“Vertical”: il mito di Gigi Riva nelle pagine di Paolo Piras
Un romanzo che supera la biografia. Dall’infanzia sul Lago Maggiore all’abbraccio della Sardegna: l’epica di un legame indissolubile
Esistono libri che attraversano il lettore come un vento d’autunno, lasciando solo una vaga sensazione di movimento. E poi ci sono libri come Vertical. Il romanzo di Gigi Riva del giornalista Paolo Piras (66thand2nd editore, 178 pagine, 17 euro), che non si limitano a raccontare una storia ma la scolpiscono nella memoria. Non solo un’opera dedicata a un campione di calcio ma un romanzo epico che cattura l’essenza di un uomo, Gigi Riva, e del suo legame indissolubile con la Sardegna, trasformandolo in un simbolo capace di mescolare epica e quotidianità, cronaca e poesia, storia personale e memoria collettiva. Piras riesce in un’impresa rara, quella di rendere Gigi Riva una figura quasi omerica, un eroe tragico e moderno che attraversa le avversità della vita con la dignità di chi sceglie sempre la strada più difficile.
Il titolo, Vertical, riecheggia la definizione che il grande Gianni Mura scelse per Riva: Hombre Vertical. In due parole, una filosofia di vita. Verticale non solo in campo, ma soprattutto nella vita, dove Riva ha incarnato l’integrità assoluta. Il suo rifiuto dei milioni offerti dalle grandi squadre del nord Italia per restare a Cagliari non è stato solo una scelta calcistica ma soprattutto un manifesto esistenziale. Paolo Piras coglie con precisione l’essenza di questa verticalità, trovando questo soprannome più calzante rispetto a quello più celebre attribuitogli da Gianni Brera, Rombo di Tuono. Se il secondo cattura la potenza, il primo evoca la dignità e il coraggio di un uomo che non si è mai piegato alle lusinghe né alle difficoltà. “Il tuo è lo spazio dell’eroe – scrive Piras. Lì dentro puoi perdere o vincere, ferirti, risorgere, cedere, migliorare, retrocedere, tagliare il traguardo. Ma l’epica, che racconterà un giorno quello spazio verde, canterà sul tamburo degli esametri una storia perfetta di successo o caduta, di trionfo o dolore. Una storia, comunque essa vada, verticale.”
Piras inizia la narrazione con una scena che si imprime con forza nella mente: i funerali di Riva a Cagliari, il 24 gennaio 2024. “La bara scivola verso il tramonto e intorno si fa un silenzio insensato, trattengono il fiato tutti insieme in trentamila, quarantamila.” È un addio struggente, che eleva Riva a mito, un ultimo tributo di un’isola a colui che l’aveva scelta come patria d’anima. Quella scena non è solo cronaca; è poesia visiva, una tela dipinta con parole che vibrano come corde tese. E Piras, abile artigiano della narrazione, usa questo momento per introdurre il lettore nel percorso umano e sportivo di Gigi Riva rappresentato come quello del ‘viaggio dell’eroe’. Che parte da Leggiuno, piccolo comune sulla “sponda magra” del Lago Maggiore che nella narrazione di Piras non è solo un luogo geografico ma una metafora del principio di un’esistenza segnata dalla lotta contro la privazione. È un’infanzia stretta tra i sacrifici e il dolore, che prende la forma concreta della morte precoce del padre a causa di un incidente sul lavoro in una fabbrica metallurgica, quando il piccolo Luis – così veniva chiamato in famiglia – ha solo 9 anni, e della lontananza forzata dalla madre. Ed è qui che l’autore trova il suo primo campo di battaglia narrativo: descrivere un ragazzino che, abbandonato al destino del collegio – “una sorta di carcere sociale per bambini poveri” – impara presto a non aspettarsi niente da nessuno. Piras restituisce la Leggiuno di quegli anni con una minuzia che sa di cronaca e malinconia: le strade sterrate, le domeniche all’oratorio, il campetto spelacchiato che per il piccolo Luis diventa il regno della fantasia. In queste righe si percepisce già il peso della mancanza, quella “desertificazione affettiva” che accompagnerà Riva per tutta la vita. Ma proprio in quel campo sterrato il futuro Rombo di Tuono inizia a trasformare il dolore in energia, la frustrazione in potenza: un primo passo verso il mito.
Piras sa descrivere con maestria come il calcio, quel gioco che comincia sui campetti polverosi dell’oratorio, diventi per Riva una via di fuga e una promessa di riscatto. E poi c’è il trasferimento a Cagliari, visto inizialmente come un esilio. Ma è qui che l’eroe trova la sua terra d’elezione, un’isola che gli chiede di diventare qualcosa di più di un calciatore: un simbolo di orgoglio e resilienza. La svolta arriva quasi per caso, come spesso accade nei romanzi epici. Ceduto dal Legnano al Cagliari senza nemmeno essere consultato, il giovane Riva si ritrova catapultato in una realtà che, nelle sue stesse parole, sembra una condanna. La Sardegna degli anni ’60, arcaica e isolata, è vista dal continente come un luogo remoto, quasi un confino. Ed è qui che Piras ci regala uno dei passaggi più potenti del libro: la trasformazione dell’esilio in appartenenza. Riva arriva a Cagliari controvoglia, diffidente, quasi in ostaggio di un destino deciso da altri. Sarà soprattutto Arturo Silvestri, l’allenatore che avrebbe portato il Cagliari dalla serie C alla A a caldeggiarne l’acquisto, intravedendo prima degli altri qualcosa in lui che andava oltre il talento calcistico. Soprannominato Sandokan per il suo carattere risoluto di grande combattente, forgiato nella sofferenza e nelle privazioni di un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale, Silvestri intuisce che quel ragazzo taciturno e testardo ha solo bisogno di tempo e spazio per trovare il suo posto e affermarsi. È lui a indirizzarlo alla vita da adulto come un padre e a insistere per trasformarlo da ala in attaccante centrale, un’intuizione che cambierà per sempre il calcio italiano e la carriera di Riva.
Nel romanzo la Sardegna non è solo una terra: è un po’ come personaggio vivo e pulsante, una madre adottiva che accoglie e chiede fedeltà. Piras descrive con una prosa vibrante come questa relazione diventerà il fulcro dell’identità di Riva. Non è un amore a prima vista: è un legame che cresce lentamente, fatto di rispetto reciproco e di una tacita intesa. La Sardegna, con i suoi pastori e i suoi banditi, con la sua natura aspra e il suo orgoglio indomito, diventa lo specchio perfetto del carattere di Riva. Ma essere “fill’e anima”, figlio d’anima, come viene definito nella cultura sarda, non è un privilegio leggero. L’isola chiede in cambio sacrificio e dedizione. “Corri sul campo, segna sul campo, spaccati le gambe, se necessario,” scrive Piras, catturando l’essenza di questa relazione simbiotica. Riva accetta il peso di questa responsabilità, trasformandosi in un simbolo di resistenza e dignità per un popolo che si riconosce in lui. È proprio questa scelta – rimanere fedele a Cagliari, rifiutando le offerte milionarie di Juventus, Milan e Inter – che definisce la sua verticalità.
Il culmine di questa epica è lo scudetto del 1970, un’impresa che Piras racconta con il ritmo di un cantore antico. “Fu l’evento che sancì l’inserimento definitivo della Sardegna nella storia del costume italiano” scriverà al riguardo Gianni Brera qualche anno dopo. La squadra del Cagliari, battezzata nel libro l’Armata Bianca, non è solo un gruppo di calciatori: è un’allegoria di una Sardegna che sfida le gerarchie calcistiche del nord Italia. Con Manlio Scopigno, l’allenatore-filosofo, al timone, e con Riva come leader carismatico, la squadra rossoblu si trasforma in una macchina vincente. Piras descrive quei mesi con una precisione quasi maniacale, intrecciando cronaca sportiva e analisi psicologica. Ma il vero cuore della narrazione è il rapporto tra Riva e i suoi compagni di squadra. Tra questi Nenè, il brasiliano che porta un tocco di magia; Angelo Domenghini, l’instancabile guerriero; Beppe Tomasini, che diventa una sorta di fratello sul campo. Tutti “sardi per vocazione, sardi già da prima, sardi senza sapere di esserlo”, come lo erano anche il capitano Pierluigi Cera, il regista Ricciotti Greatti, Adriano Reginato, Mario Martiradonna, Mario Brugnera. Insieme, rappresentano un’idea di calcio che oggi sembra lontana: fatto di sacrificio, di amicizia, di un legame che va oltre la vittoria. Piras racconta in maniera brillante le dinamiche di squadra, i successi, le cadute, le risalite, disegnando un affresco che va oltre il calcio, diventando una riflessione sulla fratellanza e il sacrificio.
Ciò che rende Vertical speciale non è solo la capacità di raccontare i momenti epici della carriera di Riva, ma anche l’attenzione ai dettagli umani. Alcuni aneddoti, come la famosa “scena del trolley” dopo la vittoria mondiale del 2006, mostrano l’uomo dietro il campione. Riva, che lascia il pullman scoperto per camminare da solo sui sampietrini di Roma, è un’immagine che racchiude tutta la sua essenza: sobria, dignitosa, irriducibile. Con uno stile che unisce la cronaca al lirismo, il romanzo esplora temi universali: il senso di appartenenza, il rapporto con le radici, il prezzo del successo. Vertical è un libro che parla di sport per parlare dell’essere umano, una lettura che commuove e ispira, molto di più di un omaggio a un uomo che, come scrive Piras, “non si fece sciupare dalla realtà”. Particolarmente toccante è il ritratto del Riva più maturo, quello che accetta di lavorare come team manager per gli Azzurri, trovando in questo ruolo un antidoto alla solitudine e alla depressione incombente, un modo per restituire qualcosa al calcio che tanto gli aveva dato.
Alla fine, ciò che rimane è l’immagine di un uomo che ha scelto di vivere secondo i propri principi, che ha saputo essere grande senza mai smettere di essere semplice. Gigi Riva, l’Hombre Vertical, continuerà a ispirare generazioni, non solo per i suoi gol, ma per la sua capacità di camminare a testa alta, in campo e nella vita.
Paolo Piras, giornalista e scrittore, dirige la redazione Esteri a Rai News 24. In precedenza si è occupato di calcio e ha avuto una sua rubrica per La Domenica Sportiva. Ha pubblicato Bravi & Camboni. L’epica minore del Cagliari. Piedi storti, teste matte e colpi di genio (Egg, 2014).
Sebastiano Catte, com.unica 22 gennaio 2025