Noi contemporanei siamo tristi: tristi e inquieti. Ce ne accorgiamo quando ci guardiamo in faccia, per strada, nei supermercati, nelle piazze. Guardiamo distrattamente o con sospetto: non vogliano comprometterci, non vogliano uscire dal nostro guscio. E non ridiamo quasi mai: muoviamo solo la bocca e facciamo vedere i denti, o scoppiamo in risate più o meno sgangherate. Quando ci incontriamo e ci parliamo, ci diciamo lo stretto necessario, o ripetiamo frasi banali sul tempo e sulla salute (Come va? Non c’è male…; Che si fa? La solita…).

I rapporti sociali sono rarefatti, sembra di recitare in una sorta di “teatro dell’assurdo”: passiamo vicini ma non ci tocchiamo mai, e quando ci rivediamo dopo un po’ di tempo ci salutiamo senza dirci niente, e quasi non vediamo l’ora di lasciarci per tornare ad accompagnarci alla nostra solitudine. La pandemia che ci assilla da circa due anni sembra solo il corrispettivo biologico di una malattia dell’anima più antica. I discorsi profondi sembra che non ci interessino. Preferiamo – per ripetere un vecchio adagio – concentrarci sul dito del bambino che guarda la luna anziché ammirare la luna. Abbiamo perso anche la capacità di stupirci.

Confessiamolo a noi stessi: siamo tristi e annoiati, nonostante gli schermi televisivi e i nuovi mezzi di comunicazione di massa ci trasmettano notte e giorno l’immagine di una festa continua, un carnevale senza fine. Eppure, tra le pause della festa, o quando ci togliamo la maschera, un’idea assillante, un dubbio fastidioso sembra farsi strada con maggiore o minore consapevolezza nelle menti: questa inquietudine è forse il risultato imprevisto di una libertà senza limiti, di un progresso senza senso e misura, e che rischia di distruggere il pianeta stesso sul quale camminiamo?

Un’inconfessabile idea di assurdità della vita sembra aver penetrato le nostre coscienze, soprattutto in questo nostro mondo occidentale e in modo particolare in questa nostra Europa, dove le vere povertà, a dispetto di una certa retorica sociale, sono tutte spirituali ed esistenziali: un deserto dei valori dove la speranza non sembra più essere di casa, mentre le certezze dei nostri avi ci hanno abbandonato. La fragorosa caduta delle ideologie politiche, invece che liberarci dalle lenti deformanti con le quali guardavamo la realtà sociale, ha reso solo più evidente il vuoto delle nostre anime.

Questo disorientamento dello spirito è trasversale, non risparmia nessuno strato sociale o categoria, colpisce i giovani e i vecchi, riguarda il “pubblico” e il “privato”, in tutti i sensi, istituzionale e personale. E’ come se un fumo avesse invaso tutte le stanze di un immenso palazzo, dai piani alti alle cantine. Ne facciamo esperienza tutti i giorni, nei luoghi di lavoro, a scuola, e persino in famiglia. Già…ma quale famiglia?

I filosofi che vanno in televisione, pur con qualche eccezione, parlano poco di questa condizione e di questo disagio. Preferiscono parlare d’altro, di politica e di costume, non sanno annusare i segni dei tempi e i loro discorsi quasi mai toccano le anime di chi li ascolta, o le toccano solo di sfuggita. Martin Heidegger, Albert Camus, Jean Paul Sartre, nel secolo scorso, avevano intravisto questi gelidi e desolanti panorami che si schiudevano all’umanità, ma non avevano avuto il coraggio e la lucidità di spingersi fino in fondo nei loro pensieri.

Oggi constatiamo che un umanesimo senza Dio non può avere futuro, e ne scontiamo i tristi esiti. Fino agli inizi del secolo scorso poteva venire in soccorso l’idea di progresso: quello che non riusciamo a spiegarci oggi lo sapremo domani, e anche alla morte, prima i poi, ci sarà rimedio. Mia nonna mi disse una sera accanto al focolare: “Lo sai Peppino? Gli scienziati hanno detto che tra molti anni non moriremo più: io sicuramente no, ma forse tu te lo ricorderai”.

I totalitarismi del Novecento, chi più chi meno, con diverso linguaggio ma con pari illusionismo, avevano sostituito i canti e simboli della speranza cristiana con i soli dell’avvenire o con i deliri della razza. Avevano tutti promesso un paradiso in terra: hanno regalato solo un rispettabile inferno. Un baffuto filosofo tedesco di nome Friederich Nietzsche, sul finire dell’Ottocento, il secolo dell’ottimismo scientista, aveva annunciato che Dio era finalmente morto e che saremmo stati ciascuno Dio per l’altro. Un Natale alla rovescia: mai annuncio fu più tragicamente profetico (“Sarò capito solo nel XXI secolo!”, aveva vaticinato il pensatore nella sua lucida follia).

Friederich Nietzsche

Dopo tanto blaterare di giustizia e di solidarietà, facciamo esperienza, spesso sulla nostra pelle, ogni giorno, di una verità elementare, vale a dire che non basta cambiare le istituzioni per cambiare l’uomo, con buona pace di Jean-Jacques Rousseau, di Karl Marx e di tutti gli ingegneri sociali degli ultimi duecento anni. Sentiamo, per poco che ci fermiamo e riflettere, che è necessario un cambiamento interiore, anche solo per migliorare la vita quotidiana di relazione. Assurdo o mistero sono da sempre i due poli tra i quali oscilla il pensiero dell’uomo che s’interroga sul suo destino. L’esistenza ha un senso, o – come si chiedeva già un inquieto Blaise Pascal all’inizio della modernità – è solo un casuale e non richiesto bagliore tra due eternità di buio? Un essere tra due nulla?

Karl Marx

Bisogna scegliere tra questi due estremi, altra scelta non ci è data. Chi non sceglie si fa scegliere dalla vita stessa. Ma l’assurdo, per poco che si rifletta, ci appare un buco nero senza fine: una cosa assurda, per l’appunto. La ragionevolezza, vale a dire una ragione che non si chiude alle ragioni del cuore, ci spinge a scommettere sul mistero.

Il Natale ci può aiutare a riflettere. Rappresenta un grande mistero: il mistero dell’Incarnazione. I cristiani, da sempre seguaci del Mistero (quello con la ‘m’ maiuscola), sanno che la storia la guida Dio, ma a suo modo, alla maniera di un Dio che è stato disposto a percorrere un’infinita distanza per assumere le sembianze di un uomo, per rinchiudersi dentro i limiti di un essere da lui stesso creato. Esiste mistero più grande? Il Dio della tradizione ebraico-cristiana si fa presente al momento giusto, e sempre per un fine di felicità, ma, a differenza dei demagoghi, promette tempi lunghi e chiede la collaborazione dell’uomo affinché lo riconosca: è un Dio che si nasconde, e che preferisce i piccoli e i semplici. E così un pastorello gracile viene scelto come re d’Israele e il messia atteso nasce in una stalla, visitato dai pastori, gli ultimi della società, i reietti, a cui gli angeli annunciano la grande notizia.

Bisogna scegliere, oggi più che mai: scegliere il mistero con tutto ciò che esso implica e respingere l’assurdo che ci viene propinato dai tanti profeti del Nulla che affollano la scena della comunicazione. Chi mai, solo fino a venti anni fa, avrebbe potuto immaginare che all’interno di una primaria istituzione pubblica europea si potesse anche solo ipotizzare di invitare i cittadini del continente ad evitare di scrivere termini quali ‘Natale’ e ‘Maria’? E tutto in nome di uno spirito di tolleranza che, a ben riflettere è figlio di quel pensiero liberale che affonda nel Vangelo la sua radice più profonda.

E tuttavia perché meravigliarsi? Non abbiamo forse appreso dalle pagine più oscure della storia europea del secolo scorso che ogni totalitarismo, ogni dittatura dello spirito, comincia col sopprimere alcune parole e sostituirle con altre? E non abbiamo letto, in altre pagine, che il “principe di questo mondo” si diverte a dividere le coscienze e mescola subdolamente le lingue per impedire che le persone comunichino tra di loro? Sono le radici cristiane del nostro continente, con tutto ciò che ne consegue, la vera posta in gioco.

Volendo parafrasare – beninteso, solo parafrasare – Marx, si potrebbe dire che uno spettro si aggira da tempo in Europa, lo spettro del relativismo etico, l’idea cioè che non esistono valori morali assoluti: tutto è relativo, tutto è legato alla particolare situazione che si vive. È il risultato ultimo di una ragione che ha preteso di fare a meno del mistero. Ma quella giovane donna che più di duemila anni, costretta da un editto dell’imperatore ad intraprendere un lungo e faticoso viaggio, partorì in una stalla di Betlemme perché per lei e il bambino che portava in grembo non c’era posto nell’albergo, ha scelto fin dall’inizio il mistero; e subito dopo nel mondo è venuta la luce. Rimane questo, oggi più che mai, il senso più autentico e profondo del mistero del Natale.

Giuseppe Lalli, com.unica 22 dicembre 2021

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