Difficile intesa sulle riforme. È necessario evitare sia le paure che le ipocrisie
Il confronto sul tema delle riforme di qualche settimana fa, com’era prevedibile, è partito male, è successo altre volte, anzi, ogni qualvolta il tema costituzionale, presenzialismo, premierato, elezione diretta del premier è stato riproposto dal governo di turno.
Si ha l’impressione che le forze politiche usino il tema costituzionale per pura propaganda, per rabbonire un’opinione pubblica poco interessata al problema, perché sempre più divisa e disorientata. Come dimostra la sempre più scarsa affluenza alle urne in caso di voto.
Non si va oltre l’enunciazione del problema senza dare o almeno ricercare una soluzione; ci si limita a dire che si tratta di mettere fine alla endemica instabilità dei governi, vera piaga della nostra Repubblica fin dalla sua nascita.
Le uniche due rilevanti riforme costituzionali che finora ci sono state, quella del titolo Quinto e quella della riduzione del numero dei parlamentari, sono passate senza grosse resistenze, ma solo perché gradite alla maggior parte delle forze politiche in quanto portavano ad un ulteriore indebolimento sia del governo che del Parlamento , già di per sé deboli.
Altrettanto dicasi del tentativo di riforma voluto da Renzi e bocciato dal referendum del 2016 che, non prevedeva l’elezione diretta del presidente della Repubblica o del premier ma, il superamento del bicameralismo simmetrico, due camere con uguali poteri e del titolo Quinto.
Il governo ne sarebbe uscito rafforzato ma, il progetto renziano era destinato a fallire, come in effetti fu, per l’opposizione di un gran numero di forze politiche, eterogenee nella loro natura, ma timorose di perdere, con un governo più forte, il loro potere di veto sulle decisioni pubbliche e sulle politiche del Paese.
I padri costituenti, dopo il ventennio fascista, lavorarono ad una Costituzione che favorisse la formazione di governi deboli e quindi un sistema istituzionale non già di “ pesi e contrappesi ” ma di soli contrappesi, in modo da bloccare più facilmente l’azione dei governi, anziché favorirla e sostenerla.
L’instabilità e l’inefficienza dei governi furono per molto tempo, almeno fino agli anni ’90, bilanciate da un sistema di partiti forti e radicati nel Paese.
Finita la Prima Repubblica, combinazione di governi deboli e partiti forti, la Repubblica di oggi vede non solo governi deboli a rappresentarla ma anche partiti senza più la solidità e la forza di una volta, chiaro segno dell’indebolimento della politica rappresentativa e del rafforzamento, invece, di apparati amministrativi con poteri di interdizione e di veto, che lontano da ogni forma di visibilità, nell’ombra, possono esercitare ogni giorno a scapito della politica rappresentativa.
Sarebbe il caso, vista la situazione presente, di fare in modo che sia all’interno del governo, come anche nelle file dell’opposizione, la differenza fra chi vuole veramente rafforzare la politica rappresentativa e chi invece si lascia attrarre da pressioni e lusinghe, alimentate da interessi sempre più numerosi e poteri di veto sempre più radicati, sappia finalmente porsi all’attenzione di tutti.
Altro fallimento fu, proprio agli inizi degli anni Novanta, il cambiamento della legge elettorale, nel vano tentativo di riformare l’assetto costituzionale e quindi la forma di governo. Entrambe le riforme, legge elettorale e governo, devono procedere insieme, altrimenti lo stallo è inevitabile.
L’unico sistema di governo che una società divisa e frammentata si può oggi permettere è quello che abbiamo, trasformistica che, nel tempo, ha garantito alla nostra democrazia l’adattabilità necessaria a fronteggiare ogni genere di pressione. Verissimo quanto detto ma, senza dimenticare che proprio perché questo è il sistema di governo che abbiamo, le generazioni future si ritroveranno a dover fare i conti con un debito pubblico che si preannuncia stratosferico, come pure a sprecare la grande occasione rappresentata dai fondi del PNRR, stante l’attuale situazione.
Angela Casilli, com.unica 21 maggio 2023