Draghi, che ora ci stupisca con la sua competenza!
“Cumannari è megghiu ca futtiri” ovvero, e chiedo venia per la mia frequente dialettofilia, “Comandare è meglio che fottere”, recita un proverbio siciliano. Esso significa che i poveri, cui è precluso comandare, possono solo fottere (nell’accezione più restrittiva e cioè congiungersi nel rapporto sessuale), mentre i ricchi, detentori del potere, comandano e fottono a piacimento (nell’accezione più ampia).
Sarà questa la causa primaria che ha sempre spinto e tuttora spinge l’essere umano a fare parte dell’élite che comanda? Non ci è dato saperlo, ma – tranne rare eccezioni – possiamo dedurre che lo stimolo della lotta per il potere sia: la frenesia di comandare e di prevalere sull´avversario. E lotte di potere accadono da che mondo è mondo, quotidianamente e in ogni dove.
A tal uopo ci piace ricordare il pensiero del sociologo tedesco Max Weber: “Il potere è la capacità di esercitare la propria volontà sugli altri” e il desiderio di dominio provoca brama di potere ovvero un sentimento insito nel recondito della mente che ha sempre affascinato l’essere umano. Inoltre, anche lo scrittore e filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson ci precisa che la vita è una continua ricerca del potere. Non c’è che dire, viviamo in un mondo splendido in cui, ahinoi, regnano prevalentemente il desiderio e l’arroganza del potere!
Non a caso, infatti, noi assistiamo quotidianamente a varie lotte di potere. Di recente, per fare un esempio nostrano, tra le tante pietose scaramucce politiche, si è svolta la “tenzone” Conte-Renzi, vinta ancora una volta dall’esperto cavaliere fiorentino; secondo il Sole 24 ore, Renzi aveva già battuto Conte 7-1 nella gara dei redditi, anno 2019!
Conte, in sostanza, è stato il perdente, ma la partita è persa solo quando si desiste di giocare, perciò non è detto che il prof non ritorni sulla scena per tentare una rivincita con nuove sfide per riprendersi il potere, magari partendo come candidato del Centrosinistra in quel di Siena o fondando un nuovo partito o, infine, escogitando qualche inedito marchingegno.
Ma per intanto tutto indica che il fu avvocato del popolo ritornerà all’insegnamento. “Un c’è più legno per fa’ Cristi, bisogna tornà a’ santi vecchi“. È quanto recita un antico adagio lucchese, che ben si adatta al presente caso. Nondimeno, attenzione, il potere vizia e il vizio del potere può riservare brutte sorprese, come ben ci rammenta l’omonimo film di Jason Reitman (The Front Runner – il vizio del potere, anno 2018).
A questo punto, comunque, si potrebbe tranquillamente dedurre che il potere vizi ma non logori e tale affermazione sarebbe avvalorata dal fatto che Conte, da presidente, non si sia affatto logorato. Tutt’altro, egli è apparso tenace, instancabile e dal sorriso smagliante anche al momento dell’uscita di scena, ovvero allorché i commessi di palazzo Chigi gli hanno tributato il rituale saluto di commiato con un prolungato applauso e, a detta di qualche faziosa commentatrice, in standing ovation (tutti in piedi). Le malelingue, che in queste circostanze non mancano mai, hanno cinguettano che si sarebbe trattato non di affetto, ma di un gesto di riconoscenza per l’aumento dei salari (parrebbe 270 euro) erogato ai funzionari e che dalle finestre i commessi plaudenti potevano affacciarsi solo stando in piedi e non di certo in poltrona.
Comunque sia, come in un testo teatrale, tra sorrisi e ringraziamenti, ci è parso che le battute finali di Conte abbiano voluto significare: non è un addio, è solo un congedo! Beh, pettegolezzi e considerazioni a parte, dobbiamo ammettere che rimane sempre valido il principio di andreottiana memoria che recita: «Il potere logora chi non ce l’ha». E se Conte dopo 527 giorni nella bolgia dei propri governi e nel caos delle “decretali” (numeri mai visti prima tra decreti, ordinanze e provvedimenti) se ne è uscito pimpante più che mai, non può che confermare la regola.
Ciò stante, parafrasando un vecchio slogan potremmo dunque esclamare: “Contro il logorio della vita moderna, tutti al governo”. E questa, guarda caso, è stata l’esortazione alla responsabilità collettiva che, in altre parole, ha lanciato il presidente Mattarella a tutti i partiti per porre fine all’impasse politica provocata dall’intricato governo Conte.
Bell’e fatto: eccetto Fratelli d’Italia, di corsa a rotta di collo, tutti al governo! Ma, formato questo, chiamiamolo così, nuovo governo, si è proprio sicuri che esso sia il governo dei migliori (personaggi supercompetenti e non mediocratici) così come auspicato dal capo dello Stato?
Oltre a ciò, le premesse facevano presagire una cesura col passato e così purtroppo non è stato. Delusione? Sì tanta, ma essa va affrontata senza perdere la speranza infinita, per come ci ricorda Martin Luther King. Di solito non è buona la minestra riscaldata, è vero, ma non tanto per ottimismo quanto per pura speranza non perdiamoci d’animo: ci sono rare eccezioni nelle quali un ottimo chef, aggiungendo un po’ di “essenze speciali”, può trasformare la minestra avanzata, l’unica sotto mano, in una prelibatezza insuperabile. Chissà, mai dire mai!
In altre parole è cambiato il direttore, ma l’orchestra, salvo pochi elementi, è sostanzialmente la stessa; la famiglia degli ottoni la fa ancora da padrone. Speriamo che cambi almeno la musica! Siamo nelle mani del migliore direttore, Mario Draghi e se, per come ci auguriamo, i ministeri chiave saranno “solfeggiati” dall’autorevole duetto Draghi-Mattarella, tranquilli, la musica cambierà e, perché no, potremo magari ascoltare il finale della Nona sinfonia e non il Requiem di Mozart, come i più pessimisti, che a questo governo non ci credono, paventano.
Draghi, basta il nome? Non è uno slogan, ma ai mercati e al consesso internazionale sembra di sì. Animo! Siamo alla prova del nove. Che il “demiurgo” ci stupisca adesso con la sua competenza e con l’autorevolezza che il mondo ci invidia!
Corre voce che i direttori d’orchestra si dividano in tre categorie: quelli che lasciano suonare, quelli che fanno suonare e quelli che impediscono di suonare. Tifiamo per la seconda opzione e… chi vivrà vedrà! L’albero si giudica dai frutti, dice il Vangelo.
Giuseppe Arnò*, com.unica/La Gazzetta Italo brasiliana 1 marzo 2021
*Direttore La Gazzetta italo brasiliana