Viviamo in un’epoca di semplificazioni assolute, di esagerazioni dettate dalla pancia e di tragica mancanza di buon senso. Un’epoca in cui manca la memoria ma ancor più la razionalità, non si tiene più conto di numeri, proporzioni e contesti. Non si capisce che la complessità non si affronta e non si risolve con i proclami ma con un lavoro faticoso in cui l’egoismo dei singoli (siano essi Stati, Regioni o Comuni) rischia di essere letale.

Lo scorso anno sono arrivati dal mare 170 mila migranti (nei primi cinque mesi e mezzo del 2015 sono 56 mila) e questo ha avuto il potere di destabilizzare un’Unione europea di ben 500 milioni di persone e di mettere in scena un vero e proprio psicodramma. Significa che gli arrivi sono pari a uno ogni 3000 abitanti, ma ogni nazione si è chiusa a riccio, interpretando a suo favore le regole e chiudendo a singhiozzo le frontiere.

Negli ultimi tre anni in Turchia, nazione con 75 milioni di cittadini, i rifugiati arrivati dalla Siria e dall’Iraq sono stati oltre due milioni: uno ogni 35 abitanti. Duecentomila sono arrivati in pochi mesi solo dall’area di Kobane per sfuggire all’offensiva dell’Isis. I turchi per gestire una migrazione di queste proporzioni stanno spendendo 6 miliardi di dollari l’anno a cui – ci racconta oggi l’ambasciatore di Ankara in Italia – la comunità internazionale collabora con soli 400 milioni. Ma non è il solo esempio della nostra miopia: in Libano si sono rifugiati 2 milioni di siriani, una cifra immensa e spaventosa se si tiene conto che i libanesi sono solo 4 milioni. E’ come se da noi italiani si scaricassero 30 milioni di rifugiati…

Tutto questo non diminuisce di certo il disagio, i problemi e i rischi che gli italiani devono affrontare e non ci rassicura, ma forse può aiutarci ad avere una visione più oggettiva di quello che sta accadendo. Tutto questo dovrebbe invece spingere tutti a mettere in atto politiche nuove che abbiano come obiettivo quello di cercare di gestire i flussi e, per quanto possibile, di rallentarli, agendo in Nord Africa, procedendo anche con le espulsioni, garantendo sicurezza e legalità.

L’Europa ha cominciato a discutere un piano di rimpatri per coloro che non hanno i requisiti per restare come rifugiati ma latita nel definire quote di accoglienza. Se la prima è una strada che andrà necessariamente percorsa, non può però prescindere dalla realtà quotidiana degli sbarchi e della necessaria accoglienza.

Ci preoccupiamo della sicurezza e delle questioni igienico-sanitarie? Bene, allora non abbandoniamo la gente in mezzo alla strada, sotto i ponti o nelle stazioni. È un discorso che vale per i Paesi della Ue come per le regioni: lo scarica-barile non migliora la situazione serve solo a fare propaganda politica.

E quei barconi che arrivano ogni giorno non possono essere l’alibi per un racconto della realtà completamente emotivo e slegato dalla verità. Quando si parla di tassi di criminalità, di pirati della strada o di stazioni insicure si fa bene a pretendere più severità e un maggiore controllo del territorio, ma non raccontiamoci che prima vivevamo nel Paese delle fate. Lo dicono le statistiche ma anche la memoria.

Le bande di stranieri che fanno le rapine nelle case sono un’emergenza? Vanno affrontate con più forze dell’ordine nelle nostre province, ma non fingiamo di non ricordare anni di malavita italiana o la drammatica stagione dei rapimenti. «Investono la gente ubriachi e drogati!». Guardate ai fatti di cronaca, ai pirati della strada, e nella maggioranza dei casi troverete rispettabili padri di famiglia italiani o i loro figli. Chi ha ucciso un quindicenne a Monza a marzo e poi è scappato non era un rom ma un quarantenne brianzolo con un’Audi.

«Sono pericolosi ed efferati!». Olindo e Rosa non sono musulmani, Yara non pare sia stata uccisa da un albanese e la cronaca quotidiana è piena zeppa di delinquenti italiani. Le stazioni oggi ci fanno paura? Ce ne accorgiamo perché sono luoghi più belli e puliti di quanto non lo fossero 10 o 20 anni fa, con i negozi, i bar, i ristoranti e allora lo notiamo. A me la Stazione Centrale di Milano o Roma Termini facevano molta più paura vent’anni fa, piene di tossici e spacciatori.

Questi sono i problemi della nostra epoca, migrazioni dovute a guerre, estremismo, miseria, fame e cambiamenti climatici. Non possiamo pensare di arrenderci o soccombere ma nemmeno di nascondere il problema o scaricarlo sul vicino, bisogna avere il coraggio di essere adulti, chiamare tutti alle responsabilità e chiamare le cose con il loro nome. Costruire percorsi virtuosi (di accoglienza, studio, rispetto delle regole per chi ha i requisiti) e insieme meccanismi di rimpatrio e di aiuto ai Paesi da cui partono, ma evitare di voltare la testa dall’altra parte regalando migliaia di disperati al lavoro nero e alla criminalità organizzata.

(La Stampa, 14 giugno 2015)

Articolo di Mario Calabresi, LA STAMPA

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