L’avventura romana dell’ingegner Gadda
Un milanese che diventa romano è già un piccolo, ma non infrequente, caso. Un milanese come Carlo Emilio Gadda, romano di adozione, fa invece caso a sé: quando, dopo aver messo piede in diverse case e pensioni, arriva al 19 di via Blumenstihl, sopra via Trionfale, l’Ingegnere ha già parecchia confidenza, a modo suo, con la Capitale.
Trasloca nel dicembre 1955: «Il nuovo alloggetto, misero bugigattolo per ripararvi le ossa, è in una palazzina di diciotto appartamenti. Sto al 19, con ascensore al secondo piano, interno 13», così scrive al cugino.
Nel ’57, quando arriva in libreria il suo grande romanzo romano, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, fa inserire sulla bandella un ironico autoritratto in panni romani: «Vive nella capitale della Repubblica a quattordici chilometri dal centro, in una casa di civile abitazione, confortata nottetempo dagli ululati dei lupi e tutto il giorno da guaiti di copiosissima prole, non sua, ma egualmente cara e benedetta. “Che cosa fai tutto il giorno?” gli chiedono le persone indaffarate: “Non ti muovi mai?” “No: non mi muovo”».
Eppure, al di là dei suoi precedenti indirizzi (via della Mercede, la prima di una lunga serie di abitazioni occupata negli Anni Venti e via Vittorio Colonna dove arrivò nell’agosto del ’44), Gadda dev’essersi pur mosso dentro Roma. In modo misterioso, come tutto ciò che lo riguarda, e imprevedibile, è riuscito a impadronirsi della città, dei suoi umori, della sua voce. Così, il burattinaio di via Blumenstihl muove i personaggi impelagati in un giallo quasi senza soluzione, lascia che vadano a prendere aria e buon vino ai Castelli, sì, ma li pedina soprattutto per le vie dell’Urbe. Come fosse lui il commissario.
Pompeo, agente in borghese, frequenta il “Maccheronaro” a via del Gesù, il Commendatore Angeloni percorre via Panisperna, Peppe Valdarena viale Regina Margherita, Ascanio Lanciani piazza Vittorio, il commissario don Ciccio Ingravallo staziona nel commissariato in via Santo Stefano del Cracco. Remo Balducci, rimasto vedovo, si trasferisce all’Hotel D’Azeglio in via Cavour. E se la povera Liliana è sepolta al Verano, il suo inventore Gadda riposa nel cimitero acattolico di Testaccio.
Lascia Roma e la sua vita nel maggio del ’73, ed è a ridosso dell’addio che si spinge il dialogo, non solo epistolare, col più giovane Goffredo Parise, raccolto in Se mi vede Cecchi, sono fritto. Corrispondenza e scritti 1962-1973, appena pubblicato da Adelphi (pp. 356, euro 18). Il curatore Domenico Scarpa, con passione ed estrema cura, ci accompagna nelle pieghe di un rapporto insolito: cerimonioso, nevrotico, da parte gaddiana, come alle solite, ma anche venato di autentico e pudicissimo affetto.
Paterno o filiale? Perché Gadda spesso si affida a Parise, anche per questioni editoriali, si lascia accudire da lontano, compatire se necessario. «Non sto bene, nessuno vuole credermi; ma le mie condizioni vanno lentamente declinando e potrebbero da un momento all’altro farsi gravi». Tutto è un problema, tutto è disagio. Ogni piccola questione pratica, ogni relazione umana. «Quanto vorrei vederti, e chiacchierare un po’ con te!» scrive accorato il settantenne Gadda al trentenne Parise, «non dimenticarmi!».
Parise non lo dimentica, lo ammira, lo segue, lo sostiene, lo sprona, fa da mediatore con gli editori. E si sfoga, anche lui, contro i costumi della società letteraria italiana di cui comunque fa parte, della società italiana in genere: «Che fracassino gli ossicini dei futuri burocrati in scarpe lustre, dei questurini futuri, degli asini da ultimo banco a venire». Lo spirito caustico e risentito del maestro è stato assorbito dall’allievo, o era già in lui? Fatto è che si legge con gran gusto questo colloquio a distanza, che illumina ulteriormente la figura di Gadda, ormai quasi un’opera a sé, monumentale come quella letteraria.
È proprio Parise a sostenere, in uno scritto ripreso in appendice al volume, l’opportunità di una biografia dell’Ingegnere «fatta esclusivamente di aneddoti». Non era solo timido, scontroso, nevrotico e noioso come lo definì Montale: era anche «l’uomo più spiritoso e dotato di humour di tutta la letteratura italiana. La sua persona, il suo modo di muoversi, il suo modo di parlare erano una grande, allegrissima e comicissima avventura umana». Catturata qui per lampi sotto il cielo di Roma, zona Monte Mario, via Blumenstihl al numero 19 – strada tranquilla, in discesa; in casa ovviamente scaffali pieni di libri, ma sulle pareti nemmeno un quadro: «Mi dà fastidio il chiodo che entra nel muro».
(Il Messaggero, 29 giugno 2015)
Articolo di Paolo Di Paolo, IL MESSAGGERO