Dieci anni fa la scomparsa del prof. Marcello Vittorini
L’insigne urbanista e intellettuale, deceduto il 16 marzo 2011, ha lasciato all’Aquila un’eredità grande. Un ricordo di Goffredo Palmerini e un suo contributo all’indomani del terribile terremoto che sconvolse la sua città
L’AQUILA – Fra un mese, il 16 marzo prossimo, saranno 10 anni dalla scomparsa di Marcello Vittorini (L’Aquila, 31 ottobre 1927 – Roma, 16 marzo 2011), ingegnere e urbanista, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma. Immagino che L’Aquila, sua amatissima città, la Municipalità in primis e le istituzioni culturali vorranno promuovere nel corso del 2021 opportune iniziative di commemorazione, per riflettere sull’opera dell’insigne urbanista e uomo di cultura. A cominciare dall’Università dell’Aquila, che ha il privilegio di custodire il prezioso archivio del prof. Vittorini, riconosciuto di rilevante interesse storico dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, che egli stesso volle donare nel 2008. L’ateneo, con il Dipartimento Ingegneria Civile Edile Architettura, ne ha già lodevolmente curato un primo lavoro di riordino e valorizzazione sotto il sapiente coordinamento della prof. Angela Marino, il cui esito è documentato nel magnifico volume “Marcello Vittorini. Ingegnere, urbanista. Dall’uomo alla città” di Valeria Lupo (Gangemi, Roma, 2020) e in un bel documentario realizzato dall’ufficio Comunicazione dell’università.
Nel frattempo, avvicinandosi la ricorrenza del decennale, con questa modesta nota si vuole intanto richiamare del prof. Vittorini l’eccezionale ingegno, la cultura multiforme, il profondo suo amore per L’Aquila e per la storia civica, il rilevante valore professionale, la sensibilità e il garbo che lo distinguevano. Ho avuto l’onore di una lunga amicizia con il prof. Vittorini, coltivata durante i suoi ritorni di fine settimana a Paganica, dove aveva la casa dove riposarsi dai parossismi romani. Ci s’incontrava al solito orario all’edicola dei giornali, per poi andare a prenderci un caffè e conversare qualche minuto. Incontri brevi, nella semplicità e confidenzialità che egli stabiliva con tutti. Si parlava un po’ di politica ma soprattutto della città, dei problemi e delle prospettive, delle possibili soluzioni pensate con la visione strategica che gli era propria. Altre volte ci si vedeva nelle iniziative pubbliche o culturali che lo vedevano impegnato come relatore. Ma il suo vero piacere era soprattutto stare in semplicità nella sua abitazione a Paganica, con la cerchia delle antiche amicizie, suoi coetanei che si ritrovavano nei fine settimana anche per le immancabili scarpinate sul Gran Sasso. La montagna era un’altra delle sue passioni. Una volta, credo una ventina di anni fa o poco più, ci incontrammo per caso sulla Marmolada, alla stazione di arrivo della funivia che si inerpica da Malga Ciapela. Rimanemmo qualche attimo fermi per lo stupore prima di salutarci con un abbraccio. Stava con due suoi amici aquilani per una breve vacanza, mentre io vi capitai per una fugace escursione con una comitiva di alpini paganichesi, in occasione d’una visita ai fratelli alpini del Gruppo di Tarzo, cittadina trevigiana gemellata con Paganica.
Con Marcello Vittorini, l’on. Alvaro Jovannitti, Mario Calselli, Alfredo Montesanti, Marcello Bucci, Silvio Tarquini, Vincenzo Vivio e chi scrive, nel 1987 demmo vita al mensile “L’Arcobaleno”, Alvaro Jovannitti direttore responsabile. Era una piccola rivista culturale dove all’analisi dei problemi di Paganica – la più popolosa frazione dell’Aquila – seguivano proposte di riqualificazione, miglioramento dei servizi, sviluppo del territorio e della nostra montagna, oltre a riflessioni di carattere sociale. Un’avventura culturale che periodicamente ci faceva incontrare e che si protrasse per sei anni. Conobbi però più direttamente il valore professionale del prof. Vittorini quando nel 1996 l’amministrazione comunale guidata da Antonio Centi gli conferì l’incarico per un progetto di ricerca interdisciplinare da presentare alla Commissione Europea per il Programma Raphael. Il prof. Vittorini coordinò uno gruppo di lavoro con molti giovani professionisti, portando all’approdo – insieme agli insigni studiosi Orlando Antonini, Walter Capezzali, Alessandro Clementi – un imponente lavoro, poi pubblicato in tre corposi volumi “Recupero e riqualificazione dei centri storici del Comitatus Aquilanus” (Andromeda Editrice, 2001). Una puntuale ricerca sul rilevante patrimonio architettonico aquilano, in linea con il suo pensiero scientifico e politico circa il valore dei centri storici, per il prof. Vittorini una delle prelazioni di sviluppo della città e del suo antico Comitatus, operando sulla riqualificazione urbana e sul riuso, senza consumo di territorio, e sulla valorizzazione ambientale.
Ricordo bene – in quella amministrazione ero vicesindaco – l’eccellente qualità della ricerca condotta dal gruppo guidato dal prof. Vittorini. Quel pregevole studio sui centri storici della città e delle sue 64 frazioni, corredato dalla storia urbana e civile, per l’amministrazione civica era solo il prologo d’un auspicabile successivo sviluppo. Ricordo infatti che era nelle intenzioni del sindaco Centi, se confermato nelle elezioni del 1998, proseguire nel fecondo rapporto di collaborazione con il prof. Vittorini, per la valorizzazione dei centri storici e la revisione del Piano Regolatore Generale, la cui adozione risaliva al 1975. Purtroppo così non andò e la nuova amministrazione Tempesta fece altre scelte sulla pianificazione urbanistica, come pure le successive. Due anni a stretto contatto con il prof. Vittorini ci permisero di osservare con quanta passione civica e con quanto amore per la città egli impegnasse la sua preclara professionalità, con un’attitudine straordinaria nel motivare i suoi giovani collaboratori.
Seguita da vicino, quell’esperienza mi rivelò ancor più il valore professionale e umano di Marcello Vittorini. Ma il suo amore per L’Aquila l’avrebbe espresso ancor più fortemente nei tragici giorni e mesi seguiti al terremoto del 6 aprile 2009, egli sempre presente con la profondità del suo pensiero nel dibattito pubblico sulla ricostruzione. La città gli deve imperitura gratitudine. Vorrei infine completare questo ricordo con una nota di leggerezza. In una mia visita negli Stati Uniti, la più recente, di Marcello Vittorini mi parlò il grande drammaturgo aquilano Mario Fratti, che dal 1963 vive a New York. Coetaneo di Marcello – Fratti è nato a L’Aquila il 5 luglio 1927 – parlando di ricordi di gioventù Mario mi raccontò d’una sua passione per una bella ragazza aquilana, della quale si era invaghito per davvero. L’interesse verso di lei, però, era condiviso con un altro bel giovane, Marcello per l’appunto. Fratti non mi disse chi alla fine la spuntò in quella competizione, dedussi tuttavia che doveva essere stato Marcello a conquistare col suo fascino quella ragazza. Insieme a queste brevi annotazioni e ad un sintetico richiamo biografico, può essere interessante ricordare il prof. Vittorini attraverso una sua bella nota “L’Aquila, città fondata dai suoi futuri abitanti”, scritta nel luglio del 2009 a tre mesi dal sisma che devastò la città capoluogo d’Abruzzo. Espressi al prof. Vittorini il mio forte apprezzamento per quel suo articolo, uscito su una testata locale. Gli chiesi pure se ne consentisse la pubblicazione sulle agenzie internazionali e sulla stampa italiana all’estero con cui collaboravo. Me l’affidò volentieri e uscì su numerose testate, in Italia e all’estero. Qui di seguito, dopo il breve richiamo biografico, lo ripropongo ai lettori.
Marcello Vittorini nasce a L’Aquila il 31 ottobre 1927. Compie gli studi accademici all’Università di Roma e nel 1949 si laurea in Ingegneria civile edile. A partire dalla sua città natale avvia un’intensa attività professionale che si dispiega su tutto il territorio nazionale e all’estero, occupandosi di pianificazione urbana e territoriale e di progettazione, attraverso incarichi diretti, concorsi nazionali ed internazionali. Protagonista della ricostruzione postbellica, Marcello Vittorini progetta e attua un’urbanistica profondamente riformatrice dalle forti connotazioni politiche e dal notevole respiro culturale, basata sulla tutela del territorio e sul suo uso sociale. Collabora con numerosi ingegneri, architetti, urbanisti e uomini di cultura dell’epoca, come Federico Gorio – con il quale a lungo condivide lo studio -, Giovanni Astengo, Leonardo Benevolo, Giuseppe Campos Venuti, Carlo Chiarini, Edoardo Salzano, Michele Valori. A queste attività affianca quella di tecnico nella pubblica amministrazione, con diversi prestigiosi incarichi (Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, CNR ed altri), e quella di docente universitario nelle Facoltà di Architettura delle università di Venezia, Napoli e Roma. Promuove e partecipa a numerosi convegni e contribuisce all’elaborazione di alcune importanti leggi nazionali, sia in campo urbanistico che per l’edilizia pubblica. Progetta e realizza molte architetture, occupandosi in particolare di edilizia residenziale pubblica con particolare attenzione verso la prefabbricazione. A L’Aquila progetta l’Ospedale regionale “San Salvatore” e altre importanti opere di edilizia pubblica in diverse città italiane tra cui Bologna, Torino, Napoli, Roma, Potenza e Salerno. È autore di numerosi Piani urbanistici, Piani territoriali, Piani socio-sanitari, Piani Regolatori Generali e attuativi, redatti per molte regioni e importanti città italiane, tra le quali Cosenza, Catanzaro, Ravenna, Faenza, Piacenza, Trento, Bolzano, Verona, Firenze ed altre di minori dimensioni. Negli anni ’80 si occupa, per la Regione Campania, delle questioni legate alla ricostruzione post terremoto dell’Irpinia. All’estero opera in Nepal, per conto dell’Onu, in India, Brasile, San Salvador. È autore di un’ampia pubblicistica di scritti e saggi su temi di attualità e denuncia, sulle politiche del territorio e dell’energia, sulla pianificazione urbanistica. Muore a Roma il 16 marzo 2011.
L’AQUILA, CITTÀ FONDATA DAI SUOI FUTURI ABITANTI
di Marcello Vittorini
L’Aquila, 7 luglio 2009 – L’Aquila è la città del “novantanove”. Novantanove rintocchi, ogni sera, dalla campana della Torre di Palazzo. Le canzoni che parlano di 99 case, 99 piazze, 99 chiese, 99 cannelle. Una città dalla toponomastica affascinante che ricordava paesi tuttora esistenti e paesi ormai scomparsi. Qui sono nato – 82 anni orsono – e qui sono sempre tornato dalle mie continue peregrinazioni. Qui ho vissuto negli anni belli dell’infanzia e della giovinezza, nei quali il tempo è riempito da scoperte sempre più ricche ed affascinanti, che lo dilatano a dismisura e che, nel mio caso, hanno avuto per oggetto soprattutto la città ed il luogo in cui essa è collocata. L’Aquila, allora, era per me una città meravigliosa. Una città fatta di piazze più che di strade, di palazzi e di chiese più che di case, all’interno di una cinta murata ancora pressoché integra. Una città affacciata su una conca amplissima, dominata da montagne maestose che sembrava di poter toccare, soprattutto nella luce rosata del tramonto. Ed essa era per me anche città misteriosa, nelle strade e nei “vicoli” che costituiscono il suo tessuto compatto, nei cortili raffinati dei suoi palazzi, nella sapiente distribuzione delle attività e delle funzioni che, al tempo della mia infanzia, ancora manteneva i suoi caratteri originari.
Indubbiamente le peregrinazioni infinite, nella città e poi nei paesi circostanti, ad ogni ora del giorno e della notte, alla continua scoperta – e riscoperta – di piazzette, “chiassetti”, “sdruccioli”, fontane, decorazioni scultoree e pittoriche che riemergevano con prepotenza dalle successive “passate” di tinta e di intonaco, hanno determinato la scelta fondamentale della mia vita: quella di occuparmi della città e del territorio, intesi non come semplici “fatti fisici”, ma come sede delle comunità, delle loro relazioni sociali, della loro storia, della loro capacità di autogoverno. Partendo da queste curiosità ho assimilato, negli anni, la straordinaria vicenda dell’Aquila, della sua fondazione e della sua ricostruzione, mantenendo lo stesso carattere, dopo le cicliche e ripetute distruzioni per guerre e per terremoti. La fondazione era allora per lo più attribuita ad una “decisione esterna” – papale o imperiale – alla quale le popolazioni locali si sarebbero dovute necessariamente piegare. La realtà è più semplice e, nello stesso tempo, di gran lunga più affascinante: L’Aquila fu fondata dai suoi futuri cittadini, cioè dagli abitanti di un centinaio di paesi circostanti che formavano il “Comitatus Aquilanus”. Di qui il ricorrente “novantanove”.
L’ampia conca solcata dall’Aterno, delimitata dalle pendici del Gran Sasso e del Velino-Sirente, al centro della quale sorge L’Aquila, è stata percorsa fin dai tempi antichissimi da raccoglitori e cacciatori, i quali seguivano le valli incassate che prolungano la conca fino alla montagna ed allo spartiacque del Velino ad Ovest e del Vomano a Nord. In epoca pre-romana, nella conca s’insediano Sabini e Vestini, separati da uno stretto ed allungato colle, sulla sommità pianeggiante del quale, molti secoli dopo, sarà costruita L’Aquila. Qui certamente c’era un luogo di scambio, di culto, di presidio, nel quale convenivano gli abitanti dei centri distribuiti nella pianura e sulle pendici montane. Nel periodo romano, il sistema insediativo si consolida e registra un deciso sviluppo economico, con l’apertura della Via Claudia Nova e con la protezione garantita ai pastori che la percorrono, con le loro greggi. Nasce così la pastorizia transumante, che condizionerà in maniera determinante lo sviluppo della conca. I “castelli” esistenti si consolidano ed altri ne sorgono lungo la nuova strada. Con la caduta dell’Impero romano l’intero sistema – economico ed insediativo – entra in crisi. La pastorizia transumante non è più possibile. La povera agricoltura di montagna non basta ad assicurare la sopravvivenza. I castelli e i casali si spopolano.
Solo dopo molti secoli i pochi e miseri abitanti della conca cominciano a raccogliersi intorno ai monasteri benedettini dipendenti dalla Abbazia di Farfa e, successivamente, intorno alle pievi. La situazione cambia intorno al 1050, nel momento in cui, con i Normanni, che unificano tutto il Mezzogiorno, diventa possibile la ripresa della pastorizia transumante e quindi la integrazione della povera agricoltura montana con le sterminate risorse dei pascoli montani – utilizzabili solo d’estate – e di quelli delle pianure costiere, soprattutto pugliesi, utilizzabili solo d’inverno. Si innesca così un processo di sviluppo rapidissimo ed imponente. Vengono costruiti nuovi centri abitati, talvolta sul luogo dei preesistenti vici e pagi, si arricchisce il sistema dei collegamenti e si consolidano i percorsi principali della transumanza, i tratturi, che scavalcano fiumi e montagne e che sono punteggiati dai “riposi”, cioè dagli spazi in cui, ogni sera, il gregge deve fermarsi e che, in alcuni casi, diventeranno in futuro nuovi centri artigianali e commerciali, di servizio.
Durante la transumanza si sposta una complessa ed articolata organizzazione, che, lungo il viaggio, seguita a produrre ed a commercializzare i prodotti. Il pastore transumante è una figura decisamente nuova, rivoluzionaria, nel rigido mondo medievale. Egli infatti conosce il mondo ed è libero, non asservito alla gleba e al feudatario. La sua vita è fatta di rinunce e sacrifici, ma l’abitudine alla meditazione ed alla contemplazione lo rende particolarmente sensibile alla bellezza in tutte le sue manifestazioni. Può portare con sé solo l’essenziale, ma il bastone al quale si appoggia e lo sgabello che usa per mungere le pecore sono finemente intagliati e la scodella in cui consuma il suo pasto è di ceramica artisticamente decorata. Inoltre, a conclusione della lunga, forzata, lontananza egli riporta – alla casa, al paese, alla sua donna – le conoscenze raccolte, i merletti più fini ed i gioielli più ricchi, i cui “modelli figurativi” sono gli stessi di quelli dei rosoni e dei portali delle chiese. Così la struttura culturale ed economica della conca si evolve e nasce la necessità di più efficaci sistemi di organizzazione commerciale, di governo, di rappresentanza collettiva.
Nasce, in una parola, il bisogno di città e gli abitanti dei centri della conca decidono, collettivamente, nella prima metà del XIII secolo, di fondare L’Aquila, sulla collina che separa la parte vestina da quella sabina, nell’antico luogo di culto, di scambio, di presidio, che forse coincideva con quello della successiva Piazza Grande. Ovviamente, la fondazione della nuova città deve essere approvata da una superiore autorità, cioè dal Papa o dall’Imperatore. Tanto più che gli abitanti dei centri fondatori hanno idee molto chiare ed avanzano pretese che, all’epoca, appaiono addirittura eversive. Essi, infatti, pretendono di avere la “doppia cittadinanza” – quella del paese originario e quella della nuova città – pagando le tasse – il focatico – una volta sola e pretendono di assicurare alla città la rappresentanza dei castelli e casali fondatori, nonché l’uso collettivo, libero ed esclusivo dei pascoli sterminati delle montagne.
Un primo assenso viene concesso, dietro pagamento di un congruo compenso, dal Papa Gregorio IX nel 1229 ed uno successivo dall’Imperatore Corrado IV, con un diploma del 1254, quattro anni dopo la morte di Federico II. Su queste basi gli abitanti dei centri fondatori avviano la costruzione della nuova città. Ma le opere realizzate vengono distrutte, nel 1259, da Manfredi che intende così punire gli aquilani per l’aiuto da essi portato a Carlo d’Angiò. Nel 1266 la città viene rifondata dallo stesso Carlo d’Angiò, secondo gli indirizzi culturali maturati nei monasteri benedettini e cistercensi. La città è cinta da mura che hanno 86 torrioni e 12 porte e lo spazio da esse delimitato (ben 167 ettari) è diviso “in croce”, cioè in quattro “quarti”, articolati in 54 “locali“: spazi destinati all’insediamento degli abitanti provenienti dai centri fondatori, dimensionati secondo la loro consistenza demografica. Secondo gli “Statuti” della nuova città, gli abitanti possono insediarsi “uti singuli” nei locali, solo dopo aver realizzato collettivamente, “uti socii“, la piazza, la chiesa, la fontana. Cioè, all’epoca, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Tuttavia i rapporti della nuova città con Carlo d’Angiò non sono buoni perché gli aquilani hanno scacciato i feudatari fedeli all’Imperatore che ne condizionavano la crescita ed hanno disobbedito all’ordine di reintegrarli nei loro feudi.
Questo conflitto viene superato con il determinante contributo di Celestino V, il Papa eremita che decide di essere incoronato all’Aquila città a lui “più cara fra tucte le terre“, nella basilica di Collemaggio, da lui fondata 20 anni prima. Celestino entra all’Aquila il 27 luglio 1294, su un’asina bianca, tenuta per le briglie dall’Imperatore e da suo figlio Carlo Martello, re d’Ungheria. L’Aquila si presenta ai visitatori esterni come una grande “città pianificata”, come la “capitale” di un territorio vasto e ben organizzato in fase di grande sviluppo. Per i dignitari della Curia papale il confronto con la Roma di allora appare evidente. La “capitale del mondo” è ridotta a pochi nuclei edificati, circondati dalle magnifiche rovine di un passato imperiale, concentrati lungo le rive del Tevere, ormai scavalcato solo da Ponte Milvio, da Ponte S. Angelo e dagli antichi ponti Cestio e Fabricio. Il debole, informe, organismo urbano è dominato dalle residenze fortificate dei patrizi, continuamente in lotta fra loro per il dominio della città e del papato, all’interno della ormai lontanissima cerchia delle mura Aureliane, isolata nel deserto della campagna romana. Nonostante gli interventi di nuova edificazione e di abbellimento realizzati dagli ultimi Pontefici, Roma mostra con tutta evidenza la urgente, assoluta necessità di un “piano” adeguato. Ma per averlo dovrà aspettare Sisto IV e Sisto V.
Il corteo papale aveva risalito la valle dell’Aterno, seguendo la vecchia strada intagliata nella roccia delle Gole di S. Venanzio, con due soste una a Castelvecchio Subequo (nel convento Francescano) e l’altra, presumibilmente ad Acciano, dove l’ordine dei benedettini di S. Spirito aveva la Chiesa di S. Corinzio. In queste occasioni Pietro aveva operato due miracoli: quello dell’asinello (sulla cui sella era stato collocato un bimbo paralitico, che risanato, camminò) e quello del malato di “mal caduco”, certo Dorricello di Gordiano. Lungo tutto il percorso le popolazioni dei centri vicini accorrevano a vedere il monaco divenuto Papa, per implorare benedizione, perdono, miracoli. Pietro da Morrone aveva accolto la notizia della sua elezione con ansia e perplessità – cum tremore et timore divino – ma avvicinandosi all’Aquila, città che, come detto prima, amava più … fra tucte le terre – ed alla sua basilica di Collemaggio, scelta per l’incoronazione, ritrovava serenità e fiducia. Forse ricordava la notte passata in preghiera sul Colle circa 20 anni prima, la visione della Madonna che gli chiedeva di costruire in quel luogo una chiesa ad essa dedicata e la successiva costruzione della basilica che aveva impegnato per tanti anni i suoi monaci di Santo Spirito a Maiella e la popolazione della nuova città. Ormai la basilica, anche se non definitivamente ultimata, era pronta ad accogliere il suo fondatore. Ed era pronta ad accoglierlo la nuova città con tutti i suoi castelli. Infatti L’Aquila era in quei giorni un gigantesco cantiere: le mura, iniziate da Lucchesino da Firenze, capitano della città nel 1272 e poi ultimate dal “cavalero del popolo” Nicolò dell’Isola, sono in larga misura erette e il piano della città è sostanzialmente definito, con l’attribuzione ai Castelli fondatori dei Locali e dei Quarti.
Il Papa viene solennemente incoronato il 29 agosto 1294, alla presenza di una folla sterminata, alla quale partecipa la città, 30 anni dopo la sua rifondazione angioina. Il cardinale Stefaneschi, che guida la delegazione inviata dalla Curia di Roma, la definisce “non plenam civibus urbem sed spatiis certis signatam ob spemque futuram“. Il suo impianto forte e regolare è infatti chiaramente leggibile non solo nel disegno ippodameo della maglia stradale, ma anche nei limiti e nel sistema di piazze che rappresenta efficacemente i rapporti della nuova città con i centri fondatori. Infatti la costruzione della nuova città, seguendo le regole fissate dagli Statuti, è cominciata dalla costruzione della Chiesa e della Fontana, per poi passare alla edificazione delle case degli abitanti. Alla cerimonia di incoronazione partecipano circa 200 mila persone convenute da ogni dove (… fuerunt in sua coronatione ducentum milia et ego interfui). Nello stesso giorno il Papa concede alla Basilica di Collemaggio la Perdonanza, con la bolla dell’Indulgenza – con una cerimonia che da allora si ripete ogni anno – e circa un mese dopo, il 28 settembre 1294, Carlo II d’Angiò con la Concessio Castrorum et Casalium, ratifica la nascita della città e del Comitatus aquilanus.
Come già accennato, il disegno della città ha un carattere ben definito e non è riconducibile all’impianto cardo-decumanico di derivazione romana. Esso è tutto impostato sulla centrale, dominante, Piazza Grande, della Cattedrale e del Mercato, ed è caratterizzato da un tessuto ortogonale, minuto, che garantisce una grande “permeabilità” ed una grande libertà di spostamento. Il “sistema dei luoghi centrali” è costituito, sul culmine pianeggiante del colle, dalla Piazza Grande, che occupa ben 12 isolati (e che anticipa di oltre 3 secoli dimensioni e caratteri delle piazze barocche) e dalla Piazza Palazzo, su cui si affaccia il Municipio. Le due piazze sono collegate da quattro strade che accolgono attività artigianali e di servizio, lambite dalle strade di penetrazione dalle porte principali. Nel tessuto urbano è mantenuto il tracciato curvilineo della antica via di salita al colle da Oriente, in corrispondenza del quale è collocata la Porta Bazzano. Il piano dell’Aquila è schematicamente ma efficacemente riportato dalla pianta schematica eseguita da Pico Fonticulano nel 1575. Questo impianto, urbano-territoriale resiste nei secoli, fino all’ultimo dopoguerra. La città, dopo aver resistito vittoriosamente per 10 anni a Braccio da Montone, viene conquistata da Carlo V, che la punisce con grandi distruzioni e con l’obbligo di finanziare la costruzione del Castello – mirabile esempio di architettura militare – destinato “ad reprimendam audaciam aquilanorum“.
Tuttavia anche la realizzazione del nuovo castello e la costruzione di nuove, meravigliose, opere di architettura, si collocano coerentemente nel disegno urbano originario. Il quale sopravvive anche alle distruzioni provocate dal disastroso terremoto del 1703 – che ridusse la popolazione della città a soli 2000 abitanti. Infatti la ricostruzione è rapida ed altamente qualificata. Anche le trasformazioni ottocentesche, che adeguano la città alle nuove esigenze sociali ed economiche della “città borghese” rispettano la coerenza dell’impianto urbano, realizzando un nuovo “sistema dei luoghi centrali”, con il corso porticato che collega direttamente la Piazza Grande e la Piazza Palazzo, rafforzandone immagine e funzioni. Nell’ultimo dopoguerra, a partire dagli anni ’70 l’espansione urbana dilaga fuori dalle mura, in maniera casuale e disordinata, senza tener alcun conto dello straordinario, plurisecolare, insegnamento condensato nella città storica e nei centri minori del “Comitatus aquilanus“. Un insegnamento che sarà comunque indispensabile e prezioso, nel momento in cui si deciderà di porre mano alla faticosa – e necessariamente lunga – opera di recupero e di ricostruzione del centro storico e di riqualificazione della degradata periferia recente, dopo il terremoto disastroso del 6 aprile 2009.