Perdere la tradizione di una lingua è perdere la Tradizione di una civiltà culturale. Bisogna partire da questo presupposto per cominciare a comprendere che la lingua va abitata con tutta la sua storia, la sua identità, la sua appartenenza. La lingua italiana è l’espressione della cultura italiana. Così come ogni cultura é l’espressione di una lingua. Il percorso della lingua è un interfacciarsi con modelli di civiltà. Ormai è accertato che la lingua italiana occupa la quarta posizione tra le lingue del mondo. Un fatto non relativo e altamente positivo in un tempo in cui si cerca di recuperare anche la forma dialettale delle lingue, creando delle contaminazioni. La lingua italiana, nata da un contaminato di linguaggi, diventa un punto fermo all’interno di quei processi culturali in cui la comunicazione del linguaggio è comunicazione antropologica, sociologica, linguistica, arrivando ad occupare un’interrelazione all’interno del contesto mondiale significativo.

Ho attraversato diversi percorsi visitando molti paesi, portando la lingua italiana nel mondo dal Sud America ai Paesi balcanici e mi sono reso conto che c’è stata sempre una forte simpatia e vicinanza non solo alla lingua italiana, ma soprattutto alla cultura italiana. Ciò significa che il modello greco-latino occidentale, sul piano culturale e linguistico, non solo è conosciuto ma studiato attentamente. La storia di un popolo, di una civiltà, di una visione identitaria ha permesso di leggere tutta una realtà storica e linguistica. La realtà storica si forma sui processi culturali che, a loro volta, nascono da visioni e da interpretazioni linguistiche.

Pierfranco Bruni

La lingua è comunicazione. Attraversare una lingua significa attraversare e conoscere una cultura. La conoscenza di una lingua, o l’apparentamento nei confronti di una lingua, ci porta ad approfondire le radici di quella determinata lingua. Le radici della lingua italiana sono all’interno di un processo profondamente occidentale. La lingua italiana, al di là del dibattito sul “De vulgari eloquentia”, che ha permesso di sviluppare un percorso tra la lingua latina e la lingua volgare, ha dato il segno tangibile di come una lingua possa svilupparsi all’interno di una dimensione storica. Il dibattito sulla lingua in Italia ha sempre tracciato e lasciato dei segni indelebili, dal 1200 – 1300 fino al percorso bembiano. Il Rinascimento nasce all’interno di una civiltà delle culture, ma anche grazie al dibattito di Bembo sulla questione della centralità della lingua. Un processo che è possibile verificare anche nei secoli successivi.

La lingua barocca, che ha avuto origine all’interno del contesto lessicale semantico barocco, ha come dimensione le culture barocche che si sviluppano dal Regno di Napoli fino a tutta l’Europa e in seguito anche in Brasile. Si pensi al barocco brasiliano che parla il linguaggio che era del Regno di Napoli, fino ad arrivare al grande dibattito leopardiano sulla lingua contestualizzata nella temperie tra Leopardi e Manzoni. Dopo gli anni Sessanta, del 1900, si è verificata una vera e propria modifica dei canoni linguistici e di un vocabolario.

Dagli anni Sessanta ad oggi la lingua ha assunto precise chiavi di lettura “trasgressive”.

Quella codificata da una norma dei vocabolari che hanno assorbito i cambiamenti, anche sintattici, e le forme dialettali, oltre ad aver assorbito dettagli della lingua inglese, lingua che in molti termini ha preso il sopravvento, e che sembra aver modificato una manifestazione sintattica.

Quella correntemente parlata che, se pur in una forma corretta, ha innesti modulari rispetto a quella scritta perché ha tagli favoriti da un linguaggio piuttosto discorsivo.

Quella cosiddetta “bastarda” che è dovuta all’intreccio tra una scrittura giornalistica, televisiva, telematica con ulteriori innesti che sono distanti dalla tradizione degli anni Settanta. La lingua non è mai ideologia. Questo dovrebbe essere il presupposto fondamentale per una lingua universale.

Quella che proviene dai testi delle canzoni e che ha una sua precisa connotazione tutta particolare perché ha una contaminazione tra suoni, linguaggi, parole “distratte”. Soprattutto le nuove generazioni la usano come forma direzionale della comunicazione in un dialogare tra sintesi, insieme a quella dei codici dei telefonini che hanno creato un linguaggio a sé.

Quella portata dalla presenza delle lingue degli immigrati. Non sarebbe da sottovalutare, considerato il fatto che sono detentori di un loro linguaggio comunicante, ma sono anche depositari di una loro lingua. Non sempre il loro linguaggio comunicante, che potrebbe essere inteso come una caratterizzante formula dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi tunisini ed eritrei, è fedele alla lingua della loro Nazione. Anzi non lo è quasi mai. Usano anche loro dei “dialettismo”.

Tutti questi aspetti riguardano l’importanza di dare un senso storico alla tutela della lingua italiana. È naturale che non c’è più una lingua ufficiale tradizionale. La tradizione nelle lingue è un fatto non soltanto di consapevolezza di eredità, di ricostruzione identitaria, di analisi dei processi sia letterari sia storici stessi sia prettamente linguistici, ma si scende in una dimensione che è antropologica.

Oggi discutere di una lingua corretta significa ripristinare delle griglie che, dobbiamo però essere consapevoli di ciò, non corrispondono alla realtà dei parlanti e degli scriventi. Il parlante già di per sé, pur mantenendo fede alla consueta formula della grammatica e della sintassi, usa sempre un vocabolario innovativo. Innovare è anche, in questa fase storica del recupero della lingua, il ripescaggio di termini obsoleti, ovvero una parola usata da Tommaseo è innovativa ma anche “arcaica”.
Lo scrivente di una lingua nuova nella fedeltà alla tradizione, che dovrebbe usare la lingua come estetica e correttezza dell’ufficialità e dell’esempio, potrebbe essere lo scrittore. Dante e Manzoni sono esempi e testimonianze che rispecchiano un tempo linguistico che non c’è più. Ma è proprio la letteratura di questi ultimi anni che ha resta “meticcia” la lingua italiana.

Con Manzoni si unifica un concetto di lingua omogenea che non resterà mai tale, perché sono i dialetti che insistono. Ecco perché ho sempre sostenuto che la lingua italiana è il concentrato dei dialetti, quando il dialetto assume l’identità di una comunità. Dovrebbero essere dialetti della tradizione a contaminare sempre più e non l’anglo-americanismo, la cui koinè non è parte integrante della nostra storia.

L’attuale discussione sulla lingua italiana lascia intendere che questa realtà ha assorbito tutte le dimensioni storiche, politiche di un Occidente che è stato un Occidente Mediterraneo italiano. Quando Cristoforo Colombo va nelle Americhe si porta dietro il dialetto genovese, il dialetto ligure, il dialetto veneziano e tutto un contesto pre-rinascimentale della cultura umanistica. Quindi, dentro questo rapporto tra cultura umanistica rinascimentale, porta nelle Americhe una storia che è quella della civiltà dell’Occidente e del Mediterraneo italiano.

Bisognerebbe sempre più insistere su una visione della lingua italiana rileggendo, accanto alla lingua italiana, la cultura delle civiltà italiana. Si pensi alla letteratura. Alle grandi personalità che hanno disegnato la geografia culturale mondiale. Da Dante a Machiavelli. Da Machiavelli a D’Annunzio. Personalità che hanno parlato la lingua italiana, pur attraverso le dimensioni del dialetto, e si sono innescate all’interno di quelle realtà e Nazioni che hanno avuto la volontà, la possibilità e la capacità di approfondire una comparazione o delle contaminazioni tra culture.

Particolarità che sono parti integranti di un processo di civiltà. La cultura latina la troviamo come cesello tra mondo d’Oriente e d’Occidente. Ovidio, per esempio, è la personalità che ha disegnato una dimensione ben definita all’interno di una visone culturale. I cambiamenti delle società trasformano anche la lingua. Credo che soltanto una scuola efficiente potrebbe svolgere un compito di tutela della lingua italiana.  Bisogna ragionare su questi aspetti e promuovere sempre più la cultura italiana nel mondo. Abitandola si attraversa quel paese dell’anima che è l’infanzia della parola. Chi perde il senso della propria infanzia smarrisce le radici. Si sradica. Muore. Senza l’identità e l’eredità della lingua si diventa muti nella storia. La lingua si tutela e si valorizza attraverso la conoscenza della letteratura.

Pierfranco Bruni*, com.unica 3 febbraio 2021

*Scrittore, Presidente del Centro Studi e Ricerche Francesco Grisi

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