La “rivincita” di Julio Velasco, l’oro di Parigi che completa un capolavoro
Dalla “generazione di fenomeni” all’Olimpo del volley femminile, la lezione di un grande maestro dello sport e di vita
La giornata di ieri passerà alla storia non solo per la medaglia d’oro conquistata dalla meravigliosa nazionale di Volley femminile, ma per il coronamento di una carriera straordinaria di un uomo che ha trasformato lo sport in un’arte e in una filosofia di vita. Dopo decenni di successi Julio Velasco ha finalmente aggiunto l’unico trofeo che mancava alla sua impressionante collezione di titoli, chiudendo così un cerchio che lo aveva visto arrivare a un passo dalla gloria con la squadra maschile negli anni Novanta. Quella “generazione di fenomeni” dei vari Zorzi, Giani, Tofoli, Gravina, Bernardi, Cantagalli, Lucchetta che dal 1989 al 1996 aveva dominato nel pianeta con due ori mondiali, tre europei e 5 World League, mancando – di un soffio, nel 1996 ad Atlanta – solo il gradino più alto sul podio olimpico.
Ma quella che da gran parte dei media veniva descritta come una sorta incompletezza non è stata mai vissuta come un ossessione dal diretto interessato. “È un sogno, ma intanto abbiamo già l’argento assicurato – ha detto la sera prima della finale. In Italia si vede sempre quello che non va, l’erba del vicino è sempre più verde. È un modo sbagliato di vedere le cose. Godiamoci quello che abbiamo”. E ha poi aggiunto di vederla in maniera diversa da Roberto Baggio che ancora si rammarica per il rigore sbagliato 30 anni fa nella finale mondiale: “Lui deve vivere in pace, sono cose che succedono – ha sottolineato. Io ho sempre accettato questa cosa, non sono mai stato ossessionato di conquistare per forza questa medaglia d’oro. A me non mancava, non è mai mancata”.
Ma chi è davvero Julio Velasco? Che cosa lo rende diverso dagli altri allenatori? Perché il suo nome evoca qualcosa di più grande del semplice sport?
Per comprendere l’uomo dietro il successo, è necessario scavare oltre la superficie della vittoria olimpica. Velasco non è solo un allenatore; è un filosofo, un affabulatore, un maestro di vita. Nato a La Plata nel 1952, cresciuto nell’Argentina di Juan Domingo Perón e formatosi in un ambiente carico di tensioni politiche e sociali che sfoceranno nella feroce dittatura dei militari, Velasco ha interiorizzato una visione del mondo che lo ha spinto a non accettare mai le cose come sono, ma a cercare costantemente di migliorarle. La sua filosofia si fonda sulla lotta contro la “cultura degli alibi”, quel meccanismo psicologico che giustifica il fallimento attribuendolo a cause esterne. Secondo Velasco, la grandezza di una squadra, e di un individuo, sta nel superare questa trappola mentale: “I vincenti trovano soluzioni, i perdenti cercano alibi.” Questo mantra, ripetuto fino all’ossessione, ha plasmato generazioni di atleti sotto la sua guida, portandoli a superare i propri limiti mentali e fisici.
Il coach argentino ha sempre sostenuto che allenare non sia una scienza, ma un’arte. Questo approccio lo ha portato a sviluppare un metodo basato non solo sulla preparazione tecnica, ma soprattutto sulla costruzione di una mentalità vincente, lavorando incessantemente sulle teste dei suoi giocatori, instillando in loro non solo fiducia, ma anche la consapevolezza che la vittoria si costruisce prima nella mente e poi sul campo. La sua celebre frase “voglio schiacciatori che schiaccino bene palle alzate male” sintetizza perfettamente la sua visione: non si tratta solo di eseguire perfettamente un piano preordinato, ma di adattarsi, di risolvere i problemi, di vincere nonostante le avversità. Questo atteggiamento ha portato l’Italia del Volley maschile a salire in cima al mondo negli anni ’90, e oggi quella femminile a conquistare l’oro olimpico con una superiorità disarmante.
La sua storia personale, segnata da bambino dalla perdita del padre e negli anni giovanili dagli orrori della dittatura militare e dal rapimento del fratello, ha forgiato un carattere che rifugge la superficialità. Il regime di Videla lo aveva costretto a lasciare la sua città natale – dove si era iscritto alla facoltà di Filosofia – per trasferirsi a Buenos Aires perché – diceva – era più facile passare inosservati. E lui era seriamente a rischio per via della militanza nei movimenti studenteschi e nel partito comunista. Ha raccontato che a La Plata uno dei suoi più cari amici, un anarchico, era sparito insieme al fratello e un altro era stato ucciso proprio il giorno del golpe davanti moglie incinta. E suo fratello Luis, studente di Medicina, era sparito per due mesi, prelevato dai militari. Gli hanno riservato un trattamento a dir poco disumano ma fu poi liberato, a differenza di altri suoi compagni che andarono incontro al destino peggiore.
Velasco è un uomo che ha saputo trasformare le sue esperienze di vita in lezioni universali, applicabili tanto nello sport quanto nella vita quotidiana. La sua capacità di raccontare storie, di affascinare e ispirare, lo rende un personaggio unico. Molti ricordano la sua lezione nell’ateneo di Bologna, dove ha raccontato come, per prepararsi a guidare una squadra femminile, abbia chiesto consiglio a una vecchia amica insegnante: “Le ragazze non vogliono sbagliare. Gli uomini vanno frenati, le donne spinte a buttarsi, anche a costo di sbagliare.” Questa comprensione profonda delle dinamiche umane ha fatto di lui non solo un allenatore di successo, ma un vero maestro di vita.
Il cuore della filosofia di Velasco è la costruzione di un gruppo coeso, dove la tattica è condivisa e ogni giocatore è in grado di muoversi per conto proprio. “Uno non è un grande allenatore quando fa muovere il giocatore secondo le proprie intenzioni, ma quando insegna ai giocatori a muoversi per conto loro.” Questo concetto di leadership partecipativa ha rivoluzionato il modo di concepire il gioco di squadra, portando a risultati straordinari non solo in Italia, ma in ogni squadra che ha avuto la fortuna di essere guidata da lui.
Il titolo olimpico non è solo un trofeo per Julio Velasco ma il coronamento di una filosofia di vita che ha trasformato lo sport in qualcosa di molto più grande e che richiede passione, intelligenza emotiva e, soprattutto, la capacità di vedere oltre il risultato immediato. Oggi, con quella medaglia al collo (solo virtuale: non viene data ai coach) non ha solo vinto un’Olimpiade ma ha insegnato a tutti noi che la vera vittoria consiste nel superare i propri limiti, nel non cercare alibi e nel godersi ogni momento, per quanto difficile possa essere.
Sebastiano Catte, com.unica 12 agosto 2024