazione Centrale.

Fu da Chechele che nel 1978 fu tenuto a battesimo il periodico “Il Rosone”, poi trasferito a Foggia. Per brindare in onore di questo giornale fondato da Franco Marasca intervennero in tanti, e non soltanto pugliesi, tra i quali il compianto Antonio Velluto, ottimo giornalista ai vertici della Rai lombarda, detto “il principe” per i suoi modi garbati ed eleganti. E quando allo Spazio Prospettive d’arte di Mimmo Dabbrescia vennero celebrati i 25 anni del giornale (tra gli interventi, quello del professor Francesco Lenoci poi definito il miglior ambasciatore della Puglia nella città del Porta), fu sempre lui, Chechele, ad imbandire una tavola con i profumi e gli odori della Puglia.

Una volta gli dissi che la sua figura richiamava un figurante della commedia napoletana, e che lo avrei visto volentieri nell’equipe di Eduardo De Filippo. Sorrise compiaciuto. Era pacato, intelligente, alla mano, dava del tu a tutti, senza curarsi del ruolo e dell’importanza dell’interlocutore. E la cosa era gradita. Il questore Vito Plantone lo stimava. Lo stimava anche Giacovazzo, che a suo tempo aveva collaborato a Milano con Paolo Grassi.

“Come si fa a non ricordare Michele Jacubino?” Antonio Di Bella, giornalista noto in Italia e all’estero, già direttore di Rai3, lo ha scritto in questi giorni su Facebook. E lo dicono in tanti, quelli che lo hanno conosciuto personalmente e quelli che ne hanno sentito parlare.

Chechele era un personaggio, legatissimo alla sua terra d’origine, privilegiata da Federico II: il sovrano la trovava adatta al suo amore per la caccia. Tra Lucera, Apricena e Foggia scrisse il suo trattato di caccia con il falcone. Chechele a volte ricordava la sua città e i resti del Castello di Federico. Quando diceva che era di Apricena gli luccicavano gli occhi e i suoi baffetti neri avevano un piccolo guizzo. Si commuoveva senza darlo a vedere. Aveva un carattere forte. Era stato povero e aiutava quelli che avevano bisogno, con discrezione, secondo il dettato manzoniano. Ne ricordo uno che quasi ogni giorno si sedeva a un tavolo in un angolo, trattato come un cliente normale. I camerieri lo adoravano, Chechele. Uomo dinamico e concreto. Aprì un ristorante a Pugnochiuso nel Gargano, condotto dal figlio Nino, erede delle sue doti.

Chechele ha lasciato un vuoto in chi gli ha voluto bene e l’ha apprezzato. “Non riesco a credere che questa persona saggia, comprensiva, buona come il pane, sempre tesa verso gli altri, non ci sia più. Ogni volta che passo da via Vittor Pisani, davanti al ristorante, non posso fare a meno di pensare a lui”, mi disse un giorno un tecnico pubblicitario amico del “Pugliese”, come qualcuno, per esempio Gaetano Afeltra, scherzando chiamava Chechele.

Franco Presicci, com.unica 6 novembre 2020

*Nella foto in alto, da sinistra Nenella, Giuseppe Giacovazzo, Chechele e Franco Presicci

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