Secondo i dettami costituzionali, i partiti politici sono gli strumenti con cui il popolo, nelle vigenti espressioni di democrazia rappresentativa, può esercitare la propria sovranità attraverso i procedimenti elettorali. A nostro modo di vedere, i partiti politici, di questi tempi, sono paragonabili ai club calcistici: grandi, solo se chi li rappresenta è grande! Va da sé che il buon politico è come un buon calciatore, che, indipendentemente dal club nelle cui fila milita, è apprezzato per quello che sa realizzare.

L’ideologia, questa sconosciuta

Considerazioni a parte, va però evidenziato che gli schieramenti politici, la cui funzione dovrebbe essere quella di esercitare, seguendo una propria ideologia, un’influenza sulla determinazione dell’indirizzo politico del Paese, da gran tempo in qua, sono in crisi profonda. E la causa di tutto ciò sta, principalmente, nella malapolitica, sempre più a caccia di acclamazioni e di tornaconto personale che di ideali. In altre parole, l’ideologia è andata in malora, ragion per cui i cittadini si sono giustamente allontanati dalla politica tristemente snaturata e mercificata: l’astensionismo al secondo turno delle ultime amministrative in Italia ha interessato più del 50% degli aventi diritto, mentre alle ultime elezioni politiche ha raggiunto il record: 63,91%, l’affluenza più bassa di sempre.

E non dimentichiamo la desolante telenovela, di fresca data, riguardante l’elezione del Presidente della Repubblica, effetto del totale e definitivo sfascio dell’immagine dei partiti, che vieppiù annaspano nei discorsi fallaci e negli insulti personali, senza rendersi conto che ormai vaneggiano nel nulla. Di certo non si sbagliava Norberto Bobbio allorché asseriva:«destra e sinistra non sono parole che designano contenuti fissati per sempre. Possono mutare secondo i tempi e le situazioni».

Il cittadino apolitico

Ecco appunto che – ahinoi! – con l´attuale “liquidità” dei partiti e con l´ideologia ridotta a logica di comodo, stiamo assistendo a una fase, potremmo dire, di recessione democratica, ovverosia alla totale disaffezione dei cittadini nei confronti delle Istituzioni. Disaffezione e disincanto che nascono dalla contezza della gravità dei problemi che ci affliggono e dalla certezza, tra aspettative e ripetute frustrazioni, che la politica non è in grado di risolvere un bel niente. Sorge così la figura del “cittadino apolitico”, un ossimoro a pieno titolo, dal momento che il concetto di cittadinanza è sempre stato, da Aristotele in avanti, indissolubilmente associato alle istituzioni politiche di una società.

D’altro canto, se è vero che la capacità dei politici e la bontà delle loro realizzazioni dovrebbero garantire ai cittadini l’amministrazione di un buon governo e se è pur vero che, allo stato delle cose, di un siffatto paradigma si è purtroppo persa ogni traccia, cosa si può pretendere? Diamine, c’è poco da stare allegri!

Un esempio calzante: per quanto concerne le criticità esistenti nel campo dell’economia, della giustizia, della sanità, dell’istruzione, tanto per citare le principali, chi si fa paladino per contrastare il carovita; per velocizzare i processi giudiziari; per ammodernare la sanità; per migliorare l’indice di scolarizzazione; e per premiare i valenti «Servitori dello Stato», quelli in grado di oscurare lo stereotipo «Italia, Paese di qualunquisti e sfaccendati» e di sostituirlo con quello di «Italia, Paese di gente laboriosa e impegnata»? Ecco, nessuno: sempre tante belle chiacchiere, leggere e friabili come quelle di Carnevale, ma in fin dei conti siamo di nuovo alle solite!

Oggidì si fa politica per mestiere: ovvero «la politica resterà il mestiere di chi non ha mestiere», come denunziò Max Weber ne “La politica come professione”. Inoltre, si fa politica per accumulare potere; per ambizione; per acquisire uno status e non per servire. Ma, purtroppo, il “mestiere” del politico, che non anela a garantire l’unione, il buon ordine della collettività, cioè l´eunomia e la pace sociale, è la degenerazione aristotelica della politéia (in lat. Respublica).

Il funerale dei partiti

Una cosa è certa, il mondo in cui viviamo è in continua evoluzione e, politicamente parlando, ai nostri giorni, ci ritroviamo nell’era dei partiti personali, ovverosia è il leader che personifica e dà il brand al partito. Berlusconi in testa e successivamente Renzi, Grillo, Conte, Letta e Salvini sono la dimostrazione di tale affermazione. Il partito politico in sé, quello nato nel lontano 1832 in Inghilterra con il Reform Act e poi trasformatosi in quello da noi conosciuto dalla seconda metà del secolo XIX in poi, è morto da tempo.

Ormai non viene più proposta una visione di società da parte degli attuali pseudo-partiti, ma soltanto l’immagine del leader, attraverso gli schermi televisivi, le testate giornalistiche e ogni altro mezzo di comunicazione di massa. Viviamo una forma di degenerazione centripeta di democrazia contemporanea: ultimo esempio il civil servant Mario Draghi (leader indipendente da partiti anche se non apolitico).

“Popolo” e “massa”: due diverse realtà

L’elettorato, stanco e deluso da questo nuovo abito di politica ‘teatrale’, nascosto sotto il manto dell’ipocrisia, nelle recenti elezioni ha infine rotto col passato: il popolo ha votato per le valide proposte di Fratelli d´Italia; per soggetti differenti che hanno dimostrato nel tempo coerenza, avversione alla plutonomia e spirito di armonizzazione programmatica con il loro grande leader Giorgia Meloni: un leader (piuttosto che una leader, usando il linguaggio canonico meloniano) intransigente, ma nello stesso tempo democratico e ispirativo; un leader che non ha bisogno di imporsi per ottenere intesa e motivazione; un leader che ha nel patriottismo, e non nel sovranismo, come vorrebbe la critica malevola, la sua radice valoriale; un leader, infine, per tutte le ore, nell’accezione originale del termine «omnium horarum homo», prendendo in prestito l´espressione che Erasmo da Rotterdam aveva coniato per il suo amico personale, Tommaso Moro.

E forse, non a caso, il New York Times inserisce Giorgia Meloni tra i 20 personaggi mondiali emergenti che «potrebbero disegnare il futuro» e il Financial Times le predice un lusinghiero avvenire da premier. La massa, per converso, ha votato per i vecchi schemi, per il mantenimento del reddito di cittadinanza e dell’assistenzialismo. Sul distinguo tra popolo e massa, afferma Pio XII nel suo Radiomessaggio natalizio del 1944 (4): «Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, …aspetta l’impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl’istinti o le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell’altra bandiera».

Ciò posto, ecco che il momento a lungo atteso è alla fine arrivato! Il popolo ha vinto: vince il cambiamento contro il conservatorismo. Un conservatorismo inteso, per puro interesse personale, come atteggiamento soggettivo di ostilità verso il cambiamento e non di certo secondo il concetto sviluppato da Edmund Burke. E poi, va ricordato che un voto di fiducia a un governo credibile, capace di percorrere il sentiero tracciato da Draghi e di procedere fermamente oltre, veniva invocato dalla grave situazione in cui versano il Paese e il consorzio umano.

Scelta elettorale giusta? Necessaria, a parer nostro: siamo riusciti a prendere l’ultimo tram con un tranviere d’eccellenza, Giorgia Meloni. Ella fa storia: è la prima donna presidente del Consiglio e ci auguriamo faccia storia anche per il buon governo che saprà darci. Dopo il demiurgo Draghi, la predestinata Meloni: un governo politico che succede a un governo guidato da un tecnico. E l’opposizione? Che dire… ecco… quella è allo sbando: inizia adesso la grande stagione dei veleni! Fa d’uopo, a questo punto, un detto dello scrittore statunitense Stephen Edwin King: «Quelli che possono, fanno; quelli che non possono criticano le decisioni di quelli che possono».

«O Giorgia o morte»

Probabilmente Garibaldi buonanima, da Marsala, per come siamo combinati, oggi avrebbe esclamato «O Giorgia o morte». E sì: o riusciamo a superare le gravi crisi che ci attanagliano, attraverso le buone politiche di un governo «forte e coeso, autorevole, di persone competenti, di alto profilo», sperando che gli altri governi facciano pure la loro parte o, tra gli anni 2040 e 2050, secondo l’attendibile Rapporto Interagenziale delle Nazioni Unite “United in Science”, assisteremo alla fine della nostra civiltà. Una scelta tra la vita e la morte, dunque? Beh, diremmo di sì e, parafrasando Coelho, siamo certi che la consapevolezza della morte ci incoraggi a vivere.

Giuseppe Arnò*, com.unica 31 ottobre 2022

*direttore La Gazzetta italo brasiliana

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