Un anno di grazia e di perdono per l’umanità. L’invito del Papa a unirsi in preghiera

Giubileo, o Anno santo. A pochi mesi dalla riapertura della cosiddetta Porta santa, il 24 dicembre, è bene ricordare che “jubilaeum” viene dal verbo latino “jubilare” (gioire), il verbo della gioia e della riconoscenza.

Fissato a ogni 25 anni, è prima di tutto un evento religioso, carico di significato, da cui è impossibile prescindere. Muove in questa direzione, ma non solo, il Giubileo ordinario bandito da Papa Francesco per il 2025 che, com’è noto, avrà inizio la notte di Natale di quest’anno, nella maestosità della basilica di San Pietro, come sempre occasione di riflessione sul passato e, soprattutto, punto di svolta delle paure e delle speranze per il futuro. Il tema locale e globale è stato ripreso alla Sala stampa della S. Sede nel corso della presentazione di alcune iniziative culturali, presente, con altri, l’arcivescovo Rino Fisichella (nominato alla guida dell’organizzazione giubilare e valente collaboratore del Papa). È toccato a lui illustrare succintamente una lunga serie di manifestazioni di fede che accompagneranno l’Anno santo all’insegna della speranza “la più forte delle virtù”, come ama dire Papa Francesco, proclamata durante la preghiera in solitudine del 20 marzo 2020 dinanzi al Crocifisso miracoloso portato in piazza San Pietro per la pandemia.

Un concetto, quello della speranza, già caro al fine teologo Benedetto XVI, che, citando San Paolo, volle in “Spe Salvi” (nella speranza siamo stati salvati) specificare e sviluppare, e che oggi illumina di luce la concezione di Papa Bergoglio, alla cui base non vi sono interessi particolari, ma motivi universalistici e profondamente umani, così bene espressi in “Fratelli tutti”, enciclica tra le più lette al mondo. I suoi richiami sono netti: dalla fratellanza universale, al dialogo con il mondo, diventato globale, e perciò più complesso, al rispetto del creato di cui noi siamo soltanto i custodi. Anche in “Laudato sì” del 2015, ripresa dopo otto anni in “Laudate Deum”, si parla di difesa della terra, bella ma fragile, di cura della casa comune come la chiama il Papa. Riguarda tutti da vicino e per questo va amata, difesa ogni giorno. Lo chiede a gran voce da tempo.

In particolare tra gli eventi, una rassegna “Armonie di speranza”, e una sequenza di mostre, compresa un’esposizione di icone provenienti da Russia , Ucraina e Siria, e di alcuni dipinti di Salvator Dalì e Marc Chagall, maestri indiscussi, che ebbero un legame particolare con l’Urbe. Ed ecco riapparire “Cento presepi in Vaticano”, allestiti di solito per il Natale sotto il braccio di Carlo Magno su piazza San Pietro, ha detto il curatore don Alessio Geretti, osservando che “un’opera d’arte, incontrata nel modo giusto, è anch’essa una porta verso il trascendente”. Pure il cinema sarà tra gli eventi raccolti nel titolo “Giubileo è cultura”, con il riscoperto film “La porta del cielo” di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, che riporta alla memoria l’inizio degli Anni Quaranta, “girato tra marzo e giugno del 1944, durante l’occupazione neonazista della Capitale” e che ottenne il sostegno delle alte gerarchie vaticane, come ha ricordato monsignor Dario Viganò, uno dei massimi esperti di cinema. Portato sullo schermo nel 1945, il celebre film racconta con immagini in bianco e nero di un pellegrinaggio di malati al santuario mariano di Loreto.

Un percorso appena iniziato, che unisce contributi diversi, mirati ad arricchire il vasto programma di fede, arte e cultura, frutto di collaborazione tra varie istituzioni (Comune di Roma e S. Sede), finalizzata a dare al Giubileo, evento universale, una più evidente significazione, ha detto monsignor Fisichella, a partire dal 2024, Anno della preghiera, la maniera migliore di rivolgersi a Dio, tanto urgente quanto necessaria per il Papa, dati i tempi, in cui sono riprese le guerre, dilagano epidemie, esplodono violenze inesorabili nelle famiglie e nella società. Come ha ricordato nel suo tradizionale discorso al Corpo diplomatico “il Giubileo è un tempo di grazia in cui sperimentare la misericordia di Dio e il dono della sua pace. È un tempo di giustizia in cui i peccati sono rimessi, la riconciliazione supera l’ingiustizia, e la terra si riposa”. E prima ancora “può essere per tutti – cristiani e non – il tempo in cui spezzare le spade e farne aratri, il tempo in cui una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, né si imparerà più l’arte della guerra” (8 gennaio 2024).

L’imminente Giubileo, che avrà per tema “pellegrini di speranza”, fitto di date, che investe, tra gli altri, intellettuali e studiosi, si aprirà anche nel segno della cultura e della storia, avvertito da molti nel mondo come uno straordinario evento che vedrà arrivare a Roma, sede del Vicario di Cristo, gente da ogni angolo della terra, per varcare la Porta santa. Come ormai accade da secoli, cioè da quando la chiesa volle istituire un anno di pace e di perdono nel corso del quale largire l’indulgenza generale a tutti quei fedeli che, pentiti e confessati, l’avessero invocata con fede. Una ricorrenza presente nella coscienza di molta parte delle persone, di diversa estrazione e cultura, sospinte a recarsi presso le tombe dei martiri, momento di preghiera (Statio), a visitare i monumenti della cristianità, capitale inapprezzabile accumulato da secoli di civiltà.

Percorrendo i tempi, Papi e sociologi più e più volte hanno spiegato le significazioni morali del Giubileo, o Anno santo, illustrato circostanze e motivazioni storiche e sociologiche, ma ben pochi, forse, ad oggi, ne hanno un’adeguata conoscenza, ne valutano il significato reale. La domanda allora sarà donde nasca questa parola talora mai del tutto compresa. All’origine della parola “Giubileo” è l’ebraico “Jobhel”. Jobhel è il corno di montone il cui suono annunciava le grandi evenienze spirituali e civili del popolo di Israele. In particolare annunciava e apriva l’anno sabatico. Il Giubileo, appunto. È importante sottolineare il rapporto tra il Jobhel e il Giubileo, evento al quale nessun cristiano può sentirsi estraneo, per comprendere che la chiesa, riprendendo la tradizione sabatica dello Jobhel, l’ha da una parte semplificata e dall’altra integrata.

Dal dizionario storico-religioso, diretto dal padre Pietro Chiocchetta (Editrice Studium, 1966), ordinario di storia della Chiesa nella Pontificia Università Urbaniana, si apprende che il Giubileo cristiano non implica certi rigori assoluti della disciplina sabatica. I cristiani durante l’Anno Santo possono proseguire nelle loro normali attività, diversamente dalle prescrizioni dello Jobhel; purtuttavia devono dedicare più attenzione ai problemi morali della loro condizione umana. A questo fine è rivolto l’invito al pellegrinaggio nei luoghi santi, in particolare Roma, città di cui il Papa è vescovo. Le sue storiche basiliche, le catacombe dei primi martiri, la venerazione delle reliquie dei santi, meta ineluttabile dal medioevo sino ad oggi. Perciò al pellegrinaggio sono connesse le pratiche penitenziali, la confessione e la remissione dei peccati attraverso l’acquisizione dell’indulgenza plenaria. È, dice ancora Chiocchetta, l’interiorizzazione dell’Anno sabatico. Riguardo, invece, alle prescrizioni dell’Anno sabatico, spiega: “è l’anno in cui si compiono 7 periodi di 7 anni ciascuno. Il 7, come tutti sanno, è il numero sacro ed enigmatico della religione ebraica e non solo. È il 50° anno, insomma. Punto di svolta ogni 50 anni”.

Di svolta e di rigenerazione, precisa il noto biblista Salvatore Garofalo, che ha dedicato anni alla riflessione e all’impegno sul fronte del rapporto tra la fede cristiana ed ebraica. Nell’anno giubilare, infatti, gli ebrei dovevano limitare al massimo le normali attività quotidiane e dedicarsi maggiormente alla preghiera e ai riti. Dovevano, fra l’altro, liberare gli schiavi per debiti e riconsegnare le terre ai proprietari insolventi. Secondo le prescrizioni del Levitico la terra doveva essere lasciata riposare, senza nuove colture. I frutti rimasti nei campi erano alla libera disponibilità dei poveri e dei viandanti. Principio di fondo era che la terra è di Dio e da lui è affidata temporaneamente in usufrutto agli uomini.

Proprio perciò, prosegue Garofalo nel commento a importanti studi sulla tradizione ebraica, il riposo della terra troppo sfruttata dalle monoculture è un atto dovuto, accolto e raccomandato dall’economia rurale di ogni popolo. La liberazione degli schiavi e la remissione dei debiti a scadenze prefissate valgono a ristabilire l’ordine sociale violato nel corso degli anni e degli eventi. Le prescrizioni giubilari, insomma, hanno meno di trascendente e più di pragmatico.

È già chiaro il passaggio dal Giubileo ebraico a quello cristiano. Nell’uno e nell’altro, strettamente legati fra loro, si esaltano valori spirituali ed etici, sia pure con risvolti pratici, come punti di riferimento perché l’umanità corregga i suoi errori e intraprenda un nuovo cammino. Si può dire che il Giubileo cristiano si innestò nell’antica tradizione ebraica alla vigilia del 1300 quando il Papa Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo di penitenza e di risveglio spirituale, riallacciandosi oltre che alla tradizione ebraica alla diffusa cultura millenaristica fermentata nel popolo cristiano durante i secoli precedenti. Storicamente il ruolo di Bonifacio sembra sovrastimato. In realtà, inventore e promotore del Giubileo fu il cardinale Jacopo Stefaneschi. Fu lui a proclamarlo dalla loggia di San Pietro. Il Papa vi fu coinvolto per semplice opportunità gerarchica. Tanto è vero che durante l’Anno Santo se ne stette il più possibile lontano da Roma e dai pellegrini. La questione è controversa. In ogni modo il Papa colse quel provvidenziale evento per orientare la coscienza dei popoli cristiani su due filoni primari: l’esigenza della rigenerazione morale e l’affermazione della “plenitudo potestatis” della Chiesa romana. Nessuno, peraltro, può negare che l’evento fu vissuto dai cristiani in un altissimo livello di spiritualità che si espresse nella corale sollecitazione alla fratellanza, al perdono, alla indulgenza verso i peccatori. (Il Bukardo l’aveva preconizzato nel suo “Decretum” addirittura nel 1020).

Così, mentre si avvicina il Giubileo del 2025 – dopo quello straordinario della Misericordia, celebrato tra il 2015 e 2016 – Papa Francesco invita tutti, persone e popoli, a riconfrontarsi con Dio. Ravvisa nella coscienza di ciascuno il desiderio e la speranza di fraterna collaborazione. Una volta di più ci chiede di ancorare l’immediato futuro alla salda speranza di salvezza affinché, scardinate e rimosse le scorie del passato, la giustizia, l’amore e la pace tornino a regnare fra gli uomini.

Parole usate spesso, sempre più spesso, dall’anziano Pontefice (87 anni, il 266° della Chiesa cattolica), riversate in documenti, discorsi e interviste, che pure danno significato a gesti reali, pubblici e privati, compiuti in questi 11 anni dall’elezione e che hanno al primo posto il Vangelo della misericordia, tenuti insieme dalla speranza. Difficile non vederci riferimenti all’umano, doti di dialogo e di apertura al mondo. Dall’esortazione “Evangelii gaudium” nel 2013, alla presa di posizione sulle guerre tuttora in corso (dall’Ucraina alla Russia, da Israele alla Palestina), perorando la causa della pace, il bene supremo. Proseguendo il dialogo tra le fedi, richiamando l’attenzione su giustizia, ambiente, dignità. Parole che tornano insistentemente nel pontificato e che proprio alla vigilia dell’Anno santo aprono spiragli di speranza, assumono per la comunità credente un altissimo valore. È con la bolla (dal latino bulla, sigillo) di indizione, pubblicata il 9 maggio con il titolo “Spem non confundit” (la speranza non delude) che il Pontefice, ufficializzando l’evento, esorta tutti, – nessuno escluso – a riscoprire la dimensione spirituale propria di ogni Anno santo. Il documento, letto in San Pietro, contiene vive raccomandazioni di non sbarrare le porte, ma di spalancarle, avvicinando tutti, senza prevenzione, paternamente. Ma, ciò che per il Papa è determinante è che non venga mai meno la speranza, che non ci si stanchi di pregare. Lui, Pastore e Padre, ha parole di speranza quando, per esempio, incontra i carcerati, e per quanti vivono in condizioni di disagio. La conferma di voler aprire personalmente una Porta santa in carcere riaccende i riflettori sul vecchio Pontefice. Il dolore al ginocchio ne ha limitato la mobilità, non però lo spirito che lo porta a confrontarsi con la contemporaneità. C’è davvero umanità in lui. E si vede da come accarezza la gente, che lo acclama, da come bacia i bambini, da come parla agli anziani. È lontano dalla curia, e questo si vede dal suo eloquio semplice, al punto che decide di non vivere nel Palazzo, dimora storica dei Papi, ma ha scelto di abitare a Santa Marta, per sentirsi nella normalità, nella quotidianità di questo nostro tempo. Disposto a chiedere scusa, se necessario, e non è poco, dispensando consigli a chi reputa, pretenzialmente, di valere o potere di più.

Il dibattito sui più diversi argomenti, l’intrapresa riforma perché la chiesa torni fedele al mandato di Cristo, seppur osteggiata, consentirebbe ad essa di voltare pagina. Resta, insistente, la domanda su quale possa essere il suo ruolo, non sempre rilevante, in questo mondo disumanizzato, in perenne conflitto, senz’anima, certamente avanzato, ma che rischia di rimanere sempre più vuoto. Lontano da Dio, osserva qualcuno, come mai prima.

Giacomo Cesario/com.unica 8 ottobre 2024

*Nella foto in alto: Papa Giovanni Paolo II mentre apre la Porta Santa in occasione del Giubileo straordinario della redenzione nel 1983

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