Tra numeri, emozioni e fedeltà: la cacciata del tecnico giallorosso e il rischio di perdere l’essenza del romanismo

L’esonero di Daniele De Rossi dalla panchina della Roma è uno di quegli eventi che provocano non solo incredulità, ma anche quella specie di nausea mista a rabbia che solo il tradimento di un simbolo può generare. Sì, perché De Rossi non era solo un allenatore, non era nemmeno solo un ex giocatore di talento. Con i suoi 18 anni passati sul campo con la maglia della Roma, è stato ben più di un giocatore, un tecnico o un dirigente. Era, ed è, un simbolo vivente di ciò che la Roma rappresenta per la sua gente, di una fede che va oltre il pallone e che si riassume in una parola che non ha una vera traduzione in altre lingue: romanismo.

Il contesto della cacciata di De Rossi evidenzia come ci siano aspettative a volte irreali nel mondo dello sport, proprio come accade nelle grandi aziende. La Roma, reduce da un inizio disastroso in campionato, aveva comunque mostrato segni di ripresa nelle ultime due partite. E se è vero che i risultati non sono stati quelli sperati, è altrettanto vero che la squadra è stata completata solo a campionato iniziato. Come si può giudicare il lavoro di un allenatore che non ha avuto il tempo e lo spazio per plasmare una rosa creata in ritardo, con giocatori arrivati all’ultimo minuto? Senza dimenticare che Daniele De Rossi aveva già ampiamente mostrato le sue qualità di tecnico preparato e innovativo quando, subentrando nel gennaio scorso a José Mourinho, aveva saputo ridare linfa a una Roma che sembrava smarrita e confusa sotto la guida del tecnico portoghese. Non si trattava solo di carisma – che di certo non gli manca, come può confermare chiunque abbia mai visto un suo intervento a bordo campo – ma anche di capacità tattiche, di lettura delle partite, di gestione del gruppo. In pochi mesi Daniele era riuscito a dare alla squadra una nuova identità, un nuovo ritmo, portando i tifosi a sognare di nuovo. Era riuscito a tirare fuori il meglio da giocatori che con Mourinho sembravano ormai spenti, e lo aveva fatto con la stessa dedizione che aveva messo in ogni contrasto durante i suoi 18 anni di carriera da calciatore. Insomma, De Rossi stava trasformando una squadra che sembrava destinata a una stagione da dimenticare in un gruppo competitivo, capace di lottare su ogni pallone.

La decisione dei Friedkin di interrompere il suo cammino da allenatore, nonostante i recenti segnali di miglioramento, lascia così esterrefatti e richiama alla memoria per certi versi uno dei licenziamenti più clamorosi della storia dell’imprenditoria moderna: quello di Steve Jobs dalla Apple. La comparazione non è forzata, ma piuttosto illuminante se consideriamo quanto un singolo individuo possa rappresentare per l’identità di una squadra, di una città o, come nel caso di Jobs, di un’azienda. Quando John Sculley, l’ex mago del marketing della Pepsi Cola, decise di sbattere fuori Steve Jobs dall’azienda che lui stesso aveva contribuito a fondare e a far crescere, il mondo degli affari sgranò gli occhi, ma molti pensarono: “Beh, alla fine non è che Jobs stesse portando grandi profitti in quel periodo”. Un po’ quello che staranno sostenendo i difensori dei Friedkin adesso: “Tre punti in quattro partite? Dai, basta, dovevamo cambiare!”. Eppure, il genio di Jobs non era misurabile solo dai numeri immediati. La sua visione era più profonda, più radicale, e il suo licenziamento segnò l’inizio di un periodo buio per la Apple, che riuscì a riprendersi solo quando lo riportò a casa, capendo che non era solo questione di vendere computer, ma di incarnare una visione diversa del futuro.

Così, esonerare De Rossi non è solo una mossa tecnica, è una dichiarazione di disinteresse verso il significato più profondo della Roma. Il parallelo con quello che è successo a un’altra bandiera come Paolo Maldini, brutalmente allontanato lo scorso anno dalla dirigenza milanista, è altrettanto doloroso. Anche in quel caso, come con Jobs, sembrava che chi gestiva il club non avesse compreso che certe figure sono insostituibili, non perché non ci siano altri allenatori o giocatori all’altezza, ma perché Maldini e De Rossi sono le loro squadre. Maldini è il Milan e De Rossi è la Roma. Escluderli significa amputare una parte di quel legame emotivo tra club e tifoseria, una cicatrice che non si rimargina facilmente.

Ma torniamo alla questione cruciale: i Friedkin. Da una parte si possono capire i motivi che possono averli spinti a prendere quella decisione. I numeri non erano dalla sua parte: tre punti in quattro partite sono un bottino misero, per una squadra che ambisce a un posto tra le grandi del calcio italiano. Tuttavia, fermarsi ai numeri iniziali è come giudicare un film dal numero di biglietti venduti nella prima settimana di proiezione. I numeri raccontano solo una parte della storia. E, come nel caso di Jobs o di Maldini, è la parte meno importante.

De Rossi aveva firmato un contratto triennale solo pochi mesi fa, segno che la proprietà credeva in lui, o almeno così sembrava. Ma cosa è cambiato in così poco tempo? Forse è cambiata la pazienza, o forse la capacità di guardare oltre il momento contingente. Il suo esonero è una dimostrazione perfetta di come, nel calcio moderno, si tenda sempre più a trattare le squadre come aziende, i giocatori come dipendenti e gli allenatori come meri impiegati. Una mentalità che, in teoria, potrebbe funzionare, ma che in realtà ignora completamente la dimensione emotiva, simbolica e culturale che squadre come la Roma rappresentano per i loro tifosi.

Quando John Sculley licenziò Jobs, lo fece perché credeva che la Apple avesse bisogno di un leader più pratico, più orientato al marketing. Ma Sculley non aveva capito che Jobs non era un semplice imprenditore: era un visionario, qualcuno che aveva capito che la tecnologia non doveva essere solo utile, ma anche bella, intuitiva, quasi magica. Jobs, quando cercava di convincere Sculley a unirsi alla Apple, lo fece con una frase diventata iconica: “Vuoi passare il resto della tua vita a vendere acqua zuccherata o vuoi avere la possibilità di cambiare il mondo?”. Ecco, De Rossi, nella sua storia con la Roma, non era lì per “vendere acqua zuccherata”, ma anche per incarnare un’idea che andava ben oltre i risultati sportivi: era lì per cambiare il mondo dei tifosi, per rappresentare qualcosa di più grande.

Come nel caso di Jobs, la decisione di cacciare De Rossi potrebbe ora avere conseguenze devastanti, non solo per la squadra, ma per l’intero ambiente romanista. Quando si esonera un simbolo, si rischia di perdere il legame emozionale che tiene uniti i tifosi e la società. E questo legame, in una città come Roma, è tutto.

Sebastiano Catte, com.unica 19 settembre 2024

Condividi con