Le straordinarie corrispondenze tra l’Atlantide di Platone e la Groenlandia
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La versione italiana di uno studio di Felice Vinci pubblicato sulla rivista scientifica americana “Journal of Anthropological and Archaeological Sciences”
Abstract
Da quando il filosofo greco Platone ha raccontato la storia di Atlantide, una grande isola dove in tempi remoti si sarebbe sviluppata una potentissima dinastia di re ma che poi sarebbe tragicamente scomparsa, si è discusso sull’attendibilità del suo racconto e sulla sua possibile localizzazione. In questo articolo cercheremo di dimostrare che vi sono molte prove, precise e convergenti, della reale esistenza di Atlantide, che portano alla sua inequivocabile identificazione con la Groenlandia, l’isola più grande del mondo: le sue dimensioni, la posizione geografica, la peculiare morfologia, le risorse minerarie e molto altro, anche alla luce di elementi provenienti da fonti diverse, anche assai lontane fra loro. E non è un caso che alcune di queste prove stiano emergendo proprio ora. Infatti, anche se la prima proposta di identificazione dell’Atlantide platonica con la Groenlandia risale al XVII secolo, solo adesso gli effetti del riscaldamento globale in corso, unitamente agli ultimi sviluppi tecnologici, ci hanno permesso di acquisire una conoscenza più approfondita non solo della geografia e della geologia di questa isola artica, che è ancora in gran parte ricoperta da una spessa calotta di ghiaccio, ma anche della qualità e dell’importanza delle sue risorse minerarie. Ma ciò che ha recentemente portato la Groenlandia alla ribalta della politica mondiale è stata anche la sua posizione strategica, che appare straordinaria nella prospettiva che l’Oceano Artico fra poco ritorni ad essere navigabile, come lo fu durante l’espansione della civiltà megalitica (avvenuta soprattutto via mare, come verificato da studi recenti), le cui tracce si ritrovano quasi in tutto il mondo.
Introduzione
In questo articolo cercheremo di dimostrare che le caratteristiche, geografiche e non, attribuite da Platone alla mitica isola di Atlantide corrispondono in realtà a quelle della Groenlandia, la vastissima isola situata all’estremità dell’Atlantico settentrionale. Non solo: queste caratteristiche, in particolare la sua posizione geografica strategica unita alle sue ricchezze minerarie, spiegano l’interesse di potenze globali quali gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. A tal fine utilizzeremo una metodologia costituita da un nuovo esame critico di fonti non solo classiche, ma anche appartenenti ad altri contesti letterari e scientifici.
Platone espone il mito di Atlantide in due dei suoi dialoghi, il Timeo e il Crizia, a partire dal momento in cui Crizia, uno degli interlocutori del Timeo, inizia a raccontare il contenuto di una conversazione, riferitagli dal suo bisnonno, che Solone aveva avuto con un sacerdote egizio. In questa narrazione, ampiamente sviluppata nel Crizia, Platone descrive una vastissima isola dove in tempi antichi si sarebbe sviluppata una civiltà avanzata, padrona dei mari e capace di grandi imprese ingegneristiche, che si sarebbe espansa con le sue navi su entrambe le sponde dell’Atlantico.
La reale esistenza di Atlantide fu attivamente discussa durante l’antichità classica. Quasi ignorata nel Medioevo, fu poi riscoperta dagli umanisti dell’era moderna e ispirò le opere utopiche di diversi scrittori rinascimentali, come la “Nuova Atlantide” di Bacone, mentre la maggior parte dei filologi e dei classicisti odierni concorda sulla natura romanzesca della storia [1]. In ogni caso, al tema sono stati dedicati migliaia di libri e di saggi, con le più disparate proposte per la sua ubicazione. In particolare, il primo a proporre l’identificazione dell’Atlantide di Platone con la Groenlandia fu lo scrittore francese François de la Mothe le Vayer (1588-1672), noto per usare lo pseudonimo Orosius Tubero, seguito da altri, tra cui l’italiano Marco Goti [2].
Il mito di Atlantide rappresenta dunque uno dei temi più famosi e dibattuti della mitologia classica: “È vero ciò che Platone narra? Questa è la domanda di chiunque s’avvicina al racconto di Atlantide” [3]. Così Enrico Turolla (1896-1985), uno dei massimi grecisti del secolo scorso, introduce il mito dell’isola scomparsa. A suo avviso, la risposta è senza dubbio positiva: infatti, come afferma subito dopo, Platone “è portatore di una voce che viene da più lontano. Egli ha ricevuto, ha sistemato; non ha inventato; anzi ha conservato fedelmente, come l’accenno al continente al di là del mare senza possibilità di dubbio dimostra”.
Qui il Turolla si riferisce al passo del Timeo in cui Platone afferma che nell’Atlantico, al di là di quell’isola perduta, vi sono altre isole, oltre le quali l’oceano è circondato da una terra che “certamente, veramente, correttissimamente può essere definita un continente” [4]. Dunque, a suo avviso, il fatto che un grande filosofo come Platone, la cui prosa è sempre elegante e controllata, abbia messo in gioco la sua credibilità utilizzando addirittura tre avverbi consecutivi [5] (l’ultimo dei quali al superlativo) per convincere i suoi lettori dell’esistenza di un continente al di là dell’oceano del tutto sconosciuto ai suoi contemporanei, attesta l’attendibilità delle sue affermazioni: infatti noi oggi ben sappiamo che quel continente, scoperto da Cristoforo Colombo nel 1492, esiste davvero!
Leggiamo allora per intero la frase che contiene quel riferimento al continente al di là del mare che ha convinto il professor Turolla dell’attendibilità storica di ciò che Platone racconta su Atlantide:
“Quell’oceano (l’Atlantico) a quel tempo era navigabile, poiché di fronte alla bocca che voi Greci chiamate, come dite, ‘le Colonne d’Ercole’, vi era un’isola più grande della Libia e dell’Asia insieme; e ai viaggiatori di quel tempo era possibile passare da lì ad altre isole, e dalle isole all’intero continente davanti ad esse che circonda quel vero oceano. Infatti, ciò che si trova nella bocca di cui parliamo appare un porto che ha una stretta entrata; ma quello laggiù è un vero e proprio oceano, e la terra che lo circonda veramente, certamente, correttissimamente può essere definita un continente. Ora, in quest’isola Atlantide esisteva una grande e straordinaria potenza di re, che dominava su tutta l’isola ma anche su molte altre isole e parti del continente…” [6].
Ora, prima di continuare, dobbiamo subito rispondere alle comprensibili perplessità sollevate da questo passo: è ragionevole supporre che in un lontano passato l’Oceano Atlantico fosse navigabile? In realtà, abbiamo già cercato di dare una risposta razionale a questa domanda in un articolo precedente [7], di cui ora riportiamo qui i punti salienti. In esso abbiamo innanzi tutto sottolineato che lo storico greco Plutarco (ca. 46-120 d.C.) menziona un “grande continente” [8] che circonda l’Atlantico e le isole che si trovano su quella rotta, e poi si sofferma su un antico insediamento di europei, da lui chiamati “Greci Continentali” [9], nella regione canadese del Golfo del San Lorenzo [10], di cui indica la latitudine con stupefacente precisione. Incrociando questi dati con i risultati di un recente studio sul megalitismo europeo, che sostiene “il trasferimento del concetto megalitico sulle rotte marittime provenienti dalla Francia nord-occidentale e l’avanzata tecnologia marittima e della navigazione nell’era megalitica” [11], ne consegue che il “porto che ha una stretta entrata” menzionato da Platone è identificabile con il Golfo del Morbihan, in Bretagna, considerato dagli studiosi un punto focale del Neolitico europeo durante la metà del V millennio a.C. Ed è proprio qui che, nei pressi della sua “stretta entrata”, come sostiene Platone, si trovano ancora i resti di uno straordinario allineamento di diciannove giganteschi menhir: ecco le Colonne d’Ercole.
Tutto ciò sembra dimostrare l’attendibilità del quadro delineato da Platone, anche considerando che il ricordo di antichi insediamenti europei sul versante americano dell’Atlantico settentrionale – forse legato anche all’estrazione del rame dalle antiche miniere di Isle Royale, l’isola più grande del Lago Superiore – emerge da vari indizi (su cui ci siamo soffermati nell’articolo sopra menzionato), come la persistenza di miti e leggende accostabili a quelli del Vecchio Mondo, nonché i tratti caucasici di alcuni nativi americani, che sembrano confermare l’idea di antichi contatti tra le due sponde opposte dell’Atlantico. D’altro canto, vi sono studiosi che hanno collegato il mito di Atlantide al megalitismo [12], di cui in realtà si trovano tracce in quasi tutto il mondo, insieme a miti e leggende spesso simili tra loro e presenti in civiltà anche molto distanti.
A permettere questa ipotizzata globalizzazione preistorica attraverso la navigazione, che precedette di millenni quella realizzata dalle flotte europee a partire dal XVI secolo, fu l’Optimum Climatico Olocenico (HCO), con temperature medie nettamente superiori a quelle attuali. Infatti, fino al terzo millennio a.C. l’HCO rese verde e umido l’attuale deserto del Sahara [13] e, nel contempo, rendeva navigabile l’Oceano Artico durante l’estate [14]. Ciò favorì le comunicazioni dirette tra l’Atlantico e il Pacifico attraverso una rotta polare, seguendo una facile navigazione costiera lungo la costa settentrionale canadese, evitando così di dover attraversare il pericoloso e lontanissimo Stretto di Magellano, all’estremità meridionale del continente americano.
Torniamo ora alle isole della rotta atlantica a cui fanno riferimento sia Platone, che tra di esse nomina esplicitamente Atlantide, sia il passo di Plutarco sopra citato, il quale delinea un’antica rotta verso il continente americano attraverso quattro isole intermedie, situate ad alta latitudine nell’Atlantico settentrionale. Plutarco menziona per primo l’isola di Ogigia, situata “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, verso il tramonto”; poi menziona altre tre isole situate oltre Ogigia, “tanto distanti l’una dall’altra quanto da essa”, e subito dopo il “grande continente” che circonda il “grande mare” [15]. Qui va sottolineato che si tratta di isole situate ad un’alta latitudine: infatti, come afferma Plutarco, là d’estate i viaggiatori “vedono il sole su un arco di trenta giorni scomparire alla vista per meno di un’ora per notte, anche se con tenebra breve, mentre un crepuscolo balugina ad occidente” [16]. Considerato che in un precedente lavoro abbiamo identificato Ogigia con una delle isole Faroe [17] (che in effetti si trovano “verso il tramonto” rispetto alla punta settentrionale della Scozia durante la stagione della navigazione, cioè attorno al solstizio d’estate, allorché il sole, data l’elevata latitudine, tramonta quasi a nord), quelle tre isole dell’Atlantico settentrionale lungo la rotta verso il continente americano corrispondono all’Islanda, alla Groenlandia e a Terranova, che effettivamente, come dice Plutarco, sono più vicine alla costa dell’America di quanto non lo sia Ogigia.
Questa fotografia che Plutarco fa delle isole che si trovano nell’Atlantico settentrionale, lungo la rotta per il continente americano, appare davvero straordinaria. La sua attendibilità è rafforzata da un’altra sorprendente affermazione, allorché subito dopo ci parla della presenza sulla costa del continente oltremare di “un golfo non meno esteso della Meotide (l’odierno Mar d’Azov, presso la Crimea), la cui foce è esattamente in linea retta con lo sbocco del Mar Caspio” [18]. Secondo Minas Tsikritsis [19], qui il riferimento è al Golfo di San Lorenzo, sulla costa atlantica del Canada: la latitudine del suo sbocco, 47°, è infatti la stessa dello “sbocco del Mar Caspio”, cioè del delta del Volga. Ciò la dice lunga sulle conoscenze geografiche degli antichi e sulla loro capacità di navigare attraverso gli oceani [20].
L’Atlantide di Platone e la Groenlandia
Plutarco afferma che in una di quelle isole settentrionali lungo la rotta per il continente americano “Crono secondo la mitologia dei barbari è tenuto prigioniero da Zeus”, aggiungendo subito dopo che questa parte dell’oceano porta il suo nome: “Mare di Crono” [21]. Confrontiamo questa frase con quanto abbiamo sentito da Platone poco fa: l’Atlantico “a quel tempo era navigabile, poiché di fronte alla bocca che voi Greci chiamate, come dite, ‘le Colonne d’Ercole’, vi era un’isola più grande della Libia e dell’Asia insieme; e ai viaggiatori di quel tempo era possibile passare da lì ad altre isole, e dalle isole all’intero continente davanti ad esse che circonda quel vero oceano”.
Ma è possibile identificare questa enorme isola con un’isola reale? E cosa significa che era “più grande della Libia e dell’Asia insieme”? Per comprendere il senso di questa frase dobbiamo tener presente che in passato la grandezza di un’isola non indicava affatto la sua superficie (la cui misurazione richiede tecniche alquanto sofisticate), bensì la lunghezza della sua costa, che può essere facilmente calcolata, almeno in via approssimativa, navigandovi attorno.
Ecco infatti come Diodoro Siculo indica la grandezza della Britannia (l’odierna Gran Bretagna): “Dei lati della Britannia il più corto, che si estende lungo l’Europa, è di settemilacinquecento stadi, il secondo, dallo Stretto fino alla punta (settentrionale), è di quindicimila stadi, e l’ultimo è di ventimila stadi, cosicché l’intero circuito dell’isola ammonta a quarantaduemilacinquecento stadi” [22]. Del resto, molti secoli dopo anche Cristoforo Colombo procedeva allo stesso modo, come si può vedere dalla sua ‘Lettera a Luis de Santángel’ (datata 15 febbraio 1493), dove tra l’altro afferma che tra le isole da lui scoperte ne esisteva una più grande dell’Inghilterra e della Scozia insieme. A questo riguardo, Luigi De Anna tiene a precisare che “quando Colombo dice che l’isola di Juana è ‘più grande’ intende, essendo marinaio, riferirsi al perimetro costiero e non alla sua superficie” [23].
A questo punto, per comprendere il vero significato della frase “più grande della Libia e dell’Asia insieme” basta dare un’occhiata alla carta geografica. Per indicare la grandezza dell’isola Atlantide, Platone ne paragona il perimetro allo sviluppo costiero della Libia, cioè di tutta l’Africa settentrionale a partire da Gibilterra, a cui aggiunge quello della costa palestinese, del Libano, della Siria e dell’Anatolia fino allo Stretto dei Dardanelli.
Questa lunghezza, corrispondente allo sviluppo dell’intero versante meridionale della costa del Mediterraneo, per l’appunto da Gibilterra ai Dardanelli, supera il perimetro di tutte le isole del mondo, eccettuata la Groenlandia, che, con la sua superficie di oltre 2 milioni di kmq, è di gran lunga l’isola più estesa [24], seguita a distanza dalla Nuova Guinea (la cui superficie è meno della metà). In effetti, la costa molto frastagliata della Groenlandia è lunga ben 39.300 km [25], cioè una lunghezza (quasi equivalente alla circonferenza della Terra all’equatore) molto maggiore di “Libia e Asia insieme”!
A questo punto la Groenlandia, che in realtà si trova sulla rotta per il continente americano indicata sia da Platone che da Plutarco, è l’unica isola sulla Terra che può essere identificata con l’Atlantide di Platone, sia per la sua posizione che per le dimensioni.
Non solo: un’altra conferma di questa identificazione si trova nella sua morfologia. Secondo Platone, nell’isola Atlantide vi era una vasta pianura centrale oblunga “circondata da montagne che si estendevano fino al mare” [26] e in effetti la Groenlandia, al disotto della calotta glaciale che in gran parte attualmente la ricopre, presenta una vastissima depressione circondata da catene montuose (Fig. 1).
Fig. 1 – La Groenlandia nel suo contesto geografico (a sinistra) e l’aspetto della sua superficie al disotto della calotta glaciale (a destra)
Questa depressione centrale, incastonata tra le catene montuose che s’innalzano lungo le coste e che si estende da nord a sud all’incirca tra l’80° e il 66° parallelo, nella sua parte settentrionale è caratterizzata da un enorme canyon (il “Grand Canyon della Groenlandia”, il più grande del mondo), mentre al di sotto del 70° parallelo corrisponde alla bellissima pianura quadrangolare, “che si dice fosse la più bella di tutte le pianure” [27], le cui dimensioni Platone, o meglio la sua fonte, si è premurato di tramandarci: 3000×2000 stadi [28], corrispondenti approssimativamente a 540×360 km.
Tutto ciò consente immediatamente di spiegare il motivo del colossale sistema di canalizzazioni che gli Atlanti avevano creato sia all’interno della pianura stessa che lungo il suo perimetro, dove avevano costruito un enorme fossato quadrangolare, grande al punto da suscitare la meraviglia di Platone, che “riceveva i corsi d’acqua che scendevano dalle montagne, faceva il giro della pianura, tornava da una parte e dall’altra verso la capitale e da lì andava a scaricarsi in mare” [29]. Infatti, in quella particolarissima situazione geografica, era assolutamente necessario regimare le acque che, scendendo dai monti verso la depressione centrale dell’isola (specialmente nella stagione del disgelo), tendevano periodicamente ad inondarla.
Ma ora è il momento di soffermarci sulla capitale dell’isola, il cui nome Platone non ci ha tramandato, e sulla singolare struttura circolare del suo porto. Però conviene innanzi tutto rilevare un dettaglio significativo: la presenza di una sorgente d’acqua calda, menzionata due volte da Platone [30], sulla collina al centro della città, che ben s’inserisce nel quadro geografico qui delineato. In Groenlandia, infatti, le sorgenti termali sono un fenomeno naturale piuttosto comune [31].
Ma dove si trovava questa città? Platone ce lo dice all’inizio del brano in cui racconta dove e come fu costruita: “Presso il mare, ma all’altezza del centro dell’isola, vi era una pianura, che si dice fosse la più bella di tutte le pianure e molto fertile” [32]. Ora, qui basta dare un’occhiata alla mappa della Groenlandia (Fig. 1) per vedere che, mentre la sua costa orientale è tutta bordata da catene montuose, invece sulla costa occidentale, all’altezza della baia di Disko (intorno al 70° parallelo) il mare per un tratto lambisce la pianura centrale.
Non solo: proprio come afferma Platone, la baia di Disko si trova precisamente al centro della costa occidentale dell’isola (Fig. 2).
Fig. 2 – Un’immagine della baia di Disko, con l’omonima isola, e (a destra) la sua posizione esattamente al centro della costa occidentale della Groenlandia, proprio là dove la pianura centrale arriva al mare, come afferma Platone.
Ciò ci dà la conferma di quanto stiamo cercando di dimostrare, ossia che Platone, o meglio, la sua fonte, non solo non ha inventato nulla, ma ha descritto una situazione geografica reale con perfetta cognizione di causa. Pertanto, considerate anche le sue enormi dimensioni, l’isola Atlantide di Platone non può che corrispondere alla Groenlandia.
Ad ulteriore supporto dell’ipotesi che la capitale di Atlantide fosse situata nella zona della baia di Disko (che oltretutto corrisponde al più importante degli antichi insediamenti della Groenlandia, la quale ancora oggi sul versante occidentale, quello rivolto verso il continente americano, gode di un clima migliore), segnaliamo che esiste una mappa della Groenlandia meridionale, realizzata nel 1747 da Emanuel Bowen, in cui è disegnato un lunghissimo canale che parte dalla costa orientale, all’altezza dell’Islanda, e la collega con quella occidentale, sfociando proprio dove si apre la baia di Disko (Fig. 3).
Fig. 3 – Dettaglio della mappa di Bowen a confronto con la mappa del suolo della Groenlandia meridionale attualmente sotto la calotta glaciale.
Su questo canale, la mappa di Bowen reca un’iscrizione rivelatrice: “Si dice che questi stretti fossero in passato percorribili, ma ora sono chiusi dal ghiaccio”. Il riferimento è presumibilmente al “periodo caldo medioevale”, durato all’incirca dal IX al XIII secolo, quando la banchisa polare si ridusse notevolmente all’interno del Mar Artico e il ghiaccio galleggiante divenne molto raro sia attorno all’Islanda, che divenne una terra fiorente, sia di fronte alla Groenlandia.
Quest’ultima, che ora è in gran parte ricoperta dal ghiaccio, era chiamata “Terra Verde” intorno all’anno 1000 d.C., quando la sua parte meridionale fu colonizzata dai Vichinghi norvegesi, a causa della grande estensione di prati che essi vi trovarono al loro arrivo. “L’interpretazione dei dati dei carotaggi di ghiaccio e delle conchiglie suggerisce che tra l’800 e il 1300 d.C. le regioni attorno ai fiordi della Groenlandia meridionale avessero un clima relativamente mite, diversi gradi Celsius più caldo del solito nell’Atlantico settentrionale” [33], con alberi e piante erbacee in crescita e bestiame allevato. L’orzo veniva coltivato come coltura fino al 70° parallelo [34]. Inoltre, come sottolineato da Franco Ortolani, a quel tempo “le paleotemperature evidenziano un marcato incremento della temperatura media, che consentiva la coltivazione dei vigneti in Norvegia” [35].
Per inciso, a quel tempo la vite cresceva anche in Inghilterra: “L’Inghilterra era leader nella coltivazione dell’uva e nella vinificazione per gran parte del Medioevo. Alla fine dell’XI secolo vi erano forse 50 vigneti nella metà meridionale del paese, la maggior parte associati alla Chiesa, che producevano vino. Questi vigneti prosperarono per più di 300 anni, rendendo l’Inghilterra un importante centro della vinificazione europea” [36]; poi però le temperature medie si abbassarono ed ebbe inizio la cosiddetta Piccola Era Glaciale (PEG), durata, con varie oscillazioni, fino a circa il 1850, allorché ha avuto inizio l’attuale fase di riscaldamento. Più in generale, “il cambiamento – ampio, rapido e globale – è più caratteristico del clima della Terra che la stasi” [37].
La mappa di Bowen dimostra la possibilità che nei periodi caldi la calotta glaciale che ricopre la Groenlandia si riduca significativamente (come sta già avvenendo adesso), anzi, che almeno nella parte meridionale dell’isola essa possa ritirarsi fino a scomparire. Ora, nel periodo caldo medioevale un effetto così significativo fu causato da un aumento delle temperature che peraltro rimasero al di sotto di quanto si era verificato millenni prima, durante l’Optimum Climatico Olocenico (HCO) [38]. A ciò bisogna aggiungere che quest’ultimo durò molto più a lungo, per diversi millenni, con conseguenze sullo scioglimento della calotta glaciale che furono certamente molto maggiori. Se ne può dedurre che durante l’HCO, cronologicamente sovrapponibile al Neolitico e alla prima età del Bronzo, una cospicua parte del territorio groenlandese dovette rimanere libera dai ghiacci, consentendo alla civiltà degli Atlanti di svilupparsi, prosperare ed espandersi in tutto il mondo, sfruttando la sua straordinaria posizione geografica tra l’Oceano Artico, l’Atlantico e il Pacifico.
Ma la mappa di Bowen può dirci anche altro: infatti, già a prima vista l’aspetto pressoché rettilineo di quel canale – che partiva da un fiordo sulla costa sud-orientale, all’altezza dell’Islanda, e giungeva alla baia di Disko su quella occidentale, per una lunghezza di oltre 600 km – sembra suggerire che esso possa corrispondere al lato settentrionale dell’enorme fossa quadrangolare che, secondo Crizia, era stata scavata dagli Atlanti attorno alla pianura centrale dell’isola e andava ad intersecare il canale circolare più esterno del porto della capitale di Atlantide. In effetti, quella fossa “riceveva i corsi d’acqua che scendevano dalle montagne, faceva il giro della pianura, tornava da una parte e dall’altra verso la città e da lì andava a scaricarsi in mare” [39].
Questo conferma che la capitale dell’isola, secondo quanto concordemente ci suggeriscono sia il Crizia che la mappa di Bowen, era situata all’incrocio tra il lato settentrionale e quello occidentale della grande fossa che circondava la pianura centrale, e precisamente nella zona della baia di Disko, al centro della costa occidentale della Groenlandia, di fronte all’isola di Baffin ed al continente americano (considerando anche il fatto che il versante occidentale dell’isola gode di un clima più mite di quello orientale).
Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei reperti di quel periodo, attribuibili alla più antica cultura archeologica attualmente nota nella Groenlandia meridionale, quella di Saqqaq (2500-800 a.C.), siano stati rinvenuti nei pressi della baia di Disko, compreso il sito di Saqqaq, da cui quella cultura prende il nome [40]. Tra l’altro, ci sembra anche piuttosto curioso, e forse meritevole di qualche approfondimento, che il nome ‘Disko’ corrisponda al termine greco “diskos” e al latino “discus”, “disco”: ciò infatti sembra richiamare l’aspetto dello straordinario porto circolare di Atlantide, descritto in dettaglio da Platone, su cui ci soffermeremo tra poco.
Tornando al canale della mappa di Bowen, esso doveva essere molto importante per gli antichi navigatori diretti ad Atlantide, provenienti dalle coste europee e dall’Atlantico centrale, che, dopo aver fatto l’ultima tappa in Islanda (corrispondente all’antica Thule), attraverso di esso potevano raggiungere direttamente la capitale situata sulla costa occidentale della Groenlandia, accorciando notevolmente il percorso e senza dover doppiare l’estremità meridionale dell’isola in un mare molto insidioso.
Quanto alla posizione di Thule, alcuni scrittori della tarda epoca classica o dell’alto medioevo, come Orosio, Solino e il monaco irlandese Dicuil la hanno collocata a nord e a ovest delle isole britanniche, suggerendo fortemente che si trattasse dell’Islanda. Questa posizione, sostenuta da Adamo di Brema: “Thule è ora chiamata Islanda, a causa del ghiaccio che ricopre l’oceano” [41], a nostro avviso è la più attendibile. Qui ipotizziamo che questo nome, “Thule”, possa essere ricondotto alla radice protoindoeuropea, *dhwer-, che significa “porta” (da cui il greco ‘thura’, il tedesco ‘Tür’, l’inglese ‘door’, l’antico nordico ‘dyrr’ e il sanscrito ‘duárah’), presumibilmente col significato di “ingresso, porta” della Groenlandia (un po’ come il nome dell’arcipelago delle ‘Florida Keys’ ricorda che quelle isole si trovano di fronte alla Florida).
Infatti, dopo la traversata dell’Atlantico, per i navigatori provenienti dall’Europa l’Islanda rappresentava la “porta” per la Groenlandia, dalla quale è separata da un tratto di mare lungo meno di duecento miglia (che oltretutto a quella latitudine durante la stagione estiva gode di luce ininterrotta). Insomma di fronte a Thule, l’odierna Islanda, si estendeva la montuosa costa orientale di Atlantide.
In particolare, nel Watkins Ridge, un grande massiccio montuoso situato su questo versante – ossia la prima immagine della costa della Groenlandia che appare all’orizzonte ai naviganti provenienti dall’Islanda – si ergono le tre vette più alte della Groenlandia: il Gunnbjørns Fjeld (3.694 m), il Dome e il Cone (Fig. 4), che ci ricordano una frase di Crizia (riferita alle montagne che circondavano la pianura centrale): “E le montagne che la circondavano erano a quel tempo celebrate come superiori a tutte quelle che esistono ora in numero, grandezza e bellezza” [42].
Fig. 4 – Le tre vette più alte della Groenlandia, quasi allineate, nel massiccio del Watkins Ridge.
Tra l’altro notiamo che queste tre vette sono contigue e quasi allineate, con una disposizione che ricorda quella delle tre piramidi di Giza. Qui potremmo forse chiederci se, come Robert Bauval ha proposto per le tre piramidi, gli Atlanti non associassero queste tre grandi montagne alle stelle della Cintura di Orione, considerando quanto fosse importante e universalmente diffusa la corrispondenza tra cielo e terra tra le culture antiche (“Come in alto, così in basso” è la famosa formula tradizionalmente attribuita a Ermete Trismegisto). A questo punto, dati i rapporti che, secondo il Timeo, erano intercorsi fra gli Atlanti e gli antenati degli Egizi, si potrebbe forse ipotizzare che sia stato il ricordo di queste montagne groenlandesi a ispirare la costruzione delle tre piramidi nella piana di Giza [43].
Per quanto riguarda il porto della capitale, esso era costituito da tre canali circolari concentrici, alternati a due cerchi di terra, che circondavano un’isola centrale: “E quest’isola, su cui sorgeva il palazzo reale, aveva un diametro di cinque stadi” [44], pari a circa 900 metri.
Sempre su questo porto dall’aspetto curiosamente circolare, Enrico Turolla, subito dopo aver espresso la sua convinzione che Platone “è portatore di una voce che viene da più lontano”, si chiede se “sarà casuale la coincidenza con la struttura di città messicane preistoriche (…) L’isola con una montagna circondata da anelli concentrici di mura e canali viene raffigurata anche nei disegni aztechi dell’Aztlán, la patria appunto degli Aztechi. Dove è notevole la consonanza Aztlán con Atlante”.
Al riguardo, un collegamento diretto tra la Groenlandia e il mondo azteco, del quale una caratteristica ben nota era il supplizio del cuore strappato dal petto della vittima, si ritrova nella mitologia nordica, dove nel ‘Poema groenlandese di Atli’, ‘Atlakvidha in Grœnlenzka’, Hogni viene suppliziato proprio in questo modo. La dimensione groenlandese di Atli appare anche in un altro poema dell’Edda: ‘Atlamál in Grœnlenzko’. Sempre riguardo ad Atli, fa riflettere anche il fatto che il suo nome sembra richiamare quello di Atlante, primogenito del dio Poseidone e primo re dell’isola Atlantide e degli Atlanti.
Notiamo anche un altro esempio significativo di porto circolare, quello di Cartagine, la città di origine fenicia che ai Romani diede tanti problemi. Anch’esso infatti richiama i cerchi concentrici che Platone attribuisce alla capitale degli Atlanti. Inoltre Cartagine è la patria del misterioso personaggio a cui Plutarco attribuisce le notizie sul continente oltremare e sulle isole dell’Atlantico settentrionale che si trovavano lungo la rotta per raggiungerlo. Costui, che sarebbe vissuto a lungo nell’isola dove “Crono si trova imprigionato da Zeus, e accanto a lui risiede l’antico Briareo, guardiano delle isole e del mare chiamato Cronio”, avrebbe anche detto che Crono a Cartagine “gode di grandi onori” [45]. Insomma gli antenati dei Fenici, antichi navigatori di cui non si conosce l’origine, erano stati probabilmente legati al mondo atlantico.
Risorse minerarie
Un altro importante punto di contatto tra l’Atlantide di Platone e la Groenlandia è la grande ricchezza di risorse minerarie. Riguardo ad Atlantide, Platone afferma che “l’isola forniva la maggior parte delle risorse necessarie alla vita, a partire dai metalli, sia duri che malleabili, che vengono estratti dalle miniere” [46].
Per quanto riguarda la Groenlandia attuale, “Il Center for Minerals and Materials (MiMa) presso GEUS ha appena pubblicato un rapporto che valuta il potenziale di materie prime critiche in Groenlandia (…) Il rapporto mostra che la Groenlandia ha un grande potenziale inutilizzato per materie prime critiche, tra cui i metalli delle terre rare grafite, niobio, metalli del gruppo del platino, molibdeno, tantalio e titanio, tutti già importanti o che lo diventeranno per la transizione verde” [47].
Più in generale, secondo Mark Rowe, “Durante la Guerra Fredda, l’Artico era freddo in tutte le sue forme; letteralmente e anche politicamente, era un posto a parte’, dice Caroline Kennedy-Pipe, responsabile della politica e degli studi internazionali presso l’Università di Loughborough. Dagli anni ’90, con lo scioglimento della Guerra Fredda, lo scioglimento dell’Artico ha accelerato. ‘Quello che accade nell’Artico non rimane nell’Artico. Proprio come lo scioglimento dei ghiacciai artici porta all’innalzamento del livello del mare nel Mediterraneo orientale, così la geopolitica emergente dell’Artico sta influenzando il modo in cui le principali potenze mondiali interagiscono tra loro’ (…) In Groenlandia, lo scioglimento dei ghiacci sta portando alla luce giacimenti minerari che hanno un’alta probabilità di contenere oro, nichel, elementi del gruppo del platino, rame, piombo, zinco, molibdeno, diamanti ed elementi delle terre rare” [48].
Ma ritorniamo a Platone, il quale, dopo aver dichiarato che tra le risorse di Atlantide vi erano tutti i tipi di metalli che si estraggono nelle miniere, sottolinea che vi era “anche quel tipo di metallo che ora è noto solo per il nome ma che allora non era solo un nome, essendovi miniere di esso in molti punti dell’isola: intendo l’oricalco, che era il più prezioso dei metalli allora conosciuti, eccetto l’oro” [49].
Questo passo ci dice che l’oricalco era certamente un metallo prezioso (e non una lega di rame e zinco, come si ritiene oggi) e ciò risulta evidente anche da un altro passo in cui la letteratura greca lo menziona. Ci riferiamo al II Inno Omerico ad Afrodite, nel quale gli orecchini che adornano la statua della dea sono “fiori d’oricalco e d’oro prezioso” (“ánthem’oreikhálkou khrusoîo te timéentos”). Ciò conferma senza ombra di dubbio che si tratta di un metallo nobile, paragonabile in valore all’oro, come Platone afferma. Inoltre, come vedremo tra poco, nel Crizia l’oricalco è menzionato, insieme all’oro e all’argento, tra i metalli preziosi che decoravano il sontuoso tempio di Poseidone.
Ma cos’era l’oricalco? Per identificarlo, dobbiamo tenere presente che nel mondo antico l’oro e l’argento erano gli unici metalli preziosi conosciuti. D’altro canto, il platino (i cui principali giacimenti si trovano nei Monti Urali, in Alaska e in Sud America) rimase sconosciuto in Europa fino a quando Antonio De Ulloa non lo scoprì nel 1735 in giacimenti colombiani, sebbene alcune popolazioni precolombiane già conoscessero questo metallo e lo lavorassero (malgrado la sua elevatissima temperatura di fusione: 1.768°C). Ora, poiché l’oricalco non è una lega ma un vero e proprio metallo, e tutti i metalli esistenti sono inclusi nella tavola periodica degli elementi di Mendeleev, ne consegue che esso è identificabile con il platino. Infatti, il platino è ancora oggi, proprio come allora, il metallo più prezioso insieme all’oro, anche a causa della sua scarsità nella crosta terrestre.
Per quanto riguarda le risorse di elementi del gruppo del platino (PGE) in Groenlandia, esse “hanno attirato interesse già negli anni ’60 e sono state parte dell’esplorazione della Groenlandia a partire dagli anni ’70” [50] (Fig. 5) [51].
Fig. 5: Depositi di elementi del gruppo del platino (PGE) in Groenlandia.
A questo punto, il fatto che anche un metallo così raro si trovi in Groenlandia rappresenta un ulteriore indizio che quest’ultima sia identificabile con l’isola Atlantide. Va altresì notato che le valutazioni della presenza di materie prime nel sottosuolo della Groenlandia si basano su indagini limitate a luoghi (di solito vicini alle coste) dove ora non vi è copertura di ghiaccio. Insomma, poiché il riscaldamento globale nei prossimi anni aumenterà la superficie libera dal ghiaccio, non si possono escludere ulteriori positive sorprese.
Fa inoltre riflettere il fatto che, come afferma Platone, al tempo della fioritura di Atlantide il valore dell’oricalco era paragonabile a quello dell’oro, proprio come lo è adesso il platino. Infatti, attualmente “il platino tende a superare il valore dell’oro durante periodi prolungati di crescita economica o di stabilità monetaria percepita, e a scendere al disotto dell’oro durante periodi prolungati in cui si deteriora la fiducia nell’economia e nel sistema finanziario” [52].
Ciò sembra suggerire che le dinamiche commerciali della civiltà preistorica descritta da Platone, presumibilmente basate sul commercio anche su lunghe distanze, ad onta dei millenni che la separano da noi forse, almeno per certi versi, non fossero troppo diverse da quelle odierne.
A questo proposito, ecco un emozionante “spot”, visivo e sonoro, quasi un’immagine da telegiornale che, grazie a Platone, ci giunge direttamente dall’antichissimo mondo degli Atlanti, consentendoci per un attimo di aprire una breccia nel muro che ci impedisce di vedere la vita quotidiana degli uomini di allora: “…La via marittima e il porto più grande erano pieni di navi e di mercanti provenienti da ogni parte, che a causa della loro moltitudine causavano clamore e tumulto di ogni genere e un frastuono incessante, sia di giorno che di notte” [53].
La fine di Atlantide
Tutto questo insieme di corrispondenze – dimensioni, posizione geografica, morfologia, grandi risorse minerarie – conferma che Atlantide è identificabile con la Groenlandia, ovviamente in un’epoca in cui l’Oceano Artico era navigabile.
A questo punto, però, sorge spontanea un’obiezione. Si ritiene comunemente che l’isola di Atlantide sia stata improvvisamente inghiottita dal mare e quindi i suoi eventuali resti dovrebbero giacere da qualche parte su un fondale oceanico. Dobbiamo quindi esaminare la questione in profondità, rileggendo i passaggi dei due dialoghi di Platone che trattano della fine dell’isola per chiarire questa contraddizione.
In effetti, qui i due dialoghi divergono. Il Crizia, da cui abbiamo tratto molte delle informazioni riportate in precedenza, e in particolare quelle relative alle grandi montagne che circondavano la pianura centrale (assolutamente incompatibili con la repentina scomparsa dell’isola), termina, interrompendosi bruscamente, proprio nel momento in cui nell’assemblea degli dei Zeus sta per annunciare quale tipo di punizione avrebbe inflitto agli Atlanti per la loro crescente e ormai intollerabile iniquità.
Invece il Timeo racconta che, dopo una guerra avvenuta tra gli Atlanti e gli Ateniesi, “successivamente avvennero terrificanti terremoti e cataclismi, e nel giro di un giorno e una notte terribili tutto il vostro esercito fu inghiottito dalla terra, e ugualmente l’isola Atlantide fu inghiottita dal mare e scomparve; per cui anche quel mare adesso è diventato impraticabile e inesplorabile, essendovi ad impedimento il fango molto basso che l’isola inabissandosi ha lasciato” [54]. Qui è evidente che non vi è alcuna traccia di montagne.
Ora, tutto ciò sembra suggerire che il mito di Atlantide sia nato dalla sovrapposizione di due realtà geografiche molto diverse: una, narrata nel Crizia, corrisponde a un’isola molto grande sulle cui coste si ergono molte montagne altissime (che evidentemente non possono sprofondare né tanto meno scomparire), mentre l’altra, quella del Timeo, sembra almeno in parte riferirsi a un’isola piatta che alla fine, a causa di un cataclisma, venne inghiottita dal mare.
Quello che sembra essere il più antico dei due strati, descritto con dovizia di particolari nel Crizia, per molte ottime ragioni, come abbiamo avuto modo di verificare, corrisponde indubbiamente alla Groenlandia, così come la parte della narrazione del Timeo che abbiamo esaminato per prima, la quale fa riferimento alla rotta verso il continente americano e le isole interposte e sottolinea le enormi dimensioni dell’isola, “che era più grande della Libia e dell’Asia insieme”.
Ma cosa si può dire della prosecuzione del racconto del Timeo, che riporta la guerra degli Atlanti con Atene e la loro fine catastrofica a seguito di quello she sembra essere stato una sorta di terrificante tsunami? A questo proposito, vi è una realtà geografica molto particolare, che migliaia di anni fa fu “inghiottita dal mare e scomparve”, alla quale si può associare una qualche ragione per identificarla con quell’isola bassa, improvvisamente scomparsa, menzionata nel Timeo. Ci riferiamo al Dogger Bank, un grande banco di sabbia sommerso, in una zona poco profonda del Mare del Nord, a circa 100 chilometri dalla costa orientale dell’Inghilterra, che si estende per circa 17.600 kmq [55] (Fig. 6).
Fig. 6 – Il Dogger Bank nel Mare del Nord.
Nel Mesolitico esso era ancora una terra emersa, chiamata dagli studiosi moderni Isola Doggerland, che si trovava tra l’Inghilterra e la Danimarca, al largo della costa olandese. Era ciò che rimaneva di un vasto territorio che in un’epoca ancora precedente si estendeva dall’Inghilterra alla penisola dello Jutland (cioè su gran parte dell’attuale Mare del Nord) – la cui esistenza era già stata ipotizzata da Otto Rydbeck [56] all’inizio del secolo scorso – e che sprofondò gradualmente sott’acqua man mano che il progressivo scioglimento dei ghiacci dopo la fine dell’ultima glaciazione innalzò il livello del mare.
Il Doggerland era una terra bassa, senza montagne, con lagune, spiagge, fiumi, paludi e laghi, dove sono state trovate tracce di attività umana (tra cui un arpione in osso lungo 22 cm), nonché resti di animali, come leoni e mammut [57]. Ma pare che la definitiva scomparsa del Doggerland sia stata preceduta da un improvviso evento catastrofico. Intorno al 6200 a.C. l’isola sembrerebbe essere stata sommersa da uno spaventoso tsunami, causato da un’enorme frana sottomarina, la frana di Storegga, avvenuta nell’Atlantico al largo della Norvegia. Si è insomma ipotizzato che i territori costieri sia della Gran Bretagna che dell’Europa continentale, allora estesi su aree ora sommerse, sarebbero stati temporaneamente inondati dal terrificante tsunami innescato dalla frana di Storegga. Questo evento avrebbe avuto un impatto catastrofico sui popoli dell’epoca [58], al punto che si è stimato che addirittura un quarto della popolazione mesolitica della Gran Bretagna possa aver perso la vita [59]. Tuttavia la questione è controversa [60].
Si può supporre che dopo il disastro, che avrebbe cancellato ogni traccia di vita sul Doggerland, ciò che ne rimaneva continuò a sprofondare nel tempo nel mare, il cui livello si alzò sempre di più, fino alla sua definitiva scomparsa; tuttavia, quei sedimenti e fondali fangosi menzionati nel Timeo dovettero restare a lungo in superficie o poco al disotto, ostacolando la navigazione. Non è quindi irragionevole ipotizzare che il ricordo della tragica scomparsa dell’isola piatta del Doggerland (che fosse un avamposto degli Atlanti in territorio europeo?) nel tempo si sia sovrapposto a quello, certamente dovuto al gelo, dell’altra isola, la Groenlandia, ben più grande e geologicamente del tutto diversa, come appare dall’accuratissima descrizione che ne fa il Crizia.
D’altronde, riguardo a quell’Atene con cui gli Atlanti erano in guerra poco prima dello tsunami, Platone stesso afferma che si trattava di una città dall’aspetto molto diverso da quello attuale. In effetti, questa Atene preistorica, fondata e guidata dalla dea Atena e da Efesto, a suo dire si trovava in un territorio completamente diverso da quello dell’Atene greca: “A quell’epoca aveva per montagne alte ondulazioni del terreno; le piane adesso chiamate ‘Campi di Felleo’ erano ricoperte di terra fertile; sulle montagne vi erano grandi foreste (…) L’Acropoli, come esisteva allora, era diversa da quella che è ora (…) ma prima, in un tempo precedente, era vasta al punto da estendersi verso l’Eridano e l’Ilisso, comprendeva al suo interno la Pnice e, dalla parte opposta della Pnice, arrivava fino al Monte Licabetto” [61].
Notiamo che l’ampiezza attribuita da Platone a questa città corrisponde all’aggettivo “ampia” con cui Omero definisce Atene [62], città che, secondo le nostre precedenti ricerche (secondo cui i poemi omerici avrebbero avuto origine da saghe nate nell’Europa settentrionale prima della discesa degli Achei nel Mediterraneo) [63] si sarebbe trovata nel territorio dell’attuale città svedese di Karlskrona, affacciata sulla costa meridionale del Mar Baltico, quindi non molto lontana dal Mare del Nord dove si trova il Dogger Bank. Tra l’altro, tutto ciò spiega anche la stranezza del nome al plurale di Atene, che rimanda alla particolare posizione della sua antenata baltica, la quale si estendeva sia sulla terraferma che sulle isole adiacenti [64].
Quanto alla fine della civiltà degli Atlanti groenlandesi, su cui il Crizia tace perché s’interrompe proprio nel momento in cui Zeus sta per annunciarla (a meno che l’interruzione non sia stata voluta dallo stesso Platone, che forse non sapeva spiegarsi la divergenza rispetto alla fine degli Atlanti del Doggerland, che combatterono contro gli Ateniesi e furono poi travolti dallo tsunami), forse ne troviamo l’ultima memoria nel mondo iranico. Secondo il racconto dell’Avesta (il complesso dei libri sacri dello Zoroastrismo), il dio Ahura Mazda annunciò a Yima, il mitico primo re degli uomini, che una serie di inverni molto rigidi avrebbe distrutto il suo paese e che dopo ci sarebbero stati dieci mesi di inverno e due di estate [65]: ora, questo è il clima attuale delle regioni artiche. È interessante anche notare che il nome Yima è legato al concetto di “gemelli”, tipico dei re di Atlantide [66]. Infatti, nel mondo indù Yima diventa Yama (o Yamarāja), dio della morte e degli inferi, gemello di Yami [67].
D’altronde il ricordo di un antichissimo disastro climatico è rimasto vividamente conservato anche nella memoria di altri popoli. Pensiamo ad esempio al terribile Ragnarok dei miti nordici, il cosiddetto ‘Crepuscolo degli Dèi’: “Lo annuncerà un inverno spaventoso e terribile di nome Fimbulvetr; da ogni parte cadrà la neve vorticando, il freddo sarà intenso e i venti pungenti. Non si godrà più del sole. Tre inverni si susseguiranno e non vi saranno estati di mezzo” [68]. Un altro esempio lo troviamo nei miti arturiani, di origine celtica, dove si parla della ‘Terre Gaste’, “La terra desolata, abbandonata dai suoi abitanti, priva di coltivazioni, immersa in un inverno precoce” [69], a cui forse allude anche il profeta Isaia: “Ecco che il Signore spopola la terra, la devasta, ne altera l’aspetto, ne disperde gli abitanti” [70].
In ogni caso, l’arrivo del gelo e la drammatica conclusione di un’epoca ben si attagliano all’ipotesi della tragica fine della civiltà atlantica in Groenlandia, di cui l’interruzione del Crizia proprio nel momento culminante ci ha purtroppo privato di una testimonianza diretta.
L’Isola Bianca e la Costellazione della Coscia
Ora andremo ad esaminare un testo altro molto lontano dal mondo della Grecia classica. Si tratta di un brano tratto dallo Shanti Parva, che è il libro più lungo del Mahabharata, il grande poema indiano:
“Sulle rive settentrionali dell’Oceano di Latte vi è un’isola di grande splendore, chiamata l’Isola Bianca. Gli uomini che abitano quell’isola hanno carnagioni bianche come i raggi della luna e sono devoti a Narayana. Adoratori di quel Primo fra tutti gli Esseri, sono devoti a Lui con tutta la loro anima (…) In effetti, gli abitanti dell’Isola Bianca adorano un solo Dio (…) Desiderosi ardentemente di contemplarLo e con i nostri cuori pieni di Lui, siamo alla fine arrivati a quella grande isola chiamata l’Isola Bianca” [71].
Ora, anche considerando che “gli uomini che abitano quell’isola hanno carnagioni bianche come i raggi della luna”, l’Oceano di Latte ha tutta l’aria di essere l’Atlantico settentrionale, che spesso, a causa della copertura nuvolosa e della foschia, appare spesso bianco o grigio [72], molto diverso dall’Oceano Indiano. Quanto al nome dell’Isola Bianca, situata sulle sue “rive settentrionali”, ci sembra appropriato al punto da rappresentare di per sé una prova importante a favore della sua identificazione con la Groenlandia: infatti, le navi che arrivavano dall’Islanda, nell’avvicinarsi alla costa orientale di Atlantide, vedevano per prima cosa apparire all’orizzonte le altissime montagne del Watkins Ridge, perennemente ricoperte di neve e di ghiaccio.
Insomma questa citazione dell’Isola Bianca nel Mahabharata indiano ha tutta l’aria di essere un antico ricordo dell’Atlantide di Platone, e trovandosi in un testo molto lontano sia dal mondo classico, sia dalla cultura egizia da cui Platone afferma di aver tratto il suo racconto, rappresenta un’altra preziosa testimonianza a favore dell’effettiva esistenza di quella civiltà e della sua collocazione sulla “grande isola”, come la definisce quel poema, nell’Atlantico settentrionale.
Ma questo brano appare molto significativo anche per un altro motivo. Infatti il dio dell’Isola Bianca, Narayana, “galleggiava sul serpente Ananta (“Infinito”) sulle acque primordiali” [73]. Narayana è, quindi, il corrispondente del dio di Atlantide, Poseidone, signore del mare nonché padre di Atlante e capostipite della potentissima stirpe regale che regnava sull’isola. È infatti a Poseidone che gli Atlanti avevano dedicato il sontuoso tempio, situato nell’isola centrale insieme con la reggia, che Platone descrive in dettaglio: “Era lungo uno stadio, largo tre pletri, alto in proporzione; e nel suo aspetto vi era qualcosa di barbarico. Tutto l’esterno del tempio lo rivestirono d’argento, tranne i pinnacoli, che rivestirono d’oro. Quanto all’interno, fecero il soffitto tutto d’avorio, variegato con oro, argento e oricalco, e tutti gli altri muri, pilastri e pavimenti li ricoprirono di oricalco. E vi posero statue d’oro, una delle quali era quella del Dio in piedi sul suo carro, che guidava sei destrieri alati: la sua figura era così alta da toccare il soffitto, e attorno a lui vi erano cento Nereidi sui delfini” [74].
D’altro canto, l’evidente relazione, che sembra presupporre un’identità primordiale, tra le figure di Poseidone e Narayana è indubbiamente arricchita dal rapporto che avevamo in precedenza trovato tra l’Atli groenlandese, che nella mitologia nordica è sottoposto ad un supplizio tipico del mondo azteco (ma il Turolla aveva già notato l’analogia tra il singolare porto circolare di Atlantide e il mitico Aztlàn), e il nome di Atlante.
Insomma, il mito di Atlantide sta rivelando una dimensione sempre più “internazionale”, che forse nessun altro mito al mondo possiede nella stessa misura. Infatti, oltre che la Grecia e l’Egitto, a questo punto vi appaiono coinvolti anche la mitologia indiana, quella nordica e persino gli Aztechi! Ciò d’altronde appare coerente con la dimensione di potenza globale che Platone attribuisce all’isola perduta, i cui re erano i signori degli oceani.
Ma Narayana ci fornisce ancora un altro spunto. Dalla sua coscia nacque Urvashi, una bellissima ninfa celeste, il cui nome potrebbe derivare da ‘ūru’ [75], “coscia” in sanscrito. Ciò trova un significativo parallelo nella mitologia greca, dove il dio Dioniso nasce dalla coscia di Zeus. Infatti Zeus lo salva ponendolo nella sua coscia dopo aver ucciso con un fulmine la madre, Semele, che lo portava ancora in grembo. E sempre riguardo a Dioniso, nonché all’altro dio del vino, Libero, che ne è il corrispondente nell’antica religione romana, Plinio menziona esplicitamente il loro rapporto con la “coscia” (“meros” in greco): “Molti attribuiscono all’India la città di Nisa e il monte Meru, sacri al padre Libero, da cui deriva la leggenda che lo fa nascere dalla coscia di Giove” [76].
Ma cosa significa “nascere dalla coscia”? Qui viene spontaneo il confronto con il profilo sia della Groenlandia, sia di Atlantide nella mappa di Athanasius Kircher (gesuita tedesco del XVII secolo), che mostra un’enorme isola, da lui situata nell’Atlantico davanti a Gibilterra, dall’aspetto vagamente ovoidale – o meglio: di grande “prosciutto” – con la punta rivolta a sud, che presenta una notevole somiglianza con quella della Groenlandia (Fig. 7). Per inciso, nella mappa di Kircher il nord è indicato verso il basso; pertanto, per confrontarla con la Groenlandia si usa capovolgere la mappa in modo da portare il nord verso l’alto.
Fig. 7 – la Groenlandia e l’Atlantide di Athanasius Kircher.
Qui è evidente l’analogia tra l’aspetto della Groenlandia e la forma di Atlantide riportata dal Kircher, simile a una gigantesca coscia con l’attacco dell’anca a nord e il ginocchio a sud. Tuttavia, Kircher, evidentemente tratto in inganno dalla tradizionale (ed erronea) identificazione delle Colonne d’Ercole con lo Stretto di Gibilterra, ritenne necessario porre Atlantide di fronte a quest’ultimo, il che ovviamente ha fatto perdere credibilità alla sua mappa. Per inciso, sempre nella mappa di Kircher (la cui origine non è nota) sono indicate altre due isole tra Atlantide e il continente americano, una delle quali, la più grande, potrebbe corrispondere all’isola canadese di Baffin, mentre l’altra, più piccola e situata più a nord, potrebbe rappresentare l’ultimo ricordo di Ellesmere.
Tornando alla “coscia” e al greco “meros”, a questo punto notiamo anche che Meropide è il nome di un’isola mitica menzionata dallo scrittore greco Teopompo di Chio e conservata nei frammenti riportati nella “Varia Historia” di Claudio Eliano, che la colloca al di là dell’Oceano Atlantico. Per questo motivo, ma anche per le grandi dimensioni che le vengono attribuite, talora è stata identificata con l’Atlantide di Platone. Inoltre nella letteratura greca troviamo un Merope re di Cos, chiamato “la città dei Meropi” [77]. A questa rete di correlazioni, così intricata da rendere improbabile che siano tutte dovute al caso, potremmo anche aggiungere che il nome di Cos, la città dei Meropi, è a sua volta quasi identico al termine latino “coxa”, “coscia”.
D’altra parte, “gli Egizi (…) chiamavano il Grande Carro ‘Khepesh’, “la Coscia” o “la zampa del bue” [78]. In effetti, la forma della costellazione dell’Orsa, costituita da un quadrilatero rastremato seguito da altre tre stelle, fa pensare a una coscia che continua con una gamba leggermente piegata. Ciò potrebbe suggerire che – in base al vecchio detto che “ciò che è in basso è uguale a ciò che è in alto”, che a sua volta potrebbe richiamare radici più antiche [79] – gli Atlanti considerassero la loro isola a forma di coscia, molto vicina al Polo Nord, come la proiezione sulla Terra del Grande Carro, che in realtà si trova vicino al Polo Nord Celeste. Pertanto, la Coscia Terrestre, cioè la Groenlandia, era forse considerata la corrispondente della Coscia Celeste.
Insomma, come la Francia è chiamata “l’Esagono” per la sua forma e l’Italia è “lo Stivale”, allo stesso modo l’isola di Atlantide era forse “la Coscia”. Possiamo così iniziare a leggere sotto una nuova luce il simbolismo nascosto dietro il bizzarro episodio, narrato da Giamblico, di Pitagora che mostra una “coscia d’oro” ad Abari l’Iperboreo, così come l’immagine di Cristo nell’Apocalisse di Giovanni, in cui spesso riecheggiano concetti molto antichi: “Sulla sua veste e sulla sua coscia ha scritto un nome, Re dei re e Signore dei signori” [80]. Si può dunque supporre che nel mondo antico la “Coscia”, almeno in certi ambienti tradizionali, continuasse ad essere un simbolo del potere regale, considerando altresì che il valore sacro connesso alla “coscia” compare anche nella Bibbia, dove chi pronunciava un giuramento solenne doveva tenere una mano sotto la coscia di colui che glielo chiedeva: “Abramo disse al più anziano dei servi di casa sua, che aveva il governo di tutti i suoi beni: ‘Metti la tua mano sotto la mia coscia e io ti farò giurare per il Signore, il Dio dei cieli e il Dio della terra, che tu (…)’. E il servo pose la mano sotto la coscia di Abramo suo signore, e gli giurò di fare queste cose” [81].
La dimensione marinara di Atlantide e la sua posizione strategica
In questa breve rassegna sull’importanza del simbolo della coscia, legata sia ad Atlantide che alla regalità, dà motivi di riflessione anche una bizzarra frase che Sassone Grammatico, storico medievale danese (c. 1150-1220), fa pronunciare ad Amleto, un personaggio della mitologia nordica che ha ispirato l’Amleto di Shakespeare: “Quando poi, mentre percorrevano la spiaggia, trovato il timone di una nave naufragata, i suoi accompagnatori dissero di aver scovato un coltello di eccezionale grandezza, ‘con questo, disse lui, sarebbe bene affettare un enorme prosciutto’, certamente alludendo al mare, alla cui immensità si adattavano le dimensioni del timone” [82].
Qui Sassone, o meglio il suo Amleto, con studiata nonchalance ci propone una complessa allegoria di immagini, tra cui spicca l’apparente bizzarria di quell’“enorme prosciutto”, che nel loro insieme sembrano evocare un’idea di passata grandezza in un contesto marinaro, su cui però incombe l’inquietante percezione di un antico naufragio: sono tutti aspetti di un discorso che si attaglia perfettamente alla dimensione grandiosa e nel contempo tragica dell’isola scomparsa.
Entrando più nel dettaglio, possiamo tentare di isolare quattro metafore distinte: il timone della nave naufragata, il gigantesco coltello, l’enorme prosciutto, l’immensità del mare. È un linguaggio cifrato espresso con immagini simboliche, dietro cui s’intravvedono come in filigrana i principali aspetti del mito di Atlantide nel racconto del Crizia: il dominio sui mari, la potenza militare, l’immensa vastità dell’isola, il tragico destino finale. In particolare, quell’“enorme prosciutto” (che tanto ricorda la mappa del Kircher) rappresenta plasticamente l’immagine di Atlantide, proiezione sulla terra dell’Orsa Maggiore, che dal cielo vi si riflette e ne condivide la forma e la posizione.
Le parole di Amleto ci riportano alla vocazione marittima degli Atlanti, signori della navigazione, favorita, come abbiamo già detto, dall’Optimum Climatico Olocenico, che durante l’età megalitica consentiva alle navi di transitare tra l’Atlantico e il Pacifico direttamente attraverso il Mare Artico, il quale a quell’epoca era libero dai ghiacci e navigabile durante l’estate. In effetti, la posizione strategica dell’isola nel contesto nordatlantico (Fig. 8) risolve immediatamente l’enigma della diffusione mondiale di miti, leggende e manufatti comuni a popoli anche lontanissimi tra loro.
Fig. 8 – La posizione strategica della Groenlandia tra gli oceani.
Infatti Atlantide, oltre a trovarsi, come dice Platone, di fronte alle coste europee e adiacente al continente americano, si affacciava anche sul Mare Artico, dal quale a quel tempo con una facile navigazione costiera le navi potevano facilmente raggiungere lo Stretto di Bering, da dove sboccavano nell’Oceano Pacifico. Lì costeggiavano per un tratto la costa dell’Alaska fino a trovare l’aliseo di nord-est, che spingeva le loro navi verso la Polinesia, dove le prime isole che incontravano erano le Hawaii (infatti è qui, nell’Isola Hawaii, che in un precedente articolo abbiamo localizzato i mitici Campi Elisi, chiamati Campi di Giunchi dagli antichi Egizi) [83].
A questo proposito, va notato che in diverse isole della Polinesia si trovano imponenti resti megalitici, spesso sorprendenti non solo per le loro dimensioni ma anche per le analogie con monumenti simili sparsi un po’ ovunque nel mondo. Si pensi ad esempio alle enormi costruzioni, realizzate con grandi blocchi di basalto, di Nan Madol nelle Isole Caroline, chiamata “la Venezia del Pacifico”, dove l’area archeologica si estende per 18 kmq su un centinaio di isole artificiali collegate tra loro da una fitta rete di canali. Ma, oltre ai celebri moai dell’Isola di Pasqua, tra i monumenti più suggestivi vi è l’imponente trilite di Tonga, che è stato addirittura paragonato a Stonehenge.
Assai significativo è poi il racconto di uno dei primi incontri tra europei e polinesiani, avvenuto nel 1595 in una delle Isole Marchesi, quando “apparvero circa quattrocento indiani, dalla pelle quasi bianca e di buona statura, alti, robusti e forti (…) Molti di loro sono biondi” [84]. Abbiamo conferma delle caratteristiche caucasiche di alcuni dei nativi polinesiani negli appunti del francese Louis-Antoine de Bougainville, sbarcato a Tahiti nel 1768: “Uomini alti sei piedi e anche di più. Non ho mai incontrato uomini così ben fatti e proporzionati (…) Nulla distingue i loro lineamenti da quelli degli europei” [85]. Ciò appare in linea col fatto che “fra i Marchesani fu constatato il 7,2% fra gli uomini ed il 9,5% fra le donne di occhi azzurri: ciò dimostra l’intervento, sebbene non documentato anamnesticamente, di sangue europeo” [86].
Ai resti megalitici e ai tratti delle persone si aggiungono miti, storie, costumi e strutture sociali: in Polinesia troviamo i miti del Diluvio e della Torre di Babele [87], ma colpisce anche il nome degli Ari’i (Ali’i in alcuni dialetti), i nobili, considerati discendenti degli dei polinesiani. Ma anche il kavu, il “sacerdote” – chiamato kahuna nelle isole Hawaii – è quasi omonimo del koes (kaves in lingua lidio), il sacerdote greco dei riti cabirici (nome accostabile anche all’ebraico cohen e al norreno godhi). E che dire del fatto che due delle più importanti divinità polinesiane, Horo e Raa, il dio del sole, hanno nomi identici agli dei egizi Horus e Ra (anch’egli il dio del sole)? Un caso particolare è poi quello della straordinaria somiglianza, notata da Guillaume de Hevesy [88], tra i caratteri di scrittura ‘rongorongo’ dell’Isola di Pasqua e quelli dell’antica civiltà della Valle dell’Indo, che si trovano esattamente agli antipodi.
Più in generale, da tutto ciò si può dedurre che le coste atlantiche dell’Europa erano direttamente collegate a quelle della Polinesia, dell’Australia, dell’Estremo Oriente e del versante occidentale delle Americhe, attraverso una rotta polare che faceva perno sulla Groenlandia (seguendo questa rotta lo stretto di Bering, cioè la porta del Pacifico, dista dalla Scozia più o meno quanto i Caraibi dalla Spagna, con buona parte del percorso che rimane lungo la costa). Questo era anche il sogno di Colombo, che tra qualche anno sarà di nuovo possibile, a seguito dell’attuale processo di riscaldamento globale. Insomma, la posizione dell’isola Atlantide all’estremità settentrionale dell’Oceano Atlantico dà immediatamente conto delle corrispondenze tra le civiltà del Vecchio e del Nuovo Mondo, e in particolare della diffusione mondiale sia di strutture megalitiche che di racconti mitologici comuni a popoli anche lontanissimi tra loro.
Per quanto riguarda la Groenlandia odierna, ecco un lucida analisi di William Tan: “Situata nel Circolo Polare Artico, la Groenlandia (…) è strategicamente posizionata sulle rotte più brevi che collegano Asia, Europa e Nord America (…) Gli effetti del riscaldamento globale hanno sciolto i ghiacciai artici, aumentando così la superficie abitabile dell’isola e sbloccando nuove risorse naturali come petrolio e minerali (…) Potenze globali come Stati Uniti, Cina e Russia si stanno muovendo per estendere la loro influenza militare ed economica nella regione man mano che diventa più abitabile (…) Il controllo della Groenlandia offre vantaggi militari, economici e politici a queste tre superpotenze che cercano di monitorare i loro avversari globali. Tra avamposti militari, sviluppi tecnologici e infrastrutture minerarie, la possibilità di assicurare il punto d’appoggio geografico ottimale ha trasformato la Groenlandia da una sterile terra di ghiaccio in un hotspot geopolitico (…) Il cambiamento climatico ha aperto l’accesso a riserve inutilizzate di petrolio e gas naturale e a nuove rotte di navigazione tra Asia, Europa e Stati Uniti. Poiché l’Artico contiene il 13% del petrolio non scoperto al mondo e il 30% del gas naturale non scoperto, il controllo della Groenlandia facilita l’accesso a queste risorse naturali” [89].
In questa situazione, diventa di fondamentale importanza conoscere la velocità di scioglimento della calotta glaciale dell’isola. Secondo uno studio recentemente pubblicato su Nature Geoscience, tra il 2016 e il 2021 “Aumenti grandi e significativi del volume delle fenditure si sono verificati nei settori terminali marini con flusso in accelerazione (…) L’accelerazione del flusso di ghiaccio in Groenlandia comporta aumenti significativi delle fenditure in una scala temporale inferiore a cinque anni. Questa risposta indica un meccanismo per controreazioni che promuovono la perdita di massa su scale temporali sub-decennali, tra cui un aumento del distacco, un flusso più rapido e un trasferimento accelerato di acqua al letto” [90]. Insomma, le fenditure nel ghiaccio allargandosi alimentano i meccanismi che fanno muovere più velocemente i ghiacciai della calotta glaciale, ma ciò a sua volta tende ad accelerare il flusso del ghiaccio, portando alla formazione di fenditure sempre più profonde: un feedback che sta velocizzando la perdita di ghiaccio della Groenlandia.
In ogni caso, se nel prossimo futuro lo scioglimento della parte meridionale della calotta glaciale della Groenlandia confermerà l’esistenza del canale quasi rettilineo che, secondo la mappa di Bowen, migliaia di anni fa collegava la baia di Disko alla costa orientale dell’isola, all’altezza dell’Islanda, apparirà ancora più chiaro lo straordinario valore strategico e commerciale di questo antico hub marittimo, situato al centro di una rete globale di trasporto oceanico che dalle coste atlantiche di America, Europa e Africa, passando per quelle canadesi e siberiane, si estendeva – e presto si estenderà di nuovo – verso tutto l’Oceano Pacifico, fino all’Asia e all’Oceania.
Conclusioni
In questo articolo abbiamo verificato che vi sono molte valide ragioni per considerare plausibile l’accostamento tra l’Atlantide di Platone e la Groenlandia, quali la loro posizione, le loro enormi dimensioni (Atlantide era “più grande della Libia e dell’Asia insieme”, coerente col fatto che lo sviluppo della costa groenlandese è quasi equivalente alla circonferenza della Terra), la loro particolarissima morfologia, le loro grandi risorse minerarie (tra cui il platino, metallo molto raro nella crosta terrestre) a cui si deve aggiungere la sorprendente precisione delle indicazioni geografiche di Platone e Plutarco riguardo alle isole lungo la rotta atlantica settentrionale verso il continente americano (della cui reale esistenza Platone si dichiara assolutamente certo). Ma pensiamo anche ad altri dettagli geografici molto precisi, come la corrispondenza tra il punto in cui la depressione centrale di Atlantide si avvicina al mare e la baia di Disko situata al centro del versante occidentale della Groenlandia, o ancora al fatto che in questa chiave si chiarisce immediatamente il significato del nome dell’Isola Bianca “sulle rive settentrionali dell’Oceano di Latte”, abitata da uomini dalla pelle bianchissima, menzionata nel Mahabharata.
In ogni caso, la grande distanza che separa le culture coinvolte nel presente studio attesta l’antichità di queste concezioni, avvalorando l’idea che vi sia stata una civiltà preistorica globale diffusa su tutto il pianeta, di cui Platone ci ha lasciato l’ultimo ricordo tramandandoci il mito di Atlantide, di cui quanto è emerso ora rappresenta un’ulteriore conferma. Ciò implica che nella preistoria sia fiorita una civiltà con adeguate conoscenze nell’arte della navigazione, come confermato da recenti studi sul megalitismo. Tuttavia, questi temi necessitano di ulteriori studi e approfondimenti, che in futuro potrebbero gettare nuova luce sulla preistoria dell’umanità.
Più in generale, si potrebbe dire che da questa identificazione della mitica Atlantide con l’attuale Groenlandia, recentemente riportata alla ribalta della geopolitica in seguito alle attuali prospettive del riscaldamento globale, emerge anche l’universalità delle strategie e delle logiche di comportamento degli uomini di ogni tempo, a partire da una remota preistoria fino al mondo contemporaneo, che in epoche diverse si sono trovati a dover affrontare ciclicamente problemi e situazioni sostanzialmente simili. È questo il concetto espresso nella locuzione latina, tratta da un passo biblico, ‘Nihil sub sole novi’ (“Non vi è nulla di nuovo sotto il sole”).
Riteniamo che il modo migliore per chiudere queste riflessioni sia ricordare nuovamente la frase di Enrico Turolla che abbiamo citato nell’introduzione, con riferimento al racconto dell’isola Atlantide: Platone “è portatore di una voce che viene da più lontano. Egli ha ricevuto, ha sistemato; non ha inventato; anzi ha conservato fedelmente, come l’accenno al continente al di là del mare senza possibilità di dubbio dimostra”.
Felice Vinci, com.unica 17 febbraio 2025
*Il testo originale, in lingua inglese, di questo articolo si trova qui
Riferimenti
1. Cfr. Clay D (2000) The Invention of Atlantis: The Anatomy of a Fiction. In Cleary G, Gurtler G M. (eds) Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy. Vol. 15. Leida, pp. 1–21.
2. Cfr. https://atlantipedia.ie/samples/greenland/ Tra i lavori di studiosi contemporanei che hanno proposto l’identificazione di Atlantide con la Groenlandia, ricordiamo Goti M (2017) Atlantide: mistero svelato, Bologna.
3. Turolla E (1964) I Dialoghi di Platone, Vol. 3, Milano, p. 142.
4. Tim. 25a.
5. Ecco i tre avverbi greci consecutivi usati da Platone: ‘pantelôs’ (“certamente”), ‘alethôs’ (“veramente”), ‘orthótata’ (“correttissimamente”, al superlativo). Ciò attesta quanto Platone fosse certo dell’esistenza del continente al di là dell’oceano.
6. Tim. 24e-25a.
7. Vinci F (2024) A Hypothesis on the Pillars of Heracles and their True Location, in JAAS Vol. 9 – Iss. 3, 202, DOI: 10.32474/JAAS.2024.09.000314 (Versione italiana in: www.agenziacomunica.net/2024/05/20/unipotesi-sulle-colonne-dercole-e-la-loro-reale-localizzazione/).
8. Plut. De Fac. 941a-b.
9. Plut. De Fac. 941c.
10. Cfr. Tsikritsis M (2016) Travelling from Canada to Carthage in 86 AD, Conference Paper.
11. Cfr. Schulz Paulsson B (2019) Radiocarbon dates and Bayesian modeling support maritime diffusion model for megaliths in Europe, in PNAS, vol. 116/9/3465 (https://doi.org/10.1073/pnas.1813268116).
12. Cfr. Castellani V (2005) “Quando il mare sommerse l’Europa”, Torino.
13. Cfr. Gwin P (2024) This incredibly rare burial ground reveals new secrets about the Sahara’s lush, green past. in National Geographic Magazine, 9/2024, p. 84.
14. Cfr. Pinna M (1977) “Climatologia”, Torino.
15. Plut. De Fac. 941a.
16. Plut. De Fac. 941d.
17. Vinci F (2021) I segreti di Omero nel Baltico, Gorizia, p. 31.
18. Plut. De Fac. 941c. La Meotide corrisponde all’attuale Mar d’Azov (la cui estensione, come Plutarco afferma, è effettivamente minore di quella del Golfo del San Lorenzo).
19. Tsikritsis M (2016) Travelling from Canada to Carthage in 86 AD, Conference Paper.
20. L’eccellente conoscenza della geografia al tempo di Plutarco (I secolo d.C.) è attestata anche dalla sua affermazione che la distanza dalla Luna alla Terra è “cinquantasei volte maggiore del raggio della Terra” (De Facie 925d). Infatti, moltiplicando il raggio medio della Terra (6.371 km) per 56, otteniamo una distanza Terra-Luna di 356.776 km, mentre la loro distanza effettiva al perigeo è di 356.500 km.
21. Plut. De Fac. 941a.
22. Diod. Bibl. St. 5.21.3.
23. De Anna L (1993) “Le isole perdute e le isole ritrovate”, Turku, p. 110.
24. La seconda isola più grande del mondo è la Nuova Guinea, che si estende su 785.000 kmq, molto meno della metà della Groenlandia.
25. Cfr. https://www.britannica.com/place/Greenland
26. Criz. 118a.
27. Criz. 113c.
28. Criz. 118a.
29. Criz. 118d.
30. Criz. 113e; 117a.
31. Cfr. https://visitgreenland.com/about-greenland/hot-springs-greenland/ e https://www.usgs.gov/media/images/hot-springs-coexist-icebergs-greenland.
32. Criz. 113c.
33. Arnold C (June 2010) “Cold Did In the Norse”, Earth Magazine, p. 9.
34. Behringer, W (2009). Kulturgeschichte des Klimas: Von der Eiszeit zur globalen Erwärmung, Monaco.
35. Ortolani F (2001) Integralismo ambientale e informazione scientifica, in Atti della Giornata di Studio AIN 2001, Roma, p. 109.
36. https://theinquisitivevintner.wordpress.com/2018/04/01/winemaking-during-the-middle-ages-and-the-renaissance/
37. Alley R, Mayewski P, Peel D, Stauffer B (1996) Twin ice cores from Greenland reveal history of climate change, more. Eos, Transactions American Geophysical Union 77 (22): 209-210.
38. Cfr. Pinna M (1977) Climatologia, Torino.
39. Criz. 118d.
40. Grønnow B (1988). “Prehistory in permafrost: Investigations at the Saqqaq site, Qeqertasussuk, Disco Bay, West Greenland”. Journal of Danish Archaeology. 7 (1): 24-39.
41. “Thyle nunc Island appellatur, a glacie quae oceanum astringit”; Gesta IV, 35.
42. Criz. 118b.
43. Le piramidi di Giza sorgono in un luogo la cui latitudine, 30°, appare piuttosto significativa, anche alla luce del fatto che è pressoché la stessa del luogo in cui fu edificato il Palazzo del Potala a Lhasa, la città santa del Tibet, la cui religione presenta singolari affinità con quella egizia (basti pensare alle 42 divinità del Libro tibetano dei morti, che corrispondono alle 42 antiche divinità egizie incaricate di giudicare le anime dei defunti nell’aldilà). È curioso anche che Giza e Lhasa, oltre a trovarsi sullo stesso parallelo a 30° di latitudine, differiscano esattamente di 60° in longitudine.
44. Criz. 115d-116a.
45. Plut. De Fac. 942c.
46. Criz. 114e.
47. Cfr. “Great potential for critical raw materials in Greenland”, pubblicato il 23-06-2023, in https://www.reuters.com/markets/commodities/greenlands-rich-largely-untapped-mineral-resources-2025-01-13/
48. Rowe M (2022) Arctic nations are squaring up to exploit the region’s rich natural resources, in Geographical Magazine, https://geographical.co.uk/geopolitics/the-world-is-gearing-up-to-mine-the-arctic
49. Criz. 114e. Platone afferma anche che esso “splendeva come il fuoco” (Criz. 116c).
50. PGE deposits in Greenland, in Exploration and Mining in Greenland, Fact sheet no. 24, 2010. Cfr. https://data.geus.dk/pure-pdf/2010_Fact_Sheet_24_PGE_deposits.pdf
51. Figura proveniente da: PGE deposits in Greenland, in Exploration and Mining in Greenland, Fact sheet no. 24, 2010.
52. Platinum versus Gold, in “The Speculative Investor” (Cfr. www.speculative-investor.com/new/article150402.html).
53. Criz. 117e.
54. Tim. 25c-d.
55. Stride A (1959) On the origin of the Dogger Bank in the North Sea, in Geological Magazine. 96 (1): 33.
56. Laviosa Zambotti P (1941) “Le più antiche civiltà nordiche”, Milano, p. 73.
57. White M (2006) Things to do in Doggerland when you’re dead, in World Archaeology 38 (4): 547-575.
58. Weninger B et al. (2008) The catastrophic final flooding of Doggerland by the Storegga Slide tsunami, in Documenta Praehistorica. 35: 1-24.
59. Keys D (2020) How a giant tsunami devastated Britain’s Atlantis, in The Independent, 16 July 2020.
60. Walker J; Gaffney V; Fitch S; Muru M; Fraser A; Bates M; Bates R (2020) A great wave: the Storegga tsunami and the end of Doggerland? In Antiquity 94 (378): 1409-1425.
61. Criz. 111b-112a.
62. Om. Od. 7.80.
63. Cfr. Vinci F (2017) The Nordic Origins of the Iliad and Odyssey: an up-todate survey of the theory. Athens Journal of Mediterranean Studies 3(2): 163-186, doi 10.30958/ajms.3-2-4, https://doi.org/10.30958/ajms.3-2-4. Questa ipotesi spiega tutte le assurdità, geografiche e di altro tipo, connesse alla localizzazione greca dei poemi omerici e consente inoltre di collocare il mondo omerico nel suo reale contesto storico, cioè nella prima età del bronzo nordica.
64. Cfr. Vinci F (2021) I segreti di Omero nel Baltico, Gorizia, p. 220. Il fatto che l’antica Atene nordica si estendesse anche alle isole al largo della costa la collega alla Tebe omerica (l’attuale Täby, vicino a Stoccolma) e a Micene (l’attuale Copenaghen), i cui nomi nelle loro corrispondenti mediterranee sono rimasti anch’essi al plurale, nonostante non sorgessero più sulla riva del mare. Per inciso, una città fondata dai Greci in Sicilia a cavallo tra la costa e un’isola adiacente, Siracusa, aveva il suo nome al plurale sia in greco che in latino: Syracusae. Naturalmente, l’Atene greca non assomigliava alla Atene nordica più di quanto New York e New Orleans assomiglino alla York inglese o alla Orléans francese.
65. Tilak B (1994) La dimora artica nei Veda, Genova, pag. 263.
66. https://en.wikipedia.org/wiki/Jamshid
67. https://en.wikipedia.org/wiki/Yama
68. Chiesa Isnardi G (1996) I miti nordici, Milano, p. 186.
69. Markale J (1982) I Celti, Milano, p. 76.
70. Isaia 24:1.
71. Shanti Parva 337.
72. Infatti i poemi omerici, che secondo la nostra ipotesi sopra menzionata erano originariamente ambientati nell’Europa settentrionale prima della discesa degli Achei nel Mediterraneo, definiscono spesso il mare con l’aggettivo ‘poliós’, “biancastro, grigio”.
73. Cfr. https://www.britannica.com/topic/Narayana-Hindu-deity
74. Criz. 116 d-e.
75. Vemsani L (2021) “Urvashi: Celestial Women and Earthly Heroes”. Feminine Journeys of the Mahabharata. pp. 229–241.
76. Plin. St. Nat. 6.79. Notiamo che da un lato Dioniso, il “dio del Nisa”, come indica il suo nome, è strettamente legato alla navigazione (come appare dall’Inno omerico a lui dedicato), dall’altro nell’Epopea di Gilgamesh “Nisir” è il nome del monte della salvezza dopo il diluvio. Coerente con questo è il fatto che il nome di Libero, anch’egli un dio del vino, corrisponde a quello del monte Lubar, dove, secondo il Libro dei Giubilei, Noè piantò la sua vigna dopo il diluvio.
77. Inno Omerico ad Apollo, v. 42.
78. Davis G Jr (1946), The Origin of Ursa Major, in Popular Astronomy, Vol. 54 (Fornito da SAO/NASA Astrophysics Data System), p.111.
79. Ad esempio, i Sette Colli di Roma erano considerati la proiezione delle sette Pleiadi sulla Terra (il discorso può essere esteso anche a molte altre città antiche sui sette colli, come Gerusalemme, Teheran, Armagh, La Mecca, Bisanzio e molte altre). Cfr. Nissan E; Maiuri A; Vinci F (2019) Reflected in Heaven, Part Two. MHNH 19: 87-166. V. anche https://www.editorpress.it/en/ovid-the-pleiades-the-secret-name-of-rome-and-other-cities-with-seven-hills
80. Giov. Apocal. 19:16.
81. Genes. 24:2-9.
82. Koch L, Cipolla M A (eds.) (1993), Sassone Grammatico. Gesta dei re e degli eroi danesi, Torino.
83. Cfr. Vinci F, Maiuri A (2023) Some Striking Indicazions that the Mythical Elysian Fields Were in Polynesia, in AJMS 9(2): 85-96 (Versione italiana in: www.agenziacomunica.net/2023/05/02/felice-vinci-i-campi-elisi-in-polinesia/).
84. Surdich F (2015) “Verso i Mari del Sud”, Roma, p. 50.
85. Ibid., p. 171.
86. Enciclopedia Italiana Treccani, voce “Polinesiani, Antropologia”.
87. Caillot E (1914) Mythes, légendes et traditions des Polynésiens. Paris, p. 10.
88. De Hevesy G (1933) Sur une écriture océainienne paraissant d’origine néolitique (On an Oceanic writing appearing to be of Neolithic origin), in Bulletin de la Société Préhistorique Française, 1933, 30-7-8, pp. 434-449.
89. Tan W (2024) The Coldest Geopolitical Hotspot: Global Powers Vie for Arctic Dominance over Greenland, in HIR Harvard International Review. https://hir.harvard.edu/the-coldest-geopolitical-hotspot-global-powers-vie-for-arctic-dominance-over-greenland/
90. Chudley T R, Howat I M, King M D et al. (2025) Increased crevassing across accelerating Greenland Ice Sheet margins, Nat. Geosci.