SAN MARTINO

La nebbia a gl’irti colli

piovigginando sale,

e sotto il maestrale

urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo

dal ribollir de’ tini

va l’aspro odor dei vini

l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi

lo spiedo scoppiettando:

sta il cacciator fischiando

sull’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi,

stormi d’uccelli neri,

com’esuli pensieri,

nel vespero migrar.

(G. Carducci, 1883)

Quelli che precedono sono i versi di una breve poesia di Giosuè Carducci (Valdicastello, 1835 – Bologna, 1907), versi che nel secolo scorso generazioni di bambini italiani hanno imparato a memoria negli anni delle scuole elementari. Trasuda da queste strofe un’atmosfera di dolce malinconia. Le parole sono altrettante pennellate di colori tenui, come in un quadro impressionista. Suoni, odori e sapori della vita semplice, paesana, come ce la raccontavano i nostri nonni e come l’abbiamo in parte respirata anche noi, ci sorprendono ad ogni riga.

Giosuè Carducci fu tante cose (scrittore, professore universitario, studioso erudito, politico), ma fu innanzitutto poeta della vita. L’«aspro odor dei vini» è la nota dominante di tutta la piccola lirica, è il motivo musicale che attraversa lo spazio e il tempo e si para davanti ai nostri sensi a rievocarci i profumi dell’infanzia, insieme all’aria frizzante dei pomeriggi autunnali riscaldati dai «ceppi accesi» su cui girava «lo spiedo scoppiettando».

L’«aspro odor dei vini», per chi come lo scrivente ha assistito al tramonto di un’epoca, ha la stessa funzione che per Marcel Proust (1871-1922) aveva il profumo dell’acqua di colonia nella casa di campagna della nonna: un profluvio di ricordi che avvolge l’anima, uno stato di grazia che si pensava non si potesse rivivere. Analogo sentimento si prova in altre liriche ispirate al poeta dal paesaggio che fece da cornice alla sua infanzia, la campagna toscana della Versilia e della Maremma: immagini e ricordi dai quali il Carducci maturo, disilluso dalla politica e provato dal dolore (si pensi a Pianto antico, scritto nel 1871 a poco tempo dalla morte del suo figlioletto), trae forza e coraggio.

Ed ecco l’immagine rassicurante dei campi arati, che insieme alla fatica e al sudore dei contadini assume nel suo verso un che di sacro: «T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cuor m’infondi… (Il bove, 1872). Ed ecco, in Traversando la Maremma toscana (1885), «le nebbie sfumanti e il verde piano ridente ne le piogge mattutine» di quelle colline familiari la cui vista infonde pace al cuore del poeta che, già avanti negli anni, le accarezza con lo sguardo trasognato da dietro il vetro del treno che da Bologna lo porta a Roma.

E che dire della freschezza e vivacità di colori, non disgiunte da una sottile leopardiana vena di rimpianto, che caratterizza un poesia come Idillio maremmano (1872), con il ricordo della “bionda Maria”, giovane donna conosciuta veramente le cui forme giunoniche sono da sole un inno alla vita e alla fecondità? L’immagine di questa ragazza, resa dal poeta così plastica, così desiderabile, parla ai sensi prima ancora che al cuore:

«…Com’eri bella, o giovinetta, quando

tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi

un tuo serto di fiori in man recando,

alta e ridente, e sotto i cigli vivi

di selvatico fuoco lampeggiante

grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!

…»

È questo Carducci intimo e luminoso, romantico suo malgrado, che più ci attrae, al di là di quella scorza burbera di vecchio cinghiale maremmano che la sua immagine a prima vista ci trasmette. È il poeta della piccola patria dell’infanzia – la Versilia e la Maremma, come si diceva – che in lui non è mai ristretto campanile ma premessa alla patria più grande, a quell’Italia che egli amò forsennatamente.

Carducci fu uomo generoso con la vita, che pure gli riservò sofferenze, delusioni, gioie e angosce, come riserva a tutti, poeti e non poeti (si soffre tutti alla stessa maniera, chi più in alto, chi più in basso…). In lui, tuttavia, l’amore per la vita e per l’azione (fu posseduto, come si sa, dal dèmone della politica oltre che da quello della letteratura) non venne mai meno, né mai si abbandonò all’estetismo fine a sé stesso di alcuni scrittori tardo-romantici o, che è peggio, al paralizzante intimismo dei poeti decadenti.

La poesia dell’autore delle Odi Barbare (1877) fu la colonna sonora di quell’età di fine Ottocento (l’Italia “umbertina”, come suol definirsi dagli storici), un’Italia che oggi ci appare operosa e un po’ triste, pedagogica e decadente, moralista e anticlericale, e che tanta parte ebbe, tuttavia, nella formazione di una coscienza nazionale.

Poeta della vita, dunque, il Carducci, che, pur con le sue contraddizioni e le sue umane fragilità, ci commuove e ci incoraggia. Alla luce di questa vitalità va forse letto anche il suo trasformismo politico. Si sa che il futuro premio Nobel per la letteratura rivide molte delle sue giovanili posizioni: da giacobino che era stato divenne conservatore, se non reazionario; da repubblicano si fece paladino della monarchia sabauda (celebre è rimasta una sua ode alla regina Margherita, vibrante di…regale passione).

Non è dato di capire se mutò la sua visione anche sulla religione (chi può indagare tra le pieghe di un’anima?). Si sa tuttavia che in tarda età compose una commossa preghiera alla Madonna, lui che in gioventù era stato autore di un Inno a Satana (1863). Giovi ricordare che, al di là di ogni altro giudizio, ciò che ci attrae e che cerchiamo nell’arte, ciò che ci fa sobbalzare il cuore e ci rapisce, è la commozione, il calore, il sentimento che l’artista riesce a trasmetterci, quali che siano le sue convinzioni morali o il suo campo di espressione. Musica, pittura, scrittura sono timbri di un’unica voce: la poesia.

È poeta colui che fa vibrare le parole come le corde di un violino e ci fa assaporare, anche solo per pochi attimi, la bellezza di una melodia che sentiamo possedere il timbro dell’eternità. C’è sempre qualcosa di sacro nella vera poesia, che è verità sulla vita. È questo il solo criterio che ci è dato per riconoscerla. Giosuè Carducci fu e rimane poeta vero. La vera poesia, al pari della preghiera, può, in questi nostri giorni di angoscia, fungere da medicina dell’anima.

Giuseppe Lalli, com.unica 14 novembre 2020

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