Un tracciato di integrazione in una scuola laboratorio di uno dei quartieri più poveri e multietnici di Torino. L’editoriale del direttore de “La Stampa” Maurizio Molinari.

C’è un angolo di Italia dove i figli dei migranti si formano sui valori della Costituzione repubblicana. Per scoprirlo bisogna addentrarsi in Barriera di Milano, uno dei quartieri più poveri e multietnici di Torino, perché ospita una scuola-laboratorio dove bambini siriani, nigeriani, marocchini, peruviani ed indiani crescono, assieme ai coetanei italiani, impossessandosi degli insegnamenti che risalgono alla genesi della Repubblica. Maria Chiara Guerra è l’insegnante precaria che ha scommesso su questo progetto trovando nell’Istituto storico della Resistenza di Torino un partner altrettanto visionario e determinato. Ne è nato un programma didattico per classi elementari che consente ai più piccoli di conoscere – con un linguaggio misurato sudi loro – quanto avvenne durante la Seconda guerra mondiale nel nostro Paese.

Il primo risultato è arrivato quando Luciano Boccalatte, direttore dell’Istituto, ha portato nella scuola elementare multietnica di Barriera di Milano, una copia del diario di Elena Ottolenghi, una bambina ebrea colpita 80 anni fa delle Leggi Razziali volute dal fascismo di Mussolini per ingraziarsi la Germania di Hider. Le pagine in cui la piccola Elena descrive lo choc di essere espulsa da scuola solo perché ebrea, ricordando i suoi insegnanti che la tenevano improvvisamente a distanza, sono così finite nelle mani di bambini arabi e musulmani che mai avevano sentito parlare di persecuzione degli ebrei durante la Shoah. Al tempo stesso i racconti dei partigiani italiani protagonisti della resistenza armata contro l’occupazione tedesca hanno portato alcuni bambini siriani a fare con le maestre riflessioni del tipo: «Anziché fuggire in massa, gli uomini della mia città sarebbero dovuti rimanere e battersi contro il regime di Assad, proprio come fecero i partigiani italiani per il loro Paese».

Insomma, è bastato avvicinare bambini stranieri a tasselli della nostra memoria nazionale per vederli appropriarsi, in tempo record, di valori fondanti della nostra identità collettiva come la ferita delle Leggi Razziali del 1938 ed il coraggio dei combattenti antinazisti. Con effetti a pioggia fra i coetanei perché, improvvisamente, la «piccola Elena» e i «partigiani sulle montagne» sono diventati compagni di tutti. A prescindere da lingue di nascita, Paesi e culture di provenienza. Per avere idea del valore di quanto sta maturando nella inconsueta cornice della Barriera di Milano dobbiamo inquadrarlo in una cornice più ampia. Andrè Azoulay, veterano fra i consiglieri del sovrano del Marocco, crede al punto nella formula del «contagio culturale» fra Oriente ed Occidente da aver fondato «Aladin» ovvero un ente benefico che ogni anno porta dozzine di giovani arabi da Rabat in Israele per consentirgli di visitare lo Yad Va-Shem – il museo della Shoah – e incontrare dei sopravvissuti in carne ed ossa. E Bernard Lewis, il grande orientalista anglo-americano recentemente scomparso a 102 anni di età, quando si trovo dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 a riflettere sulla strada per ricongiungere l’Islam all’Occidente, sottolineo l’importanza di «far studiare la storia dell’Europa alle nuove generazioni di arabi» perché «il problema è che mentre noi conosciamo il loro passato, loro non studiano nelle università del Cairo e di Baghdad le rivoluzioni americana e francese».

Nell’opera della scuola-laboratorio di Barriera di Milano si ritrovano tanto l’intuizione di Azoulay che il suggerimento di Bernard Lewis, indicando un possibile tracciato per l’integrazione dei figli di migranti che si vengono a trovare nel nostro Paese e, più in generale, in Europa. È un percorso, lontano da ogni tipo di sfruttamento politico e confronto ideologico, che offre l’occasione di riflettere sulla doppia opportunità che abbiamo davanti: da un lato i valori della Costituzione come vettori per formare i più giovani, anche se provenienti da altre latitudini, e dall’altro lo slancio che i figli dei migranti possiedono verso le culture portatrici di concreta volontà di accoglienza. Ma non è tutto perché quando dei bambini arabi si identificano spontaneamente con una coetanea ebrea perseguitata o con un partigiano antifascista abbiamo la conferma che nulla è più condivisibile e contagioso dell’amore per la libertà.

Maurizio Molinari, La Stampa 30 settembre 2018

Condividi con